Il reddito universale è un atto di resa
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Gianmaria Vianova)
Fa capolino all’orizzonte, scompare, viene archiviato e risorge ciclicamente: il reddito universale rischia di divenire il piede di porco che scardina lo Stato sociale e condanna alla sopravvivenza intere popolazioni.
Il mercato regola l’economia. Domanda e offerta si incontrano, la magia si compie. È una legge naturale imprescindibile che si applica allo scambio di beni economici. Ad ognuno di essi corrisponde un prezzo. Come una divinità panteista, che tutto l’universo permea, la legge della domanda e dell’offerta non risparmia nemmeno l’uomo: egli, sotto forma di lavoratore salariato, sottrae al proprio tempo libero una quantità definita di ore in cambio di un compenso di natura monetaria. Il bene economico del mercato del lavoro è la vita del lavoratore. Adottando questa cinica visione delle forze economiche che si riversano sulla realtà di tutti i giorni, diventa inevitabile interpretarla con un’ottica liberista. Attraverso tale chiave di lettura il semplice fatto che vi sia un naturale equilibrio tra chi offre e chi chiede pretende estraneità ai meccanismi oliati del mercato: non si deve intervenire per non alterare le variabili allineate. Lo Stato, in altre parole, deve farsi da parte e lasciare che siano i privati, in una condizione di perfetta concorrenza, a dettare i ritmi della società.
Il mercato del lavoro, quindi, dovrebbe essere il più flessibile possibile, secondo la scuola austriaca e di Chicago. Niente indicizzazione dei salari al costo della vita, licenziamenti facili e rapidi, tutele ridotte, bassa contribuzione verso lo Stato, eccetera. Ogni qualvolta il legislatore interviene riconoscendo l’umanità del bene economico lavoratore, l’equilibrio naturale salta. Nonostante la presenza della mano invisibile di Smith, capace di autoregolare il mercato in modo tale da garantire il benessere dell’intera popolazione, anche i principali esponenti della scuola (neo)liberista e monetarista, ovvero Friedrich von Hayek e Milton Friedman, riconoscevano l’esistenza di uno zoccolo duro all’interno della cittadinanza affetto da disoccupazione (dovuto all’esistenza di un mercato imperfetto). Tale frazione, meno abbiente ed appetibile per il mercato occupazionale, deve essere in ogni caso tutelata. La risposta a questo problema è il reddito minimo garantito.
Esso può presentarsi sotto varie forme ma è accomunato da un leitmotiv: l’elargizione di una somma limitata di denaro pubblico ai cittadini disoccupati, in modo tale da garantirne una vita decorosa. “Non vi è motivo per cui in una società libera lo Stato non debba assicurare a tutti la protezione contro la miseria sotto forma di un reddito minimo garantito, o di un livello sotto il quale nessuno scende”, diceva in Legge, legislazione e libertà Von Hayek. Dello stesso avviso era, seppur in maniera più pragmatica, il monetarista Friedman, ideatore dell’imposta negativa, concetto teorico mai applicato nella realtà fattuale che proponeva l’istituzione di un sussidio dal valore pari alla differenza tra il reddito standard minimo e il reddito familiare effettivo (inferiore allo standard). Scuola Austriaca e Chicago Boys, in definitiva, condividevano nel proprio arsenale tale strumento. Apparentemente, l’istituzione di un reddito minimo garantito dallo Stato potrebbe cozzare con le fondamenta stessa del pensiero liberista, avente nel proprio DNA l’ostilità nei confronti del Governo, visto come nemico dell’equilibrio di mercato.
Appunto: solo apparentemente. Il reddito minimo garantito, nei suoi pressuposti, non comporta una espansione dello Stato sociale, bensì un suo smantellamento. L’elargizione di una somma di denaro ai disoccupati non è una delle possibilità, quanto la possibilità, unica, di ammortizzare il disagio delle classi inferiori. Nella teoria, il reddito minimo punta a divenire il solo ostacolo che impedisce alle famiglie di finire in strada. Distribuire un regalo a chi non percepisce reddito da lavoro significa calmierare, perlomeno tamponare, il disagio popolare che sorge nel momento in cui lo smantellamento feroce del welfare inizia a divenire politicamente insostenibile. La lingua italiana con il termine “contentino” ci dà la fotografia perfetta di tale scenario. Altra virtù del reddito minimo, in ottica liberista, è la totale estraneità dai meccanismi del mercato del lavoro. Nessuna rigidità aggiuntiva, nessun intervento Statale o incentivo alla occupazione, nessun interferenza con l’azione privata. Proprio qui sta il tallone d’Achille dello strumento: esso raccoglie chi è escluso dal mercato e non ha alcuna pretesa di reinserirlo forzatamente, non agendo nei fatti sulla domanda d’impiego delle imprese.
E la domanda di beni primari? Quella non verrebbe sostenuta da una manovra del genere? No. L’entità del sussidio è tale da garantire unicamente la sopravvivenza del sussidiato e deve essere contestualizzata all’interno di uno Stato che si farebbe sempre più piccolo, lasciando al settore privato, quindi a pagamento, l’erogazione dei servizi, anche quelli essenziali. Keynes non sta di casa qui: l’intenzione originale del reddito minimo è quella di permettere al mercato di perpetrare politiche di deflazione salariale. Le imprese vivono con il profitto, non con il benessere sociale. Nell’esatto momento in cui la legislazione cessa di guidare occupazione e retribuzioni, quest’ultime cominciano a puntare verso il basso: o questo stipendio o disoccupato con un reddito inferiore. È in questo frangente che emerge la pervesione del reddito minimo garantito. Esso detta, per forza di cose, la retribuzione minima sotto la quale non si può andare (se lo stipendio è inferiore al reddito di cittadinanza non mi conviene più lavorare) ma allo stesso tempo non agisce sul mercato del lavoro tutelando i salariati, totalmente in balìa della ricerca del profitto a tutti i costi.
Per quanto l’interpretazione liberista sia estremizzata, la questione centrale rimane la medesima: il reddito minimo è un atto di resa dello Stato, che cessa di perseguire attivamente lo stimolo della domanda interna e la piena occupazione. Pur trattandosi di una proposta reaganiana, essa è tornata in auge da anni in Italia con il Movimento 5 Stelle (è uno dei loro cavalli di battaglia) e recentemente in Francia con il socialista Hamon. In una recente intervista edita da Sebastiano Caputo ai nostri microfoni, Jean Claude Michèa ha criticato fortemente tale strumento:
“E’ illusorio vedere nella vittoria di Benoît Hamon una “radicalizzazione” della sinistra ufficiale. […] La sua proposta di “reddito universale” non è altro che un modo di prendere atto – sulla scia di Milton Friedman – dell’incompatibilità definitiva del neoliberismo e della piena occupazione. E ricordiamoci che l’ideale originale del socialismo era, invece, lavorare meno, ma tutti!”
Il fatto che siano partiti di sinistra e anti-establishment a portare avanti politiche neoliberiste non può che far storcere ulteriormente il naso: destra e sinistra, spesso, partono dai medesimi presupposti teorici. Si guardi alla proposta del Movimento 5 Stelle, ad esempio: gli esponenti pentastellati si ostinano a negare la natura passiva dello strumento. Il percettore del reddito di cittadinanza dovrebbe cercare attivamente una occupazione, iscriversi ai centri di collocamento e fare volontariato. Il disoccupato, insomma, dovrebbe attivarsi a livello individuale in una lotta contro la disoccupazione dilagante. Il reddito universale, anche se applicato in uno Stato dal welfare sviluppato, lascia l’indigente solo nel proprio disagio. I fondi dirottati sull’istituzione di un reddito di cittadinanza potrebbero essere utilizzati per sgravi fiscali, riduzione delle imposte, investimenti pubblici. Non va mai dimenticato il quadro legislativo in cui lo strumento dovrebbe vedere la luce: il pareggio di bilancio imposto dall’Unione Europea.
Il reddito universale diventa discutibile solo come parte di vigoroso piano di rilancio della domanda interna e di ripristino della condizione economica del Paese. Complemento, non destinazione ultima. Se l’Unione Europea garantisse la possibilità di spendere a deficit, di avere cioè più cartucce all’interno del caricatore, allora il reddito universale avrebbe ragione d’esistere. Allo stato dell’arte, invece, l’istituzione di tale strumento non farebbe che compromettere le finanze pubbliche in un socialmente inefficace contentino. Sarebbe rassegnazione, pura, alla disoccupazione e un gesto di fedeltà al NAWRU (Non Accelerating Wage Rate of Unemployment), indicatore economico utilizzato dalla Commissione Europea riportante il tasso minimo di disoccupazione sotto il quale non si deve scendere per evitare un aumento del tasso di inflazione. Come precedentemente affermato, le radici teoriche del reddito universale affondano nell’humus neolibesta e l’Unione Europea (che segue un liberismo zoppo e appesantito da una burocrazia che rasenta il surrealismo) non ne è immune. La lotta alla povertà non dovrebbe prescindere dalla lotta contro la disoccupazione: il vero reddito anti-povertà deve essere il salario derivante da lavoro. È il lavoro che produce ricchezza nazionale, che contribuisce al progresso della società, che realizza l’essere umano. È qui che la l’equazione uomo = bene economico cessa di essere verificata: noi, animali evoluti, abbiamo sviluppato ragione, emozione, sentimento, consapevolezza. Comprendere che il benessere personale (collettivo a livello aggregato) passa attraverso l’atto del realizzarsi e che tale atto deve essere perseguito, tutelato e difeso dovrebbe essere un assioma derivante dall’essere membri di una società. Il reddito di cittadinanza rischia di essere invece l’estremo baluardo dell’interesse di pochi, sotto forma di specchio per le allodole. Altre sono in definitiva le vie perseguibili, più efficienti e sensate, verso il bene comune.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/economia/il-reddito-universale-e-un-atto-di-resa/
Ottima analisi di un argomento di cui tanti discutono. Evidenzia come i sostenitori del modello neoliberista siano riusciti con un linguaggio accattivante a conquistare consensi anche tra chi dice di battersi per le persone svantaggiate. Dalla favola dell’equilibrio perfetto tra domanda e offerta a quella del ” Buon cuore” che dice di aiutare gli esclusi dal mondo del lavoro. Non si ricorda mai che la concorrenza perfetta è in ogni caso un modello teorico impossibile perché richiederebbe un’infinità di operatori con eguali opportunità, cosa impossibile in una società dominata da ristretti oligopoli. Ne deriva non solo la resa dello Stato e degli impegni costituzionali di garantire il lavoro e il danno per l’inattività, in modo particolare dei giovani, ma una forte compressione delle possibilità di operare dei sindacati e delle possibilità organizzative dei diseredati in genere. Un unico appunto : non credo sia corretto affermare che se l’Unione Europea garantisse la possibilità di spendere a deficit il reddito universale avrebbe ragione di esistere, sia per la contraddizione con le riflessioni precedentemente svolte dall’autore che per il fatto che con l’attuale organizzazione UE incrementerebbe il debito dello Stato e lo renderebbe sempre più soggetto a ricatti.