Inesorabile suicidio demografico
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Alessio Sani)
L’Istat certifica il nuovo minimo storico delle nascite. Un viaggio in un fenomeno culturale complesso che mette a repentaglio l’esistenza dell’Italia.
Il 2016 è stato un anno fondamentale dal punto di vista demografico per il concretizzarsi di due fenomeni di segno opposto. Da un lato, si è registrato il minimo storico per numero di nascite; dall’altro, per la prima volta, il governo italiano ha tentato, per quanto goffamente, di affrontare il problema (e già questa è una novità) per quello che è, cioè un fenomeno culturale. Parliamo, ovviamente della discussa iniziativa del ministro Lorenzin che risponde al nome di Fertility Day (e qua si potrebbe aprire l’ennesima parentesi sull’anglofilia del governo Renzi, ma ubi maior minor cessat, è il caso di dire). Partiamo dai numeri. L’Istat ha diffuso il rapporto annuale sugli indicatori demografici relativo al 2016 e i dati sono, come prevedibile, allarmanti, soprattutto se guardati in prospettiva. Quella che si profila tra vent’anni, infatti, va assumendo, sempre più, il profilo di una vera e propria ecatombe, una bomba demografica al contrario che già oggi dovrebbe essere il principale problema sui tavoli della politica. Le nascite, come già accennato, segnano un nuovo record negativo: 474mila, il minimo storico. Il calo rispetto al 2015 è di un ulteriore 2,4%. Gli over 65 sono ormai 13,5 milioni, il 22,3% del totale, in scontato e progressivo aumento. Il saldo naturale complessivo è negativo di 86mila unità. Se poi si scompongono questi dati per guardare ai soli cittadini italiani la situazione si fa catastrofica: solo 382mila nascite, un tasso di fecondità di 1,27 figli per donna, tra i più bassi al mondo, per un saldo naturale che raggiunge la profondità di 189mila anime. A queste vanno poi aggiunti gli 80mila espatri del saldo migratorio netto degli italiani, perché ci ritroviamo nella paradossale situazione di essere contemporaneamente terra d’immigrazione e d’emigrazione.
Spostando lo sguardo al futuro la situazione non diventa certo più rosea. Le classi d’età più numerose sono oggi quelle tra i 40 e i 55 anni, dunque persone che i (pochi) figli che dovevano fare li hanno già messi al mondo e tra vent’anni, il tempo di una generazione, dovranno prepararsi alla pensione. In altre parole, le madri (e i padri) disponibili saranno sempre meno, e questo spiega il progressivo declino delle nascite nonostante tutto sommato il tasso di fecondità tenga, per quanto a livelli bassissimi. Il trend è destinato quindi ad aggravarsi. Non sono solo gli italiani, tuttavia, a non fare più figli. I dati mostrano come anche gli stranieri tendano ad adagiarsi sui tassi di riproduzione degli autoctoni. Pur alzando la media, neanche tra le donne immigrate si raggiunge il tasso di sostituzione (si fermano a 1,95), segno che è tutto il sistema, nella sua complessità infinita di variabili, a remare contro.

Piramide demografica italiana 2016, fonte: Istat
Le conseguenze di un trend strutturale del genere rischiano di investire numerosi aspetti del vivere associato e di essere apocalittiche, ed è facile comprenderne il perché. In campo economico, ad esempio, è evidente come le due principali conseguenze dell’invecchiamento della popolazione siano il progressivo aumento della spesa per pensioni e sanità, due settori che fanno pil, è vero, ma che sono anche un costo per una società. Il rischio è che diventino un lusso. Torniamo ai dati. Nel 1971 la previdenza pesava per il 7,83% del pil, oggi siamo al 17% e tutti noi ci ricordiamo le continue manovre restrittive per garantirne la sostenibilità finanziaria, da ultima la legge Fornero. Non si deve fare l’errore, a questo punto, di credere che, in un’ottica keynesiana, il problema scompaia. Non sono solo Bruxelles e il neoliberismo a chiedere l’innalzamento dell’età pensionabile o la svolta contributiva. Se non si produce abbastanza per garantire anche i consumi di chi non produce più, il sistema inevitabilmente salta, quindi o si aumenta la produttività, o si aumenta la quantità di lavoro (si va in pensione dopo) o si consuma meno, cioè si tagliano le pensioni. Oppure si ricomincia a fare qualche figlio in più.

Spesa pensionistica sul Pil, fonte: Istat
Lo stesso discorso vale per la sanità. La tendenza all’aumento progressivo della spesa complessiva (pubblica più privata) è stata contenuta solo grazie ad una lunga serie di manovre restrittive, di contenimento della spesa pubblica nell’ambito, che coincidono sostanzialmente con l’ingresso nello Sme. Si è discusso molto su quale sia l’effettiva correlazione tra invecchiamento e spesa sanitaria, questo è uno studio molto critico a riguardo, che sembra dare enfasi ad altri fattori (come ad esempio la scoperta di nuove terapie, generalmente costose), ma è chiaro che una relazione esista. Questo ad esempio è l’andamento della spesa farmaceutica. Si noti come la riduzione della spesa a carico dello Stato sia coincisa con l’introduzione dei ticket, cioè con l’aumento della spesa privata. La scelta fu dovuta, ovviamente, a necessità di bilancio.
Guardando all’altro lato della medaglia, scomodando Monsieur de La Palice, il numero di lavoratori disponibile va calando in relazione alla popolazione inattiva. Quindi, come già accennato, questi devono spremersi di più per mantenere un pari livello di vita generale. Nel complesso, quindi, un invecchiamento della popolazione così rapido riduce la sostenibilità del sistema italiano. È necessaria un’ulteriore considerazione. Il capitalismo è un sistema intrinsecamente basato sul debito. L’emissione monetaria, ad esempio, avviene proprio tramite il meccanismo del credito ad interesse da parte delle banche, che sia quella centrale o quelle private. Gli investimenti industriali, a loro volta, necessitano dell’indebitamento, Apple a parte, ma questo diventa un altro discorso. In un certo senso, quindi, è proprio l’essere debito a dare valore al denaro, perché chi lo riceve si impegna a lavorare, a metterlo a frutto, per restituirlo. È evidente, a questo punto, che un sistema del genere necessita di debiti sempre più grandi per potere ripagare i precedenti, gravati dal tasso d’interesse. E qui entra in gioco la crescita, che garantisce la sostenibilità del debito per l’appunto, perché espandere il credito in un’economia in contrazione diventa alquanto problematico. Tuttavia, come dice Gotti Tedeschi, ex direttore dello Ior, in questo interessante intervento alla Camera, come si fa a far crescere il Pil quando la popolazione cala? È praticamente impossibile, pur a fronte di continui incrementi di produttività e dei consumi individuali.
Ettore Gotti Tedeschi, economista e banchiere, al convegno “Globalismo e sovranità”, organizzato alla Camera dei Deputati l’8 febbraio dal Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli.
Pertanto, se, alla luce del fatto che siamo uno dei paesi più densamente popolati del pianeta, un lento e graduale decremento della popolazione potrebbe essere positivo, è altrettanto evidente l’insostenibilità di un crollo così repentino. È la tenuta dell’intero sistema-Paese ad essere messa a dura prova. Diventa necessaria, a questo punto, anche una valutazione sociologica del fenomeno. Per porre un argine al problema, la nostra classe politica ha pensato di incentivare l’immigrazione di massa. Da un punto di vista economico, tutto sommato, la cosa funziona, se non altro perché post-pone il problema. Tuttavia, data la tendenza degli immigrati a ridurre anche loro il tasso di natalità e quella, scontata, ad invecchiare tanto quanto gli italiani, questo impone una continua politica degli ingressi e probabilmente un loro continuo e progressivo aumento. A questo fenomeno immigratorio si accompagna oggi anche la parallela emigrazione di un numero consistente di italiani dovuta al persistere della crisi economica. Sommando questi due flussi e la loro intensità, si capisce come si stia andando verso un modello di popolamento dinamico, che disgrega la comunità, il sistema di relazioni sociali legate al territorio, in nome dell’incontro economico atomistico di unità produttive isolate, quelle che una volta si chiamavano persone. È sostenibile un modello sociale del genere? È auspicabile? Si rinnova, insomma, da un ulteriore punto di vista, il conflitto radicale che sta orientando nuovamente gli assetti politici globali, quello tra territorio e flussi.
Ibn Kaldhoun, uno dei più grandi pensatori del medioevo arabo, vedeva all’origine delle civiltà il concetto di asabiyyah, cioè il legame di gruppo fondamentale, la coscienza di appartenere ad un insieme politico. Questa solidarietà sociale, per il pensatore di Tunisi, è il vero motore della storia, la causa dell’ascesa e del declino delle costruzioni politico-sociali e, nella sua visione ciclica della storia, l’intensità del legame declina progressivamente a seconda del grado di maturità degli organismi politici. In una società che non è più in grado di riprodursi l’asabiyyah si è ormai sopita e, con la fine della riproduzione biologica, fisica, rischia di cessare anche quella culturale. È, in altre parole, una civiltà che rischia di perdere la propria continuità storica. Non per un’azione esterna, non per un cataclisma, ma per un lento suicidio.

Statua di Ibn Kaldhoun a Tunisi. Pensatore politico e storico arabo, visse nel XIV secolo tra Tunisi, Granada e il Cairo. La sua opera più importante è la Muqaddimah, recentemente consigliata al popolo di Facebook da Mark Zuckerberg.
Per completare il ritratto della “questione demografica” è necessario ora esaminarne le cause, molteplici e complesse. Non è facile capire quanto pesi un fattore e quanto un altro, date le loro reciproche interazioni, ma è chiaro come al centro del discorso stia il mutamento del ruolo sociale della donna, sul quale hanno agito questi molteplici processi. Tentando, in primis, di inquadrare storicamente il fenomeno, se ne trova l’epicentro negli anni Settanta. Storici e demografi parlano spesso di prima transizione demografica (calo della mortalità) e di seconda (calo della natalità), forse sarebbe il caso di individuarne una terza: il crollo della natalità. Qui si reperiscono facilmente i dati per classi annuali e si vede come l’annus horribilis sia il 1977 quando, per la prima volta, si scende al di sotto del tasso di sostituzione di 2 figli per donna. Da lì in avanti la caduta è repentina, fino a toccare il minimo nel 1995 a 1,18 figli per donna, per poi stabilizzarsi attorno all’1,3 (va però considerato il fatto che il numero di madri potenziali va man mano calando, di qui il continuo calo del numero di nati rispetto ad un tasso di fecondità stabile).
Che cosa succede quindi negli anni Settanta? Beh, è evidente: entra definitivamente in crisi il modello sociale che ha dominato in Italia (e in Occidente in generale), per un millennio almeno, la riproduzione, cioè la famiglia patriarcale. La cellula base della società, fondata sulla divisione dei ruoli tra maschi e femmine, non sopravvive al Sessantotto. La crisi del modello è attestata dai dati in pressoché ogni ambito: calo del numero dei matrimoni, aumento delle separazioni, calo della natalità, picco estemporaneo degli aborti che poi seguiranno il trend generale delle nascite. Le istituzioni, ovviamente, accompagnano il processo con due eventi cardine, la legge sul divorzio e quella sull’aborto, l’imprimatur giuridico all’abbandono della famiglia tradizionale. La prima è la legge Fortuna-Baslini del 1° dicembre 1970, la seconda è la legge n° 194 del 22 maggio 1978.

Numero di interruzioni volontarie di gravidanza in Italia per anno.
Ovviamente, come spesso succede nelle società democratiche, non è la politica a cambiare la società civile, ma è il contrario. Le ragioni di questo cambiamento di portata epocale, e forse mispercepito, vanno ricercate nell’antropologia, nella mutazione dei modelli culturali, delle aspettative e degli obiettivi di uomini e donne post-Sessantotto. Il portato lungo della contestazione si vedrà veramente solo negli anni Ottanta, quando scoppia la bolla dell’individualismo edonista. Carriera e divertimento sono le due parole chiave che fanno passare quello che dovrebbe essere un istinto biologico fondamentale, come la riproduzione, in secondo piano. Partiamo da un assunto fondamentale della biologia e della teoria dell’evoluzione, quello della selezione sessuale. Per le donne della specie umana, la riproduzione è un investimento molto gravoso: la gestazione è lunga, il parto pericoloso e, soprattutto, la prole abbisogna di cure parentali molto lunghe rispetto alle altre specie. Insomma, una parte consistente della vita della madre è legata ad un eventuale figlio. E il padre? Beh, in società meno che in natura, ma sostanzialmente ha scaricato buona parte del peso delle cure parentali sulla madre, tenendosi per sé il compito di procacciare il cibo, lo stipendio. Questo però, col progredire dello sviluppo, ha dato all’uomo una sempre maggior libertà che era (ed in alcune culture ancora è) negata alla donna. Ad un certo punto il delicato equilibrio biologico è giunto al punto di rottura. Con il loro progressivo ingresso nel mondo del lavoro per necessità capitalistiche, le donne si sono ritrovate sulle loro spalle la quasi totalità del lavoro domestico senza avere una vera autonomia economica.
Non è quindi difficile, anche se probabilmente scatenerà qualche polemica, leggere il femminismo in quest’ottica. Cosa denunciavano le donne che scendevano in piazza negli anni Settanta? La famiglia, come il luogo dell’oppressione di genere e del “doppio lavoro”, e la sessualità finalizzata alla riproduzione. E cosa chiesero, infatti? La legalizzazione dell’aborto, la liberalizzazione degli anticoncezionali e l’istituzione di asili nido “antiautoritari”. In altre parole, di sgravarsi della prole. Chiaramente il ruolo dello sviluppo economico, accennato prima, è stato anch’esso fondamentale. Le continue rivoluzioni che il capitalismo impone a sé stesso hanno agito contro la famiglia tradizionale. Se questa era compatibile con la fabbrica fordista e il taylorismo, ha cominciato a diventare un impaccio, sia per il capitale che per i lavoratori, nel contesto nuovo nel quale le priorità sono essenzialmente due: flessibilità e mobilità. Se il lavoro chiede sradicamento, la famiglia tradizionale abbisogna viceversa di stabilità e sicurezza. Ancora territorio contro flussi, quindi. Parallelamente e concordemente, sono mutate anche le aspettative e i valori. Che cosa fa di te un uomo o una donna di successo oggi? Difficile che molti rispondano “avere una bella famiglia” come prima cosa, più probabile che a stimolare l’immaginario degli italiani siano i soldi o il successo. Ecco quindi che i figli sono diventati, in un certo senso, un peso, un freno che impedisce la piena realizzazione di sé, sia essa economica o edonista o entrambe le cose assieme. Il caso emblematico è Milano, la città dei single per eccellenza in Italia. Impegnati a lavorare incessantemente in un ambiente caotico e attirati dalle piacevoli sirene del divertimento nel weekend, i milanesi non si accoppiano più. L’anno scorso, finalmente e inevitabilmente, il numero di famiglie composte da un solo componente, notare l’eufemismo, è diventato maggioranza assoluta, il 52,8%, e se prima si trattava soprattutto di vedovi, oggi sono i giovani a posticipare (a volte all’infinito) l’età del matrimonio.
Infine non si può non prendere in considerazione il mondo della cultura e dell’autorappresentazione di essa, che ha chiaramente accompagnato il fenomeno, andando incontro ai giusti mutati della nuova antropologia, e lo ha parallelamente incoraggiato, legittimando progressivamente i nuovi modelli sociali. Il salto tra due serie televisive americane di successo come Happy Days e Sex and the City, ad esempio, è emblematico. Si è passati, in trent’anni, dalla famiglia Cunningham di provincia alle quattro single in carriera (e attempate) di New York. Si deve quindi scendere in piazza in occasione del Family Day, manifestando contro gli unici che oggi vogliono ancora sposarsi, cioè gli omosessuali? Per difendere, per di più, una famiglia tradizionale che è già morta e non certo per colpa loro? Forse sarebbe una battaglia di retroguardia e la Storia insegna che raramente le si vince. Tornare al vecchio modello patriarcale è impensabile oltre che ormai impossibile, oltre che non auspicabile. È venuta meno, infatti, quella che era il vero centro della famiglia tradizionale, cioè la donna che in primis era madre. Senza di essa, non può esistere famiglia come comunemente la intendiamo, e non si può pensare di riassoggettare milioni di donne con la forza dell’autorità. Cosa si può fare quindi?
Intanto copiare da chi fa meglio di noi anche a fronte di un maggior tasso d’occupazione femminile, come i paesi nordici, implementando una serie di politiche di sostegno alle nascite. Queste dovrebbero andare in una duplice direzione: da un lato favorire chi decide di percorrere la strada della famiglia tradizionale con forti incentivi alla nascita almeno di un secondo figlio; dall’altro procedere verso forme sempre più creative di socializzazione della prole. Già svariate protofemministe e alcuni pensatori marxisti dell’Ottocento aveva colto questo movimento profondo della Storia. Non che, in realtà, non esistano già: gli asili nido ne sono una forma. Chiaramente, tocca allo Stato farsene carico, pena terminare la propria continuità storico-culturale. Se mancano i fondi, si potrebbe addirittura pensare di reintrodurre una misura draconiana ideata da Ottaviano Augusto circa duemila anni fa, alle prese con lo stesso problema: tassare i single. Oggi si potrebbe tassare chi non fa figli, senza necessariamente sposarsi. Soprattutto, bisognerebbe lavorare sul lato della cultura, proponendo modelli culturali nuovi: i figli devono tornare ad essere un valore. Paternità e maternità devono essere il fine ultimo dell’esperienza umana, perché sono l’unica cosa che possiamo lasciare dopo di noi, l’unica forma di continuità realmente concessa alle società umane. Senza figli non c’è futuro. Se non altro il governo Renzi, per quanto goffamente, pare essersene accorto, sperando che il 2016 possa essere l’anno zero della demografia italiana.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/italia-2/demografia-italiana-anno-zero/
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