Il sudore rubato: l’Italia del caporalato
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Nico Spuntoni)
La morte di Paola Clemente ha fatto riscoprire all’opinione pubblica la piaga del caporalato, favorita dalla cancellazione delle conquiste sociali ottenute della Prima Repubblica.
L’acinellatura è una complicata tecnica viticola che riguarda i grappoli di uva e consiste nell’eliminazione degli acini più piccoli, quelli senza seme che impediscono la maturazione dei rimanenti. Un’operazione che deve essere svolta in estate e che è molto diffusa nei campi della Puglia, specialmente nel territorio barese.
Un’attività che attira ogni anno nei vigneti una sterminata mole di forza lavoro dalla composizione più variegata: madri di famiglia, ragazze minorenni senza lavoro, disoccupati, cassaintegrati, migranti e pensionati. Braccianti. Termine vetusto, che puzza di Medioevo per l’Italia dei “professione Youtuber” ormai abituata ad associare alla campagna l’immagine idilliaca di rifugio dallo stress delle metropoli o quella canzonatoria di cornice per memes. Ma campagna, per il 3,7 % della popolazione nazionale, significa ancora lavoro, fatica, sopravvivenza.
Il termine “bracciante” non ha mai smesso di essere contemporaneo e trasuda il sudore e la dignità di sempre. Purtroppo, resta contemporaneo anche il termine “caporale” a definire una categoria che, in antitesi a quella dei braccianti, fonda la sua esistenza proprio sul calpestamento della dignità altrui. E’ notizia di pochi giorni fa l’arresto di sei persone a Trani per la morte di Paola Clemente, lavoratrice agricola stroncata da un malore il 13 Luglio 2015 dopo un turno massacrante nei campi di Andria. L’accusa è di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro in virtù della legge anti-caporalato approvata nel 2016 proprio sull’onda emotiva della morte della donna. La vicenda di Paola Clemente, avvenuta solo pochi giorni dopo il decesso del sudanese Mohamed sempre per un malore dovuto al caldo estenuante unito all’impegnativa attività, è una testimonianza emblematica di una realtà difficile da sradicare e troppo a lungo trascurata dai legislatori. Rendendo efficacemente l’idea della via crucis quotidiana vissuta dalla 49enne, il marito ha raccontato che:
“Andava via di casa alle 2 di notte. Prendeva l’autobus alle 3. Ai campi, ad Andria, da San Giorgio Jonico, arrivava intorno alle 5.30. Noi a casa la rivedevamo non prima delle 3 del pomeriggio, in alcuni casi anche alle 6. Guadagnava 27 euro al giorno. Poco. Ma per noi quei soldi erano importanti, erano soldi sicuri, assolutamente indispensabili. Fin quando è arrivata quella telefonata: Paola si era sentita male, io non sono riuscito nemmeno a salutarla: ora Paola non c’è più”.
La storia di Paola Clemente è la storia di tante altre lavoratrici e lavoratori in Italia, 400 mila secondo un’indagine della The European House – Ambrosetti. Una delle più visibili conseguenze dello smantellamento progressivo del welfare state e, nello specifico, dell’abrogazione della legge n. 1939 del 1960 che sanciva il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro recitando: “È vietato all’imprenditore di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono. (…) È considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o subappalto, anche per esecuzione di opere o di servizi, ove l’appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante, quand’anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all’appaltante”.
La mancanza di un adeguato intervento legislativo atto a controllare gli squilibri prodotti dall’abrogazione di questa legge, le connivenze di latifondisti rapaci con amministrazioni locali spesso negligenti, il drastico ridimensionamento del potere contrattuale della forza-lavoro per via della crisi endemica dell’economia italiana e l’aumentata necessità occupazionale conseguente anche a fenomeni come immigrazione e nuova povertà; tutti elementi che hanno contribuito a rendere di drammatica attualità la piaga del caporalato.
E d’altronde, sarebbe irrealistico credere nella scomparsa della figura del caporale proprio in un’epoca contraddistinta dalla spersonalizzazione del datore di lavoro e dalla tendenza a delegittimare la funzione dei sindacati.
I contratti di lavoro dei braccianti ammettono sempre più una discrasia tra datore di lavoro formale e datore di lavoro sostanziale e fungono da foglie di fico per regolarizzare agli occhi dello Stato quella che è una vera e propria forma di sfruttamento.
La morte per fatica di Paola Clemente, moglie e madre di famiglia pugliese, ha suscitato una profonda indignazione collettiva per questa moderna schiavitù. Non mancano, però, quelli che si sono serviti della sua storia per porre l’accento sui “nuovi schiavi italiani“, strumentalizzando la notizia per una sterile contrapposizione tra connazionali sfruttati ed immigrati. Un’operazione scorretta e irrispettosa anche nei confronti della stessa memoria di Paola Clemente che avrà sicuramente condiviso con tanti lavoratori stranieri lo stesso pulmino strapieno diretto ai campi dopo ore ed ore di viaggio. Perché il sudore della fronte non ha nazionalità. Inoltre, questo è un terreno impraticabile su cui portare la polemica antimmigrazionista considerando che l’80% dei lavoratori vittime di caporalato sono stranieri. Uomini e donne che, pur di non imboccare la strada della criminalità, accettano paghe da fame a temperature cocenti, operano in condizioni igienico sanitarie inesistenti e sopportano frequentemente violenze fisiche e psicologiche.
Di fronte a questi casi, lo Stato deve sentirsi chiamato in causa e non nascondersi dietro al rispetto della libertà di iniziativa economica privata perché a sollecitare un suo intervento è la palese violazione della dignità della persona che avviene sistematicamente in più parti del suo territorio. Allo Stato spetta il compito di tutelare e far rispettare il valore etico del lavoro e non permettere che venga considerato una merce come tante. Si smetterà di morire di fatica solo quando ci si ricorderà, buttando giù il totem del profitto, che nella vita sociale l’uomo non è il mezzo per incrementare il lavoro, ma piuttosto è il lavoro ad essere un mezzo capace di far maturare frutti nell’uomo, il quale resta sempre il soggetto principale.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/italia-2/il-sudore-rubato-litalia-del-caporalato/
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