L’ideologia “progressista” e il declino della sinistra
di CARLO FORMENTI
Mi capita raramente di condividere quasi tutto di un articolo che leggo sul Corriere della Sera, e mi capita ancora più raramente se l’autore dell’articolo è Ernesto Galli della Loggia. Ma devo confessare che la lettura del suo pezzo di apertura (con continuazione all’interno, sulla pagina “Opinioni e commenti”) datato giovedì 9 marzo e intitolato “Progresso (e declino) a sinistra” mi ha strappato un applauso mentale. Ne sintetizzo le argomentazioni di fondo, anche attraverso una serie di citazioni.
Dopo essersi chiesto se una delle cause di fondo dell’attuale declino della sinistra sia l’insistenza con cui quest’ultima insiste nel definirsi “progressista”, Galli della Loggia scrive: “Che cosa vuol dire, oggi, essere e dirsi «progressisti»?”, aggiungendo poco oltre: “quali sono i caratteri di un fatto o di un fenomeno che oggi possono farlo considerare realmente un «progresso»?”. Dopodiché elenca una lunga serie di recenti innovazioni tecnologiche, scientifiche, culturali, politiche, culturali, di costume il cui significato, ove valutato secondo i valori e i principi “classici” della sinistra – uguaglianza, giustizia sociale, miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita, ecc. – dovrebbe apparire quanto meno ambiguo e contraddittorio, se non francamente negativo, ed è stato invece accettato senza problemi, o addirittura con entusiasmo, da una sinistra schierata apriori dalla parte del “nuovo”.
Né vale a mettere in crisi questa conversione la constatazione che: “da tempo pressoché l’intera gamma di ciò che nelle nostre società si è affermato in nome del «progresso», in nome della necessità di «aggiornarsi», di «stare al passo coi tempi», anche di essere «più liberi», lo ha fatto in sostanza all’unanimità. Cioè non solo senza nessuna particolare opposizione ideologica… ma addirittura con l’avvallo proprio di quelle forze del denaro e del potere che alla Sinistra, in teoria, avrebbero dovuto essere estranee se non avverse”. Dopo questa considerazione – che personalmente ritengo inconfutabile – l’ultima parte dell’articolo rintraccia le radici di tale paradossale e autolesionistico atteggiamento in una visione teleologica e provvidenziale della Storia che attribuisce a quest’ultima il ruolo di incubatrice di un ineluttabile e necessario avanzamento verso superiori livelli di civiltà (di “progresso” appunto). Peccato che la sinistra, conclude il pezzo, non si sia minimamente accorta che gli effetti devastanti del Progresso su larghe masse di umanità stiano alimentando venti di rivolta contro questa religione della modernità.
Più che commentare questo discorso che, come anticipavo poco sopra, condivido completamente, vorrei integrarlo con alcune considerazioni.
1) La fede nella storia come apportatrice di avanzamento sociale, culturale, civile e politico, anche se trova (parziale) conforto nel pensiero di Marx (ma assai più in quello dei suoi epigoni), va abbandonata come una reliquia dell’evoluzionismo ottocentesco (lo stesso dicasi della fede nel progresso scientifico e tecnologico, a sua volta reliquia del positivismo ottocentesco).
2) È da qualche decennio che gli intellettuali più intelligenti nel campo della sinistra (o almeno di una certa sinistra) hanno avviato una riflessione in merito al fatto che, oggi, la critica della società capitalistica non può non accompagnarsi a una critica radicale dell’ideologia “modernista” e della sua grottesca variante postmoderna, il “nuovismo”.
3) Ciò ovviamente non basta (anche perché si tratta di voci minoritarie), e quindi non c’è da stupirsi se i movimenti populisti che lottano contro i “progressi” regalatici dal capitalismo finanziarizzato e globalizzato tendono a definirsi né di destra né di sinistra (anche quando non appartengono al campo reazionario dei Trump, dei Salvini e delle Le Pen e hanno programmi che un tempo sarebbero stati considerati senza esitazioni di sinistra). Ecco perché la parola progresso rischia di trascinare con sé nella tomba la parola sinistra, ed ecco perché, sempre più spesso, si sentono persone che si autodefiniscono rivoluzionarie, antisistema ma non di sinistra.
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