Dal diario di un impaziente Note sparse su sinistra, Europa, sovranità (Seconda parte)
di MIMMO PORCARO
Piccole monete per piccole patrie
E infatti ne vengono fuori solo palliativi, pannicelli caldi, o vere e proprie “furbate” dagli esiti paradossali. Prendete questa cosa delle monete “sociali” o della “moneta fiscale”. Intendiamoci, nulla in contrario, in linea di principio, in determinati momenti e per determinate questioni. Ma questi espedienti, pensati per non porre il problema dell’exit, avrebbero bisogno, per funzionare davvero, proprio di quella rigida chiusura nazionalistica, quando non localistica, che si rimprovera a chi dall’euro vuole uscire. Infatti la moneta fiscale e quella locale funzionano (come soluzione principale) solo per una nazione o una regione completamente chiuse agli scambi con l’estero. Se invece a questi scambi ti devi aprire ti accorgi che è impossibile usare queste monete per regolare i conti con l’estero, ossia per affrontare quello che è il problema principale di un’economia ormai dipendente come la nostra. Proprio per questo l’eventuale momentaneo beneficio di una moneta sociale e fiscale (i soldi comunque girano, le attività economiche riprendono e così la domanda ecc. ecc.) si convertirebbe da subito in un aumento del deficit con l’estero che, non potendo mai risolversi (per quanto riguarda i rapporti con i paesi europei) con la flessibilità monetaria, dovrebbe essere risolto con la flessibilità salariale. Al ribasso, ovviamente. Ecco che cosa succede a schivare il concreto, concretissimo problema dell’euro
Poesia e prosa
Ma che ce lo diciamo a fare? Qui non è questione di opinioni, di “franca e fraterna discussione”, di lotta ideologica. Certo, c’è una parte non piccola di militanti di sinistra che rimane europeista per dubbi sul prima e sul dopo (sulla genesi dell’Ue e sui modi dell’exit), per abitudine intellettuale, per diffidenza verso certe forme di sovranismo. Con costoro bisogna essere pazienti e non spocchiosi. Bisogna ricordarsi che non è stato facile neanche per noi uscire dall’europeismo: e l’abbiamo fatto di fronte alla palese evidenza del coup d’état di Napolitano-Monti: la droga soporifera successivamente spacciata da Mario Draghi ha annebbiato la vista a molti. Ma per la gran parte della sinistra, ed in particolare per i gruppi dirigenti ed i quadri intermedi, non è questione di poesia europeista ma di prosa. In Italia chi guadagna più di 1.500 euro al mese è europeista. Chi ne guadagna dai 1.000 ai 1.500 è indeciso. Chi sta sotto i 1.000, o chi è disoccupato, è antieuropeista: e se invece per ora si tiene in disparte, domani sarà decisamente anti-euro. Questo per dirvi come va il mondo. La nostra tragedia sta nel fatto che la base sociale della sinistra (quella da cui provengono i quadri) e la sua base di massa (quella da cui provengono gli elettori) appartengono generalmente al primo e al secondo scaglione: e i dirigenti soprattutto al primo. Chi glielo fa fare di rompere gli equilibri e di correre i rischi politici dell’exit? E chi glielo fa fare di porsi il problema dello stato, visto che sulle questioni essenziali (ossia sull’indiscutibilità dell’europeismo) lo stato italiano si muove secondo i desiderata della sinistra e per il resto con 1.500 e più euro al mese, welfare e pensione da lavoratore di lungo corso si vivacchia mica male?
Ancora una divisione trai lavoratori
La nostra vera tragedia, la tragedia di quel che resta del movimento dei lavoratori e del movimento socialista e comunista, e quella di tutti i cittadini che ancora credono alla Carta fondamentale non è lo strapotere del capitale ma la divisione interna al mondo del lavoro. L’esperienza della lotta di classe post ’45 è certamente ambigua e contraddittoria, ma è difficile negare che nello stato sociale e nel partito di massa, il lavoro qualificato (fosse esso di origine “colta” o meno) aveva la funzione di mediare tra lo stato e la parte meno qualificata del lavoro stesso. Stato e partito erano il luogo di un’alleanza. Progressivamente, il ritrarsi dello stato e la forma privata assunta da molte attività intellettuali hanno creato una frattura che al momento non si vede come risanare, se non con una grande esperienza collettiva di emancipazione, dettata da una qualche necessità storica. Insomma: in Italia esiste un blocco deflazionista, composto non solo dai possessori di grandi e medi capitali, ma anche dai medi risparmiatori e da grandissima parte dei lavoratori garantiti, un blocco che teme l’instabilità e l’inflazione più di ogni altra cosa, che egemonizza il movimento dei lavoratori facendo dimenticare a tutti che l’inflazione è inseparabile da una politica di piena occupazione, e viceversa. Finché questo blocco non si estinguerà (per la progressiva scomparsa del lavoro garantito) o non si spaccherà, non risolveremo nulla. Per adesso questo blocco si candida, qualora ce ne fosse bisogno, a salvare l’appartenenza dell’Italia all’Unione promuovendo una sacra alleanza contro il populismo sovranista. Ad amministrare la miseria italiana per conto della Germania. Nuovi Tsipras crescono.
Sovranità e classe
Qualche evoluzione a sinistra, e nelle vicinanze, si inizia per fortuna a vedere. C’è però troppa timidezza nell’accettare in pieno il terreno della sovranità nazionale. Si ha forse paura di tornare a un tempo in cui l’aggettivo “nazionale” (interesse nazionale, solidarietà nazionale) copriva pratiche di compromesso di classe a perdere. E lo posso capire. Ma oggi le cose stanno all’opposto: oggi la sovranità nazionale viene distrutta proprio per rendere impossibili politichepro labour. Ed oggi la rinazionalizzazione della politica (un dato di fatto, non una scelta degli ottusi sovranisti) non è un incidente di percorso che interrompe la pacifica marcia della globalizzazione: è piuttosto l’inevitabile risultato dialettico della globalizzazione stessa, che è stata ed è un processo di gerarchizzazione a cui si risponde, inevitabilmente, situandosi in quegli spazi che storicamente hanno (o possono tornare ad avere) quel quantum di forza finanziaria e politica che serve ad ostacolare il libero movimento del capitale. Ossia le nazioni. Dice: ma la sovranità rimanda ad un potere assoluto, trascendente, nemico della società e quindi dei lavoratori… . Ma quando mai? Nella logica del pensiero costituzionale italiano (Mortati in primis) la sovranità è la possibilità di porre in essere comandi politici che non siano condizionati da potentati, interni o esterni allo stato, che possano ostacolare la funzione redistributiva dello stato stesso. La sovranità è la base di una costituzione lavorista, e dalla costituzione stessa è limitata(giustamente: perché il sovrano, quand’anche sia il popolo, può sempre sbagliare). La lotta per l’autonomia di classe ha bisogno di strumenti di politica economica che solo la sovranità nazionale può fornire, ed è per questo che autonomia di classe e sovranità nazionale si intrecciano. Una sovranità nazionale che è primo passo per la creazione di nuove relazioni internazionali che costituiscano lo spazio necessario a condurre in porto efficaci esperienze socialiste. Siamo socialisti ed internazionalisti: quindi vogliamo ricostruire uno stato capace di redistribuire (e per questo ci serve la condizione formale della sovranità nazionale), e quindi dobbiamo anche poter far muro contro la piena libertà di movimento dei capitali (e per questo ci serve uno spazio internazionale cooperativo – e non gerarchico come è quello dell’Unione).
Sovranità e democrazia di base
Dice: ma come, proprio tu che per anni hai teorizzato la necessità di una politica che non si fissi sullo stato, che sia in grado di intaccare i poteri sociali più diffusi, che consenta una attivazione diretta dei lavoratori e della cittadinanza, proprio tu mi vai a riscoprire lo stato, la sovranità e addirittura la nazione? Si, e non sento nemmeno il bisogno di fare troppa autocritica (se non per aver dato troppo credito al “movimento dei movimenti”, non cogliendo fino in fondo la natura relativamente aristocratica di certe forme di mobilitazione). Non ho mai assunto una posizione anarchica (anzi, ho polemizzato espressamente con Negri ed Hardt). Non ho mai detto che si cambia il mondo senza prendere il potere (anzi, ho polemizzato espressamente con Holloway, pur riconoscendone i meriti). Ho semplicemente detto: a) che la funzione di un’entità “terza” che dirima grazie all’autorità politica i conflitti sociali (inevitabili anche nel migliore dei mondi) è ineludibile, e che quindi è ineludibile una qualche forma di stato, altrimenti il soviet più forte mangerà sempre il soviet più debole; b) che ogni stato, anche e soprattutto lo stato che si pretende espressione diretta del popolo, della classe o della famosa moltitudine, tendeinevitabilmente alla degenerazione gerarchica; c) che quindi è necessario affiancare allo stato una rete di associazioni autonome dei lavoratori e dei cittadini, capace di interloquire e confliggere con lo stato stesso e, se necessario, di produrre nuovi gruppi dirigenti in sostituzione di quelli eventualmente degenerati. Aggiungo che tali associazioni, se sono veramente mosse dall’esigenza di organizzare la lotta dei ceti popolari per più decenti condizioni di vita e di costruire forme efficaci di democrazia di base, troverebbero oggi grande giovamento proprio da una ricostruzione della sovranità nazionale, perché così avrebbero di fronte ad un interlocutore preciso, identificabile e certamente assai più permeabile della Commissione europea e di consimili mostri. Per capirci: le “città ribelli”, se si organizzano contro un governo nazionale per esigerne politiche coerentemente redistributive, sono un grande momento di presa di parola delle classi popolari e di costruzione delle condizioni dell’eguaglianza. Se invece si presentano come snodi di una governance europea, si perdono nell’indefinito dei progetti macro-clientelari e divengono vettore di diseguaglianza, creando un solco trai luoghi che hanno le possibilità ed il coraggio di ribellarsi e quelli che non sanno o non possono farlo. C’è qualcuno, trai movimenti, le associazioni ecc. ecc. che abbia voglia di affrontare questo “piccolo” problema? Vogliamo proprio far sì che l’anarchismo perda tutta la sua possibile funzione critica e si riduca ad essere anarcocapitalismo d’accatto, ideologia del dominio dei penultimi sugli ultimi?
Non “tornare” ma “inventare”
Non vedo solo una timidezza nell’accettare il terreno della sovranità. Vedo anche una certa leggerezza nell’accettarlo. Intendiamoci: rivendicare la sovranità è condicio sine qua non di qualunque politica degna di questo nome. Ma non si può semplicemente dire “torniamo alla sovranità nazionale”. Se è vero che oggi la sovranità è limitata anche formalmente (e questa è una grave regressione) non si può dimenticare che negli anni successivi al ’45 essa era comunque sostanzialmente limitata. Una funzione fondamentale della sovranità, quella militare, era concentrata nello stato egemone. Ed anche la sovranità economica era sottoposta a vincoli, per quanto, almeno all’inizio, molto elastici. Queste limitazioni, poi erano strettamente funzionali al mantenimento delle gerarchie di classe interne ad ogni paese. Insomma, se si vuole usare la sovranità nazionale come momento di controffensiva dei lavoratori bisogna reinventarne le condizioni, lavorare per la formazione di un mondo multipolare e per il suo equilibrio pacifico, scegliere le relazioni internazionali che meglio consentano lo sviluppo della lotta di classe. Un terreno tutto da dissodare. E così non si può dire semplicemente “torniamoalla politica mediterranea cooperativa” tipica dell’Italia. Tale politica infatti non fu solo cooperativa, ma anche a suo modo imperialistica, fu in fondo solo una variante tattica dell’atlantismo – e difatti perse ogni autonomia quando il sovrano atlantico lo impose, e si mosse in un ambiente di interlocutori stabili che oggi non esistono più. Qui, per noi, abituati a pensare alla politica estera più che altro in termini di slogan e tifo, c’è davvero un lavoro enorme da fare. Né si può dire semplicemente ”torniamo alle imprese pubbliche”, perché queste veramente pubbliche non furono, a causa di una forma giuridica e di un regime di controlli che le resero man mano oggetto di uso privatistico da parte di manager e partiti. Soprattutto, dato il monopolio manageriale del know how, la redazione delle norme che avrebbero dovuto regolare il comportamento delle grandi imprese era di fatto affidata alle imprese stesse (e lo stesso discorso vale per la Banca d’Italia). Si deve quindi inaugurare la stagione dell’impresa pubblica nel nostro paese. E le competenze della società civile potrebbero avere oggi molto da dire nell’ambito di una ripresa ragionata dell’economia mista.
Ecco, vogliamo parlare di queste cose o ci basta cianciare su Minzolini e sulle pseudo-scissioni del PD? E’ possibile che non si riescano a studiare in maniera organizzata tutte queste questioni? E’ possibile. E così, reso impaziente dall’età avanzata e dall’avanzare dei tempi, mi toccherà di stizzirmi ancora, e di sfogarmi ancora con voi.
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