Di liberismo, Paperino e mercati
di ALESSANDRO GILIOLI
Ogni tanto un mio amico mi chiede perché non mi iscrivo ai radicali, visto che ne condivido tutte le battaglie civili. Gli rispondo che nello statuto dei radicali c’è scritto che è anche un partito “liberista” e io sono contro il liberismo, visto la catastrofe che ha provocato. Lui mi risponde che quella cosa che ha provocato la catastrofe non è il vero liberismo, ma una sua parodia, una sua brutta caricatura in cui la libera concorrenza è subordinata a intrecci, cricche e centri di potere. Io gli replico che vabbé, se la mettiamo così allora manco il comunismo era quello di Breznev, in teoria, ma dobbiamo fare i conti con la realtà storica, non con i nostri wishful thinking.
La discussione, come giusto, prosegue fino a che il tasso alcolico lo consente.
Tuttavia, in effetti, nel confronto attuale per l’egemonia culturale si pone una questione che è allo stesso tempo nominalistica e di sostanza.
Perché dopo trent’anni in cui il dogma prevalente in Occidente era “meno Stato più mercato”, “basta lacci laccioli”, “il privato è meglio del pubblico”, adesso l’ago della bilancia sta andando dall’altra parte e ad accusare quella cosa lì – liberismo – non sono più solo veterocomunisti che rimpiangono i piani quinquennali ma molte, moltissime persone di semplice buon senso che pur senza aver letto le tabelle di Picketty hanno capito che forse si è andati un po’ troppo oltre, ultimamente.
Un po’ troppo oltre non solo in senso etico, ma anche pratico, cioè di sopportazione da parte dei più: quindi con rischi gravi per le stesse democrazie.
Ora, buttandola giù un po’ la clava, ma nemmeno troppo: negli ultimi trent’anni in Occidente c’è stata una cosa (un modello, un “motore”, forse perfino un’ideologia) che ha aumentato la forbice sociale, finanziarizzato l’economia, precarizzato il lavoro e il reddito, tolto potere ai governi eletti e impoverito il ceto medio a favore di una piccola élite di super ricchi.
Oggi nei confronti di questa cosa c’è un disagio diffuso, che assume talvolta nelle urne forme di ribellismo, ma anche di nazionalismo o peggio.
Come la dobbiamo chiamare questa cosa verso cui c’è diffusa incazzatura?
Grezzamente, forse, ma da molti di noi viene chiamata, appunto, liberismo o neoliberismo. Oppure globalizzazione liberista, nel senso che il disegno di cui sopra si è realizzato anche attraverso la globalizzazione tecnologica e dei mercati.
I sacerdoti del liberismo puro tuttavia ci dicono che sbagliamo, per i motivi addotti dal mio amico e anche per altre ragioni, come la forte presenza dello Stato in tanta parte dell’economia, le partecipate dei Comuni, il peso della spesa pubblica eccetera eccetera.
A me, francamente, di chiamare liberismo piuttosto che Pippo, Pluto o Paperino quella cosa là (quella che ha creato questo disastro, dico) interessa pochino.
Voglio dire, la disputa accademica su cosa dovrebbe essere il vero liberismo, chissenefrega, con rispetto. E se ai liberisti puri dà fastidio che venga usato il termine a loro tanto caro, ci dicano con cosa dobbiamo sostituirlo e tornino serenamente a vagheggiare il loro competitivismo perfetto.
Quello che mi interessa (molto più pragmaticamente) è che si prenda atto comunemente che quella cosa che ha vinto dagli ’80 a oggi in Occidente – si chiami liberismo, Pippo, Pluto o Paperino – ha troppo aumentato la forbice sociale, troppo finanziarizzato l’economia, troppo precarizzato il lavoro e il reddito, troppo tolto potere ai governi eletti e troppo impoverito il ceto medio a favore di una piccola élite di super ricchi. Mettendo in ginocchio ogni più elementare senso di giustizia sociale e mettendo a rischio, ormai, le stesse democrazie.
Quindi occorre cambiare radicalmente. Andando nella direzione opposta rispetto a quella intrapresa trent’anni fa.
Ecco: non credo che la direzione opposta sia quella teorizzata nemmeno dal più puro dei liberisti.
Certo, poi nessuno è così naif da ignorare che gli strumenti di redistribuzione e socializzazione precedenti il 1980 oggi non funzionano più, che bisogna trovarne di nuovi ed efficaci, probabilmente transnazionali. E assai difficili da elaborare, così come da realizzare.
Ma intanto chiariamoci sul fatto che quel modello ha fallito – comunque lo si chiami – e che è tempo di lasciarcelo alle spalle. E di andare in direzione contraria.
fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/03/21/di-liberismo-paperino-e-mercati/
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