Erdogan dopo Erdogan
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Alvise Pozzi)
Nonostante qualche piccolo cambio di rotta in politica estera, procede spedita l’erdoganizzazione dello Stato turco.
La Turchia è sotto assedio; nemici interni ed esterni congiurano per destabilizzare il Paese anatolico. Terroristi curdi e dell’Isis, gruppi eversivi marxisti, complotti militari guidati dall’estero, kemalisti e oppositori cercano in tutti i modi di colpire lo Stato e far cadere il governo di Erdogan. Il sultano però sembra a suo agio nel gestire la costante emergenza; sfruttando il difficile momento, procede spedito verso il suo progetto di presidenzialismo assoluto e di smantellamento della laicità dello Stato. Anzi, la sindrome da accerchiamento, favorisce l’imposizione di misure sempre più restrittive della libertà personale e consolida la base elettorale del Akp attorno al senso d’impellente minaccia.
La verità è che la Turchia, dopo quindici anni di governo Erdogan, non ha più amici né alleati affidabili: non lo è più l’America né la Nato, visti come ambigui partner probabilmente coinvolti nel tentativo di golpe fallito; non lo è più Israele dopo i fatti della Freedom Flottiglia; non lo sono più gli oppositori siriani abbandonati al loro destino per arginare il problema curdo e nemmeno l’Arabia Saudita, infastidita dal voltafaccia nei confronti dello Stato Islamico; né tantomeno la Russia con cui esclusivamente per realpolitik si è tornati a discutere e, tantomeno, l’Unione Europea i cui rapporti sono ai minimi storici.
Proprio Bruxelles è la principale imputata e corresponsabile della svolta autoritaria del sultano. Appena salito al potere nel 2002, Erdogan giocò la carta dell’integrazione europea per smantellare lo Stato kemalista; con il beneplacito delle cancellerie del Vecchio Continente l’Akp ridusse il potere dei militari, abolì la pena di morte – che oggi vuole reintrodurre – e riformò gradualmente la Costituzione. L’Akp piaceva: un partito islamista moderato con una netta predilezione per il business e gli affari, sembrava cosa gradita all’Occidente e al sistema finanziario. Pochi allora fecero caso alle dichiarazioni di Erdogan, quando era ancora solo sindaco di Istanbul, in cui affermò “la democrazia è come un tram, si va fino a dove si deve andare e poi si scende”. Ecco, oggi il Sultano è sceso; come aveva promesso lucidamente nel 1996.
Consolidato il potere e sbarazzatosi del vecchio alleato Gul, Erdogan si mise subito all’opera per il suo progetto neo-ottomano, ergendosi a paladino dell’islam sunnita. La modernizzazione del Paese creata dal “padre della patria” era una parentesi da cancellare e l’avvicinamento all’Europa e agli Stati Uniti un errore. Erdogan infatti non ha mai voluto veramente iniziare il processo di adesione al progetto europeo; l’ha usato come pretesto per smantellare i vecchi apparati di potere e controllo e sostituirli con i propri. D’altronde con un’Unione Europea che arranca in una stagnazione perdurante mentre l’economia turca viaggiava a ritmi sostenuti, non era poi così desiderabile l’ingresso nella moneta unica.
La sua volontà di espandere la sua proiezione nel mondo mussulmano, l’ha portato a stringere legami con le monarchie del Golfo, foraggiare la guerra in Siria per abbattere Assad, intromettersi nelle vicende libiche e azere. Anche l’iniziale apertura dei negoziati di pace con il Pkk nel 2010 sono rimasti lettera morta e, anzi, gli hanno portato la prima battuta d’arresto nelle successive elezioni. L’Akp ora si appoggia sui nazionalisti del Mhp per proseguire nel processo di presidenzialismo, prendendo posizioni sempre più dure e radicali. Il fallito colpo di Stato poi gli ha dato la giustificazione per decapitare i vertici dell’esercito, togliere l’immunità parlamentare ai deputati curdi, incarcerare migliaia di persone, licenziare dipendenti pubblici, chiudere giornali d’opposizione e assicurarsi il controllo delle università.
La nuova retorica del Sultano ricalca lo stato d’assedio che la Turchia visse in seguito agli accordi di Sèvres, in cui le potenze europee minacciavano di smembrare il Paese in diverse zone d’influenza. La “congiura” viene sempre dall’esterno perché “gli occidentali sono gelosi dei successi del suo governo” e dall’interno, a causa dei cospiratori e terroristi. Il motivo per cui è riuscito a mobilitare milioni di persone a scendere in piazza è la difesa dello Stato, ma il vero obiettivo è di mantenere il potere e accentrarlo sempre più nelle sue mani. Così, non avendo la maggioranza per far passare la riforma della Costituzione, indirà in primavera un referendum – plebiscito, da cui uscirà come padrone assoluto della nazione.
Per fare ciò, va bene il clima di tensione permanente e il costante attacco che la Turchia subisce; è più facile convincere gli elettori che in tempi così difficili serva l’uomo solo al comando; peccato che questa situazione l’abbia creata proprio lui come conseguenza delle sue spericolate manovre di politica estera. Tanti nemici, poco onore, pare il motto del sultano che accusa sempre più gravi perdite nell’Operazione Scudo dell’Eufrate; soldati bruciati vivi e carri armati fatti saltare in aria con estrema facilità, non sono esattamente un bel biglietto da visita per il secondo esercito più numeroso della Nato. Nel frattempo l’Unione Europea resta alla finestra, ricattata dall’accordo sui migranti, deve decidere se abolire il regime dei visti per i cittadini turchi – cosa che per il sultano sarebbe un ottimo spot elettorale – o se vedersi aprire le frontiere e la rotta balcanica, mentre l’erdoganizzazione della società procede spedita e, con essa, le tensioni verso il lager greco per vecchie e ininfluenti isolette del Dodecaneso e lo stallo sul dossier di Cipro. Il muro che divide in due Nicosia è l’emblema della distanza che separa il regime di Erdogan dal resto dell’Europa; ma a nessuno importa: l’unico muro che pare interessare al mondo oggi è quello protezionista di Trump.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/esteri-3/erdogan-dopo-erdogan/
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