“Il fuoco si combatte con il fuoco” o, fuor di metafora, il fascismo si combatte con metodi autoritari. Quella che appare quasi una rivisitazione del Codice di Hammurabi o, se preferite uscir fuori dall’immaginario giuridico, una sorta di legge dantesca del contrappasso secondo la quale a chi attenta ai principi della libertà democratica verrà tolta ogni garanzia costituzionale degli stessi, è il cuore della proposta teorica e politica di Karl Loewenstein. Autore della fortunata espressione “democrazia militante”, Loewenstein articolò la sua idea in due saggi pubblicati nel 1937 sull’«American Political Science Review» e resi oggi per la prima volta disponibili in traduzione italiana nel volume Democrazia militante e diritti fondamentali edito da Quodlibet con la curatela di Mariano Croce. Il testo, corredato da un robusto corpo di note storiografiche e dalla ricostruzione del profilo biografico dell’autore, giunge a noi – quasi novant’anni dopo la sua stesura – conservando intatta la forza dirompente della sua domanda: come si combatte il fascismo in uno stato democratico? Detto altrimenti, come fa la democrazia a difendersi da attacchi sovversivi che ne minano le fondamenta se essa, per sua stessa natura, deve concedere a tutti eguali diritti e eguali libertà, incluse le libertà di parola, di opinione, di stampa e, non da ultimo, di associazione?
La risposta piuttosto tranchant di Loewenstein è che l’ordine democratico nel suo normale funzionamento non ha alcuna arma di difesa contro i suoi nemici “interni”. Esso, perciò, è destinato a soccombere ad ogni passo di fronte agli attacchi di coloro che utilizzano i suoi stessi strumenti per trasformarli in vulnerabilità del sistema democratico, intese qui nel senso etimologico del termine come “ferite”. Loewenstein, che si era formato come giurista nella Germania del primo dopo guerra e nel 1933 aveva condiviso il destino di molti intellettuali di origine ebraica costretti ad emigrare negli Stati Uniti, scrive i due saggi sulla democrazia militante mentre ricopre la carica di professore di scienze politiche e teoria del diritto presso l’Amherst College in Massachussetts. Dopo aver completato nel 1936 un’analisi del sistema giuridico della Germania nazista, inizia ad interrogarsi su quali siano i mezzi di cui un governo democratico deve dotarsi per sopravvivere all’ondata fascista che egli guarda con preoccupazione espandersi in Europa ben al di là dei soli confini italiani e tedeschi. A detta di Loewenstein, dei mezzi di “sopravvivenza” per la democrazia ci sono – e questo segna un deciso rifiuto nei confronti di quella narrazione che faceva leva sulla presunta ineluttabilità del nazifascismo. Contro l’ascesa di quest’ultimo, invece, secondo Loewenstein, si deve e si può difendere il cuore della liberal-democrazia.
Il problema, semmai, è che gli unici strumenti che potrebbero assicurare tale risultato sono per loro stessa definizione anti-democratici, quali per esempio il ricorso a poteri di emergenza e leggi marziali, la messa fuori legge dei dissidenti, la limitazione di alcuni diritti fondamentali come la libertà di pensiero e di associazione, la riconfigurazione degli apparati pubblici in vista dei pieni poteri del governo. Questa per Loewenstein è la descrizione di una democrazia che si fa militante, ossia di una democrazia che combatte il fascismo con tecniche fasciste o, se preferite, che preserva la democrazia con metodi non democratici. È lo stesso autore, del resto, a chiamarla anche democrazia disciplinata o, in maniera ancora più esplicita, autoritaria, dal momento che – egli scrive – “non si possono nutrire scrupoli di natura costituzionale sulla necessità di limitare i fondamenti della democrazia al fine di preservarli” (p. 42). L’ordine liberal-democratico e la sua dinamicità riformista valgono solo in tempi normali; al contrario, quando esso si trova sotto assedio (il vocabolario guerresco è dello stesso Loewenstein), deve trincerarsi e rispondere con ogni sforzo possibile, anche a costo di violare i suoi stessi principi fondamentali.
Nonostante la proposta di una democrazia militante così intesa sia in buona parte teoreticamente irricevibile, pare difficile negare le sue molteplici risonanze con la recente e odierna situazione politica che, allo scoccare del nuovo millennio, ha visto i governi democratici confrontarsi a più riprese con la necessità di giustificare la sospensione di alcuni principi fondamentali della democrazia in nome di una sedicente libertà, essa stessa sempre per lo più accompagnata dall’aggettivo “democratica”. Si pensi, in tal senso, alle misure prese in risposta alla minaccia di attacchi terroristici dopo l’11 settembre o ai decreti di emergenza moltiplicatesi durante la pandemia, solo per fare due esempi tra i più banali. Di fronte, dunque, alle copiose e tutt’altro che vetuste inquietudini che la lettura del testo di Loewenstein desta nel lettore contemporaneo, pare utile, a detta di chi scrive, soffermarsi in questa sede su tre punti della teoria loewensteiniana che rivelano una particolare capacità di ancoramento all’oggi e che riguardano, rispettivamente, la definizione di fascismo come “tecnica di potere”, la concezione di una democrazia “sostantiva” che va preservata e la labilità del confine tra una democrazia “militante” e uno stato autocratico.
Riguardo al primo punto, Loewenstein afferma con cristallina chiarezza che il fascismo non è un’ideologia, né una teoria o un programma politico, bensì null’altro che una tecnica di potere. Anticipando un lessico che farà la sua fortuna all’interno del vocabolario filosofico-politico solo molti anni più tardi, a partire dalle riflessioni foucaultiane, per Loewenstein quella fascista è “la più efficace tecnica politica della storia moderna” (p. 27). Di contro a un’immagine tutt’altro che superata di un fascismo avvinghiato a una manciata di valori tradizionali e ultraconservatori (di famiglia, di nazione, di patria) di cui si ergerebbe a paladino e difensore, Loewenstein risponde che tutto ciò serve solo come propaganda. In realtà, il fascismo è vuoto, privo di contenuto, mera tecnica di conquista del potere: “il fascismo”, in altre parole, “vuole solo comandare” (p. 28). Ciò gli consente una certa malleabilità – una caratteristica anch’essa piuttosto controintuitiva rispetto all’abitudine di pensiero con cui si è soliti attribuire ai regimi fascisti una qual certa rigidità e intransigenza di principi. Al contrario – nota Loewenstein – il fascismo “si adatta” alla democrazia, la distorce ma al contempo la usa, facendo leva tanto su quelle libertà che essa gli concede per organizzarsi come movimento quanto sulle sue debolezze che divengono pretesto polemico per una propaganda efficace. Quest’ultima coglie e rinforza il malcontento della popolazione, poiché “suscitare, guidare e utilizzare l’emotività nelle sue forme più grezze e più raffinate è l’essenza della tecnica fascista” (p. 28) che si concretizza, infatti, in un governo emotivo: un piano quest’ultimo su cui la democrazia, in quanto governo costituzionale, non può combattere. A poco servono, dunque, gli appelli alla ragione o alle garanzie di un ordine stabile da parte dei soggetti politici democratici: niente di tutto questo può funzionare da contraltare rispetto alla tecnica emotiva fascista. L’unica possibilità di difesa, scrive Loewenstein, è racchiusa proprio in quella natura tecnica del fascismo che, se da un lato ne costituisce la forza d’attrazione, dall’altro lato lo spinge verso una progressiva stereotipizzazione, ossia una ripetizione di formule e schemi d’azione che hanno funzionato in passato. Di fronte alla scarsa variazione del meccanismo d’azione fascista, la democrazia guadagna allora la possibilità di deliberare una risposta politica e legislativa che sia all’altezza del suo compito “militante”: che sappia, cioè, mettere fuori gioco chi fa uso delle tecniche fasciste attraverso quella serie di provvedimenti emergenziali che divengono necessari alla sua sopravvivenza.
A quest’altezza emerge il secondo elemento su cui vale la pena di interrogare il testo di Loewenstein. Qual è, secondo la prospettiva di una democrazia militante, il nucleo democratico che deve essere preservato ad ogni costo? Attorno a che cosa, cioè, la democrazia deve trincerarsi anche a rischio di irrigidirsi? La risposta si evince dal tono polemico con cui Loewenstein parla dell’eccesso di “legalismo” che ha reso incapaci le democrazie in generale, e la Repubblica di Weimar in particolare, di prevenire l’avvento del nazifascismo. Il principale ostacolo alla difesa dal fascismo è quello che Loewenstein definisce un “fondamentalismo democratico”, ossia un incaponirsi sull’identificazione della democrazia come garanzia di diritti fondamentali e eguale trattamento di tutte le opinioni, che non possono dunque essere limitate senza con ciò minare le basi della sua stessa esistenza. Questa è per il Nostro una “letargia suicida” (p. 40) che perde di vista il nucleo valoriale, materiale e sostantivo che caratterizza la democrazia molto più delle sue garanzie egualitarie: essa è un governo che ha come fine ultimo la dignità umana e la libertà. Di contro, dunque, a una concezione “procedurale” della democrazia – tipica del positivismo giuridico e in particolare di quello kelseniano –, secondo la quale essa è la forma di organizzazione del pluralismo che non presuppone, però, l’adesione ad alcun previo contenuto morale, Loewenstein, invece, è sostenitore di una democrazia “sostantiva”, ossia pregna di contenuti politici che richiedono lo sforzo comune della comunità democratica per essere raggiunti. Si tratta, in altre parole, di identificare l’essenza della democrazia in un accordo a priori sul significato dell’azione politica e dei fini che essa è tesa a raggiungere: ne risulta, dunque, una democrazia sostanziata di contenuti di valore, che Loewenstein non è per altro l’unico a sostenere in quegli anni (tra i molti, si potrebbe citare una figura di spicco della prima generazione della Scuola francofortese, ossia Otto Kirchheimer, che nello stesso periodo andava teorizzando una “value-based democracy” proprio in opposizione alla democrazia meramente formale e legalistica che identificava con la Costituzione weimeriana).
Al di là della riproposizione di una sterile opposizione tra Costituzione formale e materiale, sarebbe urgente interrogarsi oggi su quale commistione di tecniche e valori si fondino e si giustifichino i nostro regimi democratici. Come sottolinea Mariano Croce nel saggio “Liberalismo o democrazia? La controversa eredità di Karl Loewenstein” che chiude il volume, l’interrogativo davvero impellente riguarda la capacità della proposta loewensteiniana di penetrare nelle istituzioni democratiche odierne, a partire da una sempre maggiore rilevanza della cosiddetta guerra al nemico interno. Le democrazie che si fanno militanti, con un sempre più frequente ricorso a dispositivi politici e legislativi emergenziali, è un’immagine che certo non sorprende il lettore contemporaneo. Tuttavia, il confronto con il testo di Loewenstein impone almeno due riflessioni supplementari che possono essere d’aiuto nel mettere a fuoco il problema che tale torsione della democrazia implica: da un lato, la difesa di una serie di contenuti sostantivi e valoriali – di cui la Costituzione democratica deve farsi scudo – permette di mettere in atto un meccanismo a prioristico di inclusione/esclusione. Chi non condivide tali contenuti è, dunque, considerato già preventivamente un nemico della democrazia. In secondo luogo, il frequente ricorso a una legislazione d’emergenza pone il problema di stabilire un confine netto tra uno Stato di diritto e uno Stato di polizia: su tale questione, Loewenstein non offre molte risposte se non una vaga enfatizzazione del carattere di transitorietà delle misure “militanti” e la fiducia nella fede democratica di coloro che le mettono in atto – designati per altro astrattamente come “uomini dalla mentalità liberale” (p. 73). Questa mancata teorizzazione del limite tra democrazia e autoritarismo dice molto sulla labilità dello stesso e sulla difficoltà – pratica prima ancora che teorica – di metterlo a fuoco. Eppure si tratta di una questione su cui sarà sempre più necessario e urgente interrogarsi prima che l’evoluzione delle nostre democrazie si compia sotto l’egida del motto di Saint Just “pas de liberté pour les ennemis de la liberté”. Loewenstein con ogni probabilità non ci aiuterà a risolvere la faccenda, ma di certo offre gli strumenti per aprire il caso: liberalismo o democrazia?
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