Alitalia, un destino segnato venticinque anni fa
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Alessio Sani)
Da compagnia di bandiera e fiore all’occhiello dell’Iri a pozzo di San Patrizio: in Alitalia sono riassunti venticinque anni di neoliberismo incoerente per interposta Europa.
Alitalia è nuovamente in difficoltà e non è una sorpresa. Lunga è ormai la lista dei salvataggi a cui è dovuta ricorrere quella che un tempo fu la nostra gloriosa compagnia di bandiera.Qualche speranza era nata dall’accordo con Ethiad, il vettore arabo, ma i conti continuano a non tornare e adesso si paventa la necessità di un nuovo intervento pubblico, anche se il ministro Calenda ha subito messo le mani avanti per scongiurarlo. Il 15 marzo si è riunito il Consiglio d’Amministrazione per approvare il nuovo piano industriale, un coacervo draconiano di tagli lineari ed estensivi dei costi ed ottimismo probabilmente mal riposto dal lato dei ricavi. La previsione è quella di riportare la compagnia all’utile nel 2019. Nel mentre, servono 1,4 miliardi di euro per garantire la transizione, solo duecento dei quali possono venire iniettati da Ethiad senza infrangere i vincoli europei. In alternativa, la compagnia degli Emirati dovrebbe salire al 51 percento e addio a quell’italianità che Berlusconi aveva cercato demagogicamente di preservare di fronte all’assalto di Air France nel 2008. Si va quindi discutendo in questi giorni col governo quale soluzione sperimentare, tipo un fondo a garanzia di Stato. Il rischio è quello di non riuscire a pagare gli stipendi già dal mese prossimo. Parallelamente sono cominciati i tavoli coi sindacati, subito postisi sul piede di guerra. Ne hanno ben donde, d’altra parte: si parla di oltre duemila esuberi su dodicimila dipendenti della compagnia e tagli agli stipendi del trenta percento circa. Se a questi si aggiunge la messa a terra di venti vettori, paiono avere un certo fondamento le esternazioni della Camusso, che vi vede più un piano di ridimensionamento che di rilancio. Al di là del caso particolare di questo inizio di 2017, tuttavia, ci sarebbe da chiedersi perché Alitalia sia in difficoltà da così tanto tempo, vent’anni più o meno. Vediamo di ripercorrerne brevemente la storia.
L’epopea del trasporto aereo ad uso civile inizia davvero nel secondo dopoguerra. Uno dopo l’altro, tutti i Paesi industrializzati si dotano di una compagnia di bandiera, che significa pubblica. Alitalia non fa eccezione, collocandosi all’interno della galassia Iri, il colosso industriale nato come estrema ratio durante il fascismo per cercare di salvare il salvabile di fronte alla crisi del ’29. Protagonista negli anni del boom, nel corso dei decenni l’Istituto di ricostruzione industriale diventerà una delle principali compagnie del pianeta, arrivando ad impiegare oltre mezzo milione di addetti. Tra le tante controllate figura, per l’appunto, anche Alitalia. A questo punto è necessario ricordare come il trasporto aereo, fino a tutti gli anni Settanta, fosse un settore particolarmente regolamentato. Niente libero mercato, niente tariffe decise dall’incontro tra domanda e offerta, ogni Paese europeo ha il proprio vettore pubblico all’interno e per le rotte internazionali si sottoscrivono accordi bilaterali che solitamente prevedono la paritaria divisione di passeggeri e ricavi. Fifty-fifty, dunque, niente concorrenza. È quindi facile immaginare come funzionassero le compagnie del settore: se c’erano buchi di bilancio era sufficiente che il governo o ripianasse i debiti o alzasse le tariffe interne. La concertazione sindacale, al contempo, garantiva notevoli tutele e stipendi agli addetti del settore. Stiamo parlando, tuttavia, di un settore che veniva considerato come trasporto di lusso. Certo, i flussi di passeggeri erano in costante aumento, ma si era ben lungi dall’abitudinarietà del volo di massa di oggi.
Le cose cominiano a cambiare in America, come al solito, e tra anni Settanta e anni Ottanta, come al solito. È con Carter, invece che con Reagan come avviene nella maggior parte dei casi, che inizia la deregulation del settore, inizialmente solo per i voli interni agli Stati Uniti. Se ne possono immaginare le conseguenze: aumento del numero dei passeggeri, calo delle tariffe, abbassamento dei livelli di sicurezza, dei controlli richiesti, riduzione delle tutele (o privilegi, la semantica per il neoliberismo è sempre fondamentale per frammentare le classi sociali) del personale. Nascono così nuove compagnie che offrono servizi “low cost, no frills” (bassi costi, niente fronzoli). A far scuola sarà la Southwest Airlines, che proprio dalle liberalizzazioni di Carter prenderà, letteralmente, il volo. Come sempre, ciò che avviene a Washington si riverbera prima a Londra e poi nel resto dell’Europa e così, con l’avvento di Margaret Thatcher, il mantra delle deregolamentazioni entra, tra mille resistenze, nel linguaggio politico del nostro continente. Decisiva, a questo punto, è l’azione della Commissione Europea a guida Delors, la prima che comincia ad influenzare pesantemente le politiche degli Stati della nascente Unione Europea. L’accelerazione del processo di integrazione infatti, coincide malauguratamente col diffondersi del neoliberismo, che ne influenzerà pressoché totalmente la direzione.
Torniamo ad Alitalia. Il biennio 1983-84 è felice per la compagnia. Ottima qualità, puntualità, terzo posto europeo per numero di passeggeri, ricavi in crescita e, miracolo, profitti considerevoli. Già si profila all’orizzonte, però, il terremoto della deregulation. Il presidente dell’epoca, Umberto Nordio, in buon politichese fa capire che, per quanto la compagnia sia solida… beh, insomma, sarebbe proprio meglio che non si liberalizzasse. La Commissione parte all’attacco con morbidezza, tante sono le resistenze da vincere e l’esperienza americana insegna che la crescita ha un prezzo alto da pagare che quasi nessuno in Europa pare essere disposto ad accettare. Tuttavia, una volta che la pietra inizia a ruzzolare diventa sempre più difficile ipotizzare che si fermi, anzi, solitamente accelera. Così, passo dopo passo (e con la scusa che le nascenti “associazioni dei consumatori” sono felici delle basse tariffe) si arriva alla liberalizzazione pressoché completa, non solo intraeuropea, ma generale. Non saranno pochi infatti gli scontri, in quegli anni, con gli Stati Uniti, per l’aggressiva politica commerciale messa in atto dalle più forti delle loro compagnie. Non sarà morbido, con gli americani, l’allora amministratore delegato di Alitalia, Giovanni Bisignani. Quel che conta, comunque, è che alla fine il gioco al ribasso diventerà un massacro per tutti. Il rosso sarà il colore che accomunerà quasi tutte le compagnie dell’epoca, che fossero di bandiere o meno. È quello dei bilanci, chiaramente. Un terribile gioco al massacro capitalistico, dunque, dal quale solo i più forti, grandi ed efficienti potevano sperare di uscirne vivi. E ci sarebbe da aggiungere i più indebitati, quelli che potevano permettersi la leva debitoria maggiore per stare in piedi nonostante la necessità del dumping.
Arriviamo così alla prima vera crisi di Alitalia.
Da allora sono passati venticinque anni. Un quarto di secolo e gli aerei col tricolore in coda sono ancora a terra, incapaci sia di librarsi in volo che di morire. Se da un lato i continui salvataggi pubblici hanno tenuto in vita la compagnia, dall’altro sono stati insufficienti e non accompagnati da piani di rilancio ambiziosi ed efficaci. Lo stesso, in realtà, è avvenuto in quasi ogni altro settore della nostra economia. Noi italiani non siamo stati capaci di comprendere come concorrenza volesse dire fine di un’epoca, di un sistema che presentava sì degli svantaggi in termini di efficienza, ma notevoli vantaggi sociali. Concorrenza, ad esempio, vuol dire vantaggi per i consumatori, ma svantaggi per i lavoratori e oggi infatti si parla di tagli degli stipendi del trenta percento, d’altronde devi competere con Ryanair che li ha più bassi del quaranta.
In altre parole, quello che il neoliberismo dà da una parte, con la riduzione dei prezzi, toglie dall’altra, con la riduzione dei costi. La differenza è che i prezzi calano subito per tutti, i costi (cioè in buona parte gli stipendi) solo per alcuni. Proprio la frammentazione delle classi sociali è la sua forza, così ogni categoria gode delle disgrazie altrui finchè non tocca alla propria. Arriviamo così alla situazione odierna, ben fotografata da questo pezzo di Repubblica. Il modello vincente è Ryanair. O si diventa più competitivi di loro, coi rischi connessi, o si muore. In ultima analisi, pertanto, non siamo stati capaci né di opporci al cambiamento e difendere il nostro vecchio modello di sviluppo, né di cambiare veramente e compiere scelte coerenti, per quanto brutali. Il risultato sono stati venticinque anni di lenta agonia.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/italia-2/alitalia-un-destino-segnato-venticinque-anni-fa/
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