Il politico e la guerra (prima parte)
di RADICI E FUTURO (Eduardo Zarelli)
Alcune considerazioni sui libri di Fabio Falchi:
Il politico e la guerra
Anteo Edizioni (2015)
Comunità e conflitto. La terra e l’ombra
Anteo edizioni (2016)
La guerra pareva depositata nella soffitta della storia. L’occidentalizzazione del mondo è fenomeno in realtà assai cruento, ma edulcorato dallo strabismo morale, dall’ipocrisia autoimmunizzante e dalla falsa prospettiva di un conflitto che si fa cruento solo in assenza della modernità, cioè quando è praticato da “altri da sé”. La volontà universalistica di esportare la “democrazia” nel mondo, di cui è ben dubitabile la buona fede umanitaria, ha ingenerato una spirale opposta, portandoci la violenza in ogni dove, fin dentro casa. Jean Jacques Rousseau scrisse con efficacia, nel Discorso sulle scienze e le arti, di «quei presunti cosmopoliti che giustificando l’amore per la propria patria con l’amore per il genere umano, si vantano di amare tutti per avere il diritto di non amare nessuno».
Gli ultimi decenni hanno per l’ennesima volta posto l’evidenza dei fatti a smentire le «illusioni del progresso» – per dirla con le parole di Georges Sorel – con la sua religio dei diritti umani. Attiene all’emiplegia dell’irresponsabilità pensare la pace senza la guerra. In tal senso, l’adagio del celebre trattato di strategia militare Della guerra – scritto dal maggior generale nell’esercito prussiano, combattente durante le guerre napoleoniche, Karl von Clausewitz – risulta di incontrovertibile lucidità: la guerra è la «prosecuzione della politica con altri mezzi». Certo che oggi, dato il potenziale apocalittico degli arsenali termonucleari affermatisi nel XX secolo, la “guerra guerreggiata” sovrana si declina come “guerra asimmetrica”, per usare la definizione degli ufficiali cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui – Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione (Goriziana) – cioè tra entità non equivalenti, meglio detta ultimamente guerra “ibrida”; termine, questo, adoperato dal generale Fabio Mini, autore de La Guerra dopo la guerra. Soldati, burocrati e mercenari nell´epoca della pace virtuale (Einaudi). È palese, insomma, che la guerra combattuta è uscita dalla paradossale impronunciabilità nell’epoca della “guerra fredda”: si confligge ovunque, con qualsiasi mezzo possibile. Nel Medio Oriente tra Afghanistan, Iraq, Siria e Libia – per tralasciare altri contesti di minore intensità – si combatte con il massimo potenziale tattico a disposizione, coinvolgendo indiscriminatamente le popolazioni civili, con una tragica contabilità di decine, per non ammetterne centinaia, di migliaia di morti. Anche in Europa, però, la guerra è tornata a essere parte integrante dei rapporti di forza geopolitici: la disgregazione orientale, dalla Moldavia alla ex Jugoslavia, in Armenia piuttosto che in Georgia, e poi nel cuore del continente con l’Ucraina, con l’aggravante di un’esplicita militarizzazione delle relazioni internazionali. Venute meno le ragioni storiche della NATO, se ne cercano ideologicamente di sempre nuove, nella logica della globalizzazione, costruendo nemici di comodo per giustificare l’ingiustificabile. In tal senso, è molto puntuale Darius Nazemroaya nel suo La globalizzazione della NATO. Guerre imperialiste e colonizzazioni armate (Arianna editrice). La North Atlantic Treaty Organization ha continuato a espandersi senza sosta proprio verso est, in direzione del suo antico nemico, l’Unione Sovietica, trasposto ora nella Russia. Il conflitto nella Jugoslavia, in particolare, ha costituito un punto di svolta per l’Alleanza Atlantica e il suo mandato. L’organizzazione ha mutato il proprio quadro strategico da difensivo in offensivo sotto il pretesto dell’umanitarismo, intraprendendo il proprio cammino verso la globalizzazione, e andando quindi a interessare un’area di operazioni estesa al di fuori del continente europeo. Assurta via via sempre più a simbolo del militarismo statunitense e della diplomazia dei missili, la NATO agisce come braccio del Pentagono ed è dislocata nelle zone di combattimento in cui sono a frizione gli interessi strategici degli Stati Uniti e dei loro alleati. È significativo ricostruire questa fase storica successiva al 1989 nella politica italiana grazie a Paolo Borgognone nel recente L’immagine sinistra della globalizzazione. Critica del radicalismo liberale (Zambon editore). Vi troviamo una confutazione dell’odierna “religione unica” del liberalismo assoluto come teleologia della “fine capitalistica della storia”; cioè proprio quella vulgata annunciata allora dalla destra statunitense con Francis Fukuyama, ma coerentemente inverata anche dalla sinistra europea (si pensi alla coppia perfetta costituita da George W. Bush e Tony Blair nella seconda invasione dell’Iraq), che con la fine del comunismo storico novecentesco si è convertita al dogma utilitaristico e all’individualismo postmoderno, abbandonando una lettura critica e di contrasto all’espansionismo liberale. Il governo D’Alema, il primo a guida progressista, che nel marzo del 1999 impegna aviogetti italiani nel bombardamento “etico” della socialista Repubblica Federale di Jugoslavia, in violazione della Costituzione, ma tra lo sventolio interno di bandiere arcobaleno, è una delle immagini plastiche più eloquenti della “commedia dell’arte” della storia repubblicana. Con il senno di poi, è passata ovviamente sotto silenzio, in Italia e in tutto il mondo occidentale, la notizia dell’assoluzione di Slobodan Milosevic, il presidente eletto di quella Jugoslavia, da parte del Tribunale Internazionale dell’Aia per l’accusa di crimini di guerra e contro l’umanità. Una sentenza arrivata, non a caso, assai dopo la morte dell’imputato, che ha trascorso in carcere gli ultimi cinque anni della sua esistenza. Una sentenza che afferma, di fatto, l’assenza della presunta ragione “umanitaria” per cui la Nato ha bombardato per settimane la popolazione civile di quel Paese. Verdetto successivo solo di qualche settimana agli esiti del Chilcot report sulla guerra in Iraq, un opus magnum che raccoglie in dodici volumi testimonianze e documenti messi insieme dalla commissione parlamentare inglese in sette anni di indagine conoscitiva sul secondo conflitto del Golfo. Tony Blair mentì spudoratamente alla nazione, i servizi segreti avevano prodotto «valutazioni false che mai furono seriamente vagliate»» in merito alle presunte armi di distruzione di massa irachene; le basi legali dell’intervento «erano assolutamente infondate». Tutto normale, è la giustizia dei vincitori… Che ci hanno condotto al caos a cui assistiamo oggi.
La marginalità e subalternità internazionale del nostro Paese è dimostrata anche dalla scarsità e labilità della riflessione polemologica. Ci sono alcune eccezioni. Su questa rivista, tempo addietro, Marco Tarchi diede merito alle analisi di Alessandro Colombo, uno studioso delle relazioni internazionali alla luce delle categorie schmittiane: ne La disunità del mondo (Feltrinelli), egli scrisse lucidamente che dopo il 1989 «l’eccezionale coerenza del mondo bipolare ha lasciato il posto a un sistema internazionale nel quale le diverse aree regionali continuano a essere in contatto tra loro grazie alla globalizzazione dell’economia e dell’informazione, ma nel quale ogni regione tende sempre più ad abbracciare protagonisti, interessi, conflitti e linguaggi diversi. Tale scomposizione è un potentissimo fattore di instabilità: accentua le differenze istituzionali e culturali tra le diverse regioni, aumenta il peso delle gerarchie di prestigio e potere al loro interno e, in questo modo, apre la strada a nuove diffidenze e competizioni sulla sicurezza. Ma, soprattutto, tale scomposizione rende sempre più inadeguate le risposte di portata globale, anzi rischia di trasformarle da fattori di ordine in fattori di disordine internazionale». Su questa scia critica, l’autore ha poi pubblicato Tempi decisivi. Natura e retorica delle crisi internazionali (Feltrinelli), in cui sostiene che le crisi sono eventi o processi storici doppiamente dirimenti: impongono di decidere, appunto, nella consapevolezza che “il tempo stringe” e che, dalle proprie decisioni, dipenderà l’alternativa tra la vita e la morte, la pace e la guerra; inoltre, nella stessa misura in cui procurano uno strappo nel corso normale delle cose, le crisi mettono a nudo aspetti dell’ordine politico e del suo linguaggio, che in condizioni ordinarie passano quasi sempre inosservati o vengono programmaticamente nascosti: l’astrattezza della giuridicizzazione del conflitto, il carattere fittizio delle organizzazioni internazionali, le diseguaglianze di potere politico ed economico, il grado residuo di legittimità e credibilità delle istituzioni, l’inadeguatezza dei linguaggi a disposizione degli attori, intrisi di mistificazione propagandistica.
Vi sono altri due autori, che si sono dedicati, con esiti opposti, a opere tanto recenti quanto significative nella ricostruzione storica della guerra, con esplicita valenza analitica e interpretativa dell’oggi. Il primo è Filippo Andreatta, docente presso la facoltà di Scienze politiche a Bologna, formatosi con un altro importante docente dell’ateneo felsineo nonché editorialista del Corriere della Sera, Angelo Panebianco, tra i più espliciti nello sposare le ragioni atlantiche e interventiste. Per entrambi non ci si può sottrarre quindi a un’analisi della forza in politica e delle conseguenti istituzioni militari, che non sono comprensibili senza guardare alla società nel suo complesso. Andreatta nel primo volume del Potere militare e arte della Guerra. Dalla polis allo Stato assoluto (FBK Press; il secondo volume sarà disponibile nei prossimi mesi), tratta con fluida capacità espositiva le città-Stato greche, l’Impero romano, il sistema feudale, i proto-stati moderni e gli Stati assoluti settecenteschi fino alla Rivoluzione francese, per poi chiudere con un’analisi delle differenze militari tra le unità politiche europee e quelle extraeuropee. Il modo di combattere di una comunità dipende quindi dal più ampio contesto politico e sociale, ragione per cui, ad esempio, gli eserciti di cavalieri tendono ad essere associati ai regimi aristocratici, mentre gli eserciti di fanteria vengono legati a regimi più egualitari. Ma ciò che in questa sede è significativo riportare è la necessità – per questi docenti liberali – di confrontarsi con la violenza, rifuggendo da un utopismo irenistico. Senza monopolio e conseguente uso della forza, viene meno la sicurezza individuale, quindi il legame sociale contrattualistico, diffondendosi la “illegalità”. Ecco allora giustificata la modernità occidentale di pensarsi universalisti e realizzarsi tramite strumenti militari, dottrina invalsa negli stati maggiori di tutti gli Stati occidentali. L’intento è quello di diffondere la “pace” del sistema mondo mercantile, cioè di neutralizzare il conflitto politico con il mezzo eventuale della guerra che, in nome delle organizzazioni internazionali legittimate dall’ideologia dei diritti umani (a geometria variabile, aggiungiamo noi…), non sarà mai dichiarata, disconoscendo quindi una controparte, ma verrà realizzata come “ingerenza umanitaria”. I processi di globalizzazione – si sostiene – esigono strategie, istituzioni politiche e ordinamenti giuridici “globali”; spetta alle grandi potenze industriali – e anzitutto agli Stati Uniti – il compito di garantire la stabilità di un ordine cosmopolitico pacifico. Che poi ciò non sia “giusto” e sia moltiplicatore di contraddizioni e ineguaglianze dirompenti, non preoccupa chi ha una visione unilaterale dei rapporti internazionali. Rimandiamo, di contro, all’ampia e profonda opera di Danilo Zolo, già filosofo del Diritto all’Università di Firenze, a partire dall’ultima sua pubblicazione Il nuovo disordine mondiale (Diabasis), per una critica puntuale del “globalismo giuridico” che, nell’apparente neutralità della forma, impone in realtà una concezione gerarchica e omogenea dei rapporti internazionali. Ben diceva Ivan Illich in Nello specchio del passato (Boroli) che «la guerra tende ad uguagliare le culture, mentre la pace è la condizione in cui ciascuna cultura fiorisce nel proprio modo incomparabile. Da ciò ne segue che la pace non è esportabile: inevitabilmente la si deteriora nel trasporto, il tentativo stesso di esportarla significa guerra». L’alternativa – su cui conveniamo – è una visione realistica, conflittuale e policentrica, che rivaluti il rapporto fra principi e identità culturali, fra neutralità e autodeterminazione, fra tutela delle libertà e sovranità politica. (fine prima parte)
Fonte: http://www.radiciefuturo.com/blog/2017/03/13/il-politico-e-la-guerra/
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