Il mondo di cui parliamo (2a parte)
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Francesco Girasoli)
Ogni individuo ha nel proprio prossimo il suo naturale interlocutore; da questo punto di vista la vita degli uomini è una continua dialettica, una perpetua interlocuzione, un continuo rapporto con l’alterità. In questa dialettica, intesa come incontro tra due forze, vige un imperativo tutto umano: il bisogno di senso, il quale necessariamente conduce ad indagare la Verità.
Prima parte: https://appelloalpopolo.it/?p=35796
Tutto ciò snatura in apparenza i rapporti di forza economici, qualificandoli come non politici. Ma la massima “meno Stato, più mercato“, che è sopravvissuta pressoché indenne all’introduzione massificata dei diritti sociali, è stata introiettata dalle masse dei popoli come la volontà dell’economia di escludere, finalmente, il turpe mondo politico, il quale con le sue ideologie ha solo causato dittature, genocidi, massacri, guerre, odio razziale e miseria. Senza cercare di confutare questa narrazione, risulta ugualmente contraddittoria come posizione, dal momento che cerca di occultare una verità inderogabile: tutti i rapporti di forza sono rapporti politici. Questa verità è stata ancor più oscurata dalla percezione generalizzata del decadimento completo del conflitto di classe, e quindi sull’apparente superamento della dicotomia capitale-lavoro. Merito di questo è stato il passaggio del capitalismo dalla sua forma classica impostasi nel XIX sec., a quella cosiddetta postfordista, che ha inaugurato l’odierna società dei consumi, la quale ha livellato le differenze di censo non tramite l’aumento salariale o una maggiore giustizia sociale, bensì tramite l’abbattimento dei costi produttivi di tutti i beni di consumo superflui e la loro vendita massificata. Proprio nella società dei consumi, la politica subisce la marginalizzazione definitiva, e a divenire socialmente prioritaria è la gerarchizzazione degli individui tramite la loro attività di consumo, all’interno della quale riposa il «generatore simbolico di tutti i valori», che è il denaro (U. Galimberti).
Questo problema e tutte le sue attigue considerazioni, non appartiene alla società civile in quanto insieme dei rapporti produttivi, poiché questo schematismo è insufficiente a spiegare i rapporti di forza ideologici, i quali sono pertanto certamente politici, che culturalmente vogliono raffigurare e spiegare il problema del consumo. Questo è un qualcosa che si spiega solo nella società civile non più intesa come la bürgerlicheGesellschaft marxiana, luogo appunto delle attività borghesi del commercio e dell’industria, ma come zivilGesellschaft, inteso come il luogo dove i cittadini si associano senza scopo di lucro, e dove direttamente e indirettamente formano la cosiddetta opinione pubblica. Questo distinguo, messo in luce da Jürgen Habermas nella sua Storia e critica dell’opinione pubblica, mette in risalto il vero centro propulsivo della dicotomia, qui posta in essere al principio, fra interesse e ragione quali elementi alla base della concezione del mondo che l’uomo si forma.
L’opinione pubblica, oltre ad essere presuntamente il cuore della democrazia, è il luogo della riflessione collettiva dove la società dovrebbe prendere coscienza di se stessa e dei suoi bisogni. Ma questa presa di coscienza non dovrebbe, al contrario di come è in realtà, essere maturata nel privato per poi essere espressa in pubblico; perché l’opinione pubblica che Habermas qualifica tale nasce nel pubblico per il pubblico, allorché per ovvie ragioni penetra nel privato. D’altra parte l’idea che il rischiaramento tra i cittadini possa avvenire nell’arena pubblica rasenta l’utopia, poiché l’intero sistema dei mass-media, neppure lontanamente vicini ad agire secondo una disinteressata ragione, concentra tutte le sue energie nel consacrare il privato,e non il pubblico, come sfera preferenziale per la formazione dell’opinione. Il che non è per nulla incoerente con l’idea che il pensiero liberale si fa della volontà generale: essa è semplicemente la somma di tutte le volontà particolari, non esistono altre qualificazioni qualitative. Quindi, ne desume infine Habermas, è chiaro che l’opinione: nasce in privato, non si forma razionalmente, subisce inconsciamente la simbolica dell’ordine costituito e non si presta all’ipotesi correttiva del confronto pubblico. Ne deriva a sua volta che l’opinione pubblica odierna non ha cognizione di se stessa come entità necessaria del vivere politico, poiché ritiene il politico qualcosa di escluso dal privato o, paradossalmente all’inverso, di prettamente privato, negando in ogni caso la sua onnicomprensività.
In ciò si replica esattamente la logica del consumismo, il quale è un fenomeno che abbraccia la totalità della vita umana e che viene tuttavia relegato dalle coscienze al solo ambito privato. D’altra parte l’obiezione generalmente mossa alla problematizzazione del consumismo è che essa sia una criminalizzazione atta a svilire l’umano immerso in uno scenario comunque inarrestabile, come quello della globalizzazione per esempio, senza proporre alcuna soluzione compatibile con questa realtà. Si rimprovera, ossia, a coloro che denunciano gli eccessi inevitabili del consumismo, di fare una superficiale critica dei costumi, quando in realtà è profondamente politica. Nè tanto meno si intende di come il consumismo abbatta o leda la capacità partecipativa del cittadino alla politica, da cui se ne deduce impropriamente che l’aggressione al consumo sia aggressione del privato, e che pertanto non sia una critica legittima, ma solo una retorica criminale atta a regolare, secondo schematismi filo-sovietici ed evocando spauracchi orwelliani, la libera conduzione della vita dei singoli individui. Ma il quesito esasperante dunque è: cos’è mai questo consumo di merci?
Anzitutto è opportuno compiere due osservazioni assolutamente necessarie, una sul metodo e una sul merito. Regna sovrano il diktat che recita letteralmente: se esprimi una critica, elabora anche una soluzione, altrimenti taci. Ora, al di fuori dell’ambito educativo, dove questa massima ha la sua ragione d’essere, dal momento che chi educa deve punire ma nel contempo fornire un esempio positivo a fini emulativi, si tratta di una ben meschina strategia argomentativa atta ad avvilire moralmente la libera espressione di pensiero presso tutti gli enti della società civile con la cognizione per esprimerla. La sovrabbondanza e l’inarrestabilità del fenomeno consumistico, e tutto ciò che lo genera, non sono affatto qualificazioni che lo rendono necessariamente accettabile o addirittura giusto. La critica, come attività razionale, è sterile solo quando basa il suo impianto logico sulla soggettività, quando manca, cioè, di un principio di universalità. La riflessione sulla realtà non può essere legittimata solo come rapporto tra problemi e relative soluzioni. Essa è sempre valida, se vera. Questo avvilimento del pensiero, quando non utile nel contingente, è anch’esso un prodotto dello sviluppo tecnico e dal pensiero calcolante che lo anima (Denken als rechnen), il quale genere l’illusione che l’uomo viva la propria vita immerso nella dimensione della risolvibilità. Al contrario, l’uomo vive e ha vissuto constantemente in una dimensione inestinguibile di problematicità, entro la cui perenne esaltazione soltanto ha potuto sviluppare le sue più straordinarie invenzioni, le quali sono, cronologicamente, il linguaggio, la logica e la scienza.
L’idea che ogni problema abbia una sua soluzione conseguente e immediata è una visione binaria della realtà che non ammette ogni sorta di ridondanza, la sovrabbondanza formale, ovvero non ammette l’inspiegabile e perpetuamente misteriosa complessità dell’animo umano; preferisce ridursi al rapporto bisogno-soddisfazione ossia desiderio-merce. Ma se chi critica deve offrire obbligatoriamente soluzioni per legittimare la propria volontà di esprimersi, è anche a causa di un fenomeno altrettanto ideologico ma concreto, che affonda le sue radici nell’esportazione mondiale del modello imprenditoriale statunitense, figlio a sua volta del lassismo liberale. Chi è l’uomo delle soluzioni se non colui che, scrollandosi di dosso certe stupide velleità filosofiche, torna coi piedi per terra e si sporca le mani? Ossia, chi è l’uomo delle soluzioni se non colui che non aspetta che lo Stato gli risolva i problemi e si arrangia lavorando sodo? Costui è il self-made man, un profilo antropologico che per sua stessa natura ha rifiutato la dimensione astratta del problema, il quale ritiene costruttivo occuparsi del qui ed ora.
Pubblicizzare un simile modello come ideale alla contemporaneità è il subdolo modo di rinegoziare diritti conclamati mascherando questa azione come una presunta riqualificazione morale delle inadeguatezze dei cittadini: i lavoratori scioperano perchè hanno tempo da perdere e la pancia piena, altrimenti sarebbero a lavorare sodo! Gli studenti che protestano in realtà farebbero meglio ad andare a casa a studiare! Le donne che chiedono il diritto alla maternità inizino a darsi da fare trovandosi prima un part-time! Ma alla società civile non può spettare, la risoluzione dei problemi: essa rimane già assai sana quando può al contrario rilevarli, descriverli, anche proporre misure correttive, con tutte le risorse intellettuali di cui dispone, ma per poi consegnarne l’effettivo risolvimento alla politica, la quale sola è intitolata, legittimata e in possesso delle risorse e delle cognizioni per attuarlo, con generalità e sistematicità.
Che il singolo abbia il dovere di trovarsi da solo le soluzioni a problemi che riguardano interi segmenti del tessuto sociale significa gettarlo in una dimensione entropica, significa indirettamente giustificarlo ad uscire addirittura dalla dimensione pacifica ma conflittuale del Diritto, per rendersi autonomo da una condizione di disagio sostanziale a qualunque costo morale e sempre più spesso legale. Aspetto, quest’ultimo, ancor più problematico, dal momento che in questi termini il cittadino non vede altro nel Diritto se non la scaltrezza dell’azzeccagarbugli, e pertanto non lo riverirà più come un oggetto degno di mantenere un’integrità e una coerenza col proprio fine, bensì come il semplice mezzo, scorporato da qualunque epistemologia, di opporre le proprie rivendicazioni a quelle di altri; nulla più. Dunque alla massima: critica, dai una soluzione o taci, sarebbe opportuno opporre un’etica ben più onesta e datata della quale, sebbene sia utopico auspicare la piena realizzazione, si può far uso come canone regolativo a cui tendere, e questa è la massima kantiana “Agisci in modo che anche tu possa volere che la tua massima diventi leggi universale”. Se anche questa raccomandazione di rendere sempre logico e quindi razionale l’agire etico non venisse seguita alla lettera, grandi effetti positivi ne sortirebbero ugualmente qualora qualcuno provasse a farlo, poiché dinnanzi l’imperativo categorico kantiano, come dinnanzi qualunque raccomandazione, l’uomo si pone interrogandosi sulla propria condotta: penso io davvero così? Agisco io davvero così? La pratica dubitativa e quindi riflettente della coscienza, psicologicamente definita introspezione, è il momento massimo dell’etica di ogni uomo, poiché significa che questa, anche qualora venga trasgredita, è agente. Una coscienza che si mette in discussione rispetto all’universale, è sicuramente un luogo prolifico per il pensiero critico e quindi oggettivo, alimentato dal desiderio di trascendere la propria contingenzialità per la comprensione astratta dei fenomeni; di sacrificare l’interesse per la ragione.
Di seguito a quest’ultima considerazione l’osservazione relativa al merito dell’argomentazione contro lacritica del consumismo sembra una naturale prosecuzione, poiché attiene alla concezione che il sentire comune ha del pubblico e del privato. Certo si potrebbe ritenere che mai come oggigiorno, in questa perpetua quotidianità di contestazione civile, questi due luoghi sociali dell’attività umana siano tra loro distinti e distinguibili. Eppure, nel furore del privato che argina continuamente il pubblico e il pubblico che si trova dinnanzi nuovi scenari inglobabili nella sua sfera, l’intelletto, il ragionamento, sembra in modo apparentemente felice locato nel privato in virtù della sua garanzia da coercizioni, e quindi di piena realizzazione del sé tramite la presunta libertà che in esso vi vige incontrastata. Certo si sta parlando di un privato considerevolmente sovrabbondante rispetto al suo originario riconoscimento; nel sentire comune ormai è privato non più solo ciò che attiene il singolo, ma tutto ciò che non incontra direttamente l’istituzione pubblica, tale per cui addirittura la legge, il Diritto, non è che un’espression generale per indicare semplici miriadi di singolarità, ossia obblighi che riguardano ognuno privatamente, e non ognuno in quanto collettività. Dunque il ragionamento autentico abita solo il privato in quanto luogo della libertà, il pubblico lo limita in quanto luogo della coercizione. È storicamente vero, ma dialetticamente non auspicabile.
Ancora Immanuel Kant, nel suo famosissimo manifesto Che cos’è l’illuminismo, descrive, forse, più che sancire, la dicotomia che vige tra uso pubblico e uso privato della ragione, e ne sovverte radicalmente il significato. È il privato il luogo della coercizione e dell’obbedienza, poiché è nella dimensione del singolo che vivono autenticamente le dinamiche del volere e del potere, e quindi sempre nei confronti del singolo vigono degli obblighi, dei doveri. Kant rievoca una realtà mai obsoleta: la molteplicità dei ruoli sociali compresenti nell’individuo, il quale passivamente o meno è co-autore del mondo col suo agire e il suo pensare. Quindi all’uomo si domanda, ed è l’umanità a rispondere, poiché questa non può essere la semplice somma delle singole entità. Il pubblico, al contrario, è il luogo del rischiaramento, poiché lì avviene lo scontro dialettico di tutte le forze perennemente in tensione; è l’umanità che si esplica, poiché è nella collettività, vivendola, che l’uomo reperisce le sue plurime appartenenze e ragiona su ciò. È nel pubblico che può accadere il cambiamento, poiché è abitato dall’idea, dalla forza e dal conflitto. Kant auspica logicamente che tanto più sarà forte il rischiaramento prodotto dall’uso pubblico della ragione, tanto più esso modificherà la società determinando di conseguenza il cambiamento del suo uso privato, e certo di ciò che da esso il potere esige. Ad oggi sarebbe opportuno ricordare che questo non solo non accade, ma che addirittura e surrettiziamente si è mistificato l’uso della ragione, che per esteso è il pensiero filosofico, come l’ennesima e miserevole forma di esistenzialismo o esperienza artistica atta semplicemente a distinguersi dalle masse di cui tutti sono inderogabilmente parte. Ossia un semplice dandysmo intellettuale, una moda, la quale è il volto più sofisticato del consumismo.
Il quesito ritorna infine al netto delle osservazioni: cos’è mai questo consumo di merci? E in nome di quale residua e paludata saggezza si vede nel consumo di merci un momento così disastroso e avvilente per l’uomo? Si dirà, non a torto, che l’uomo ha sempre consumato, così come ha sempre prodotto e commerciato, da ben prima che il liberalismo divenisse un’ideologia politica e l’istitutore di una dottrina economica. D’altra parte, al liberalismo sono precedenti anche le esigenze prettamente materiali dell’uomo, prima fra tutte quella del nutrimento, motivo per cui il primo e più prolifico commercio fu sicuramente quello di generi alimentari. Mettendo da parte i grotteschi tentativi storiografici che cercano di dipingere l’economia dell’Impero romano come proto-capitalistica, non rimane che evidenziare il fatto più evidente: il consumismo non potrebbe darsi come motore del fenomeno economico se l’uomo non avesse diversamente qualificato il superfluo rispetto al necessario, ossia se non avesse ritenuto che moltissimi bisogni superflui sono in realtà il fondamento della sua umanità rispetto all’animalità. Non si vive di solo pane, per ben riassumerla in modo idiomatico.
L’uomo ha interessi materiali e ideali (M. Weber): i primi, per dirla con la piramide di Maslow (1954), asservono l’autoconservazione, quindi il soddisfacimento dei bisogni fisiologici e la sicurezza propria, dei beni e degli affetti, i secondi asservono l’auto-imposizione egoica nel mondo, bisogno di autorealizzazione e di stima sociale. Nella dimensione dell’idealità riposa sicuramente il prodotto primo dell’animale linguistico che è l’uomo: la cultura. È qui che si deve indagare l’effetto del consumismo, altrimenti si cadrà eternamente nel tranello che vuole renderlo solo un fenomeno economico; ma questo è totalizzante, e in quanto tale abbraccia l’intera civiltà umana. Hegel lo aveva spiegato benissimo nella Scienza della logica, spiegando come l’aumento quantitativo di un fenomeno determinasse, oltre una certa soglia, un cambiamento qualitativo dell’intero paesaggio. Certo, meglio avere cognizione del rapporto cultura-consumo si potrebbe ricorrere a tutto lo scibile che ha indagato il fenomeno e le sue implicazioni culturali; si potrebbe disturbare l’intera pletora dei mostri sacri della Scuola di Francoforte da Adorno a Marcuse, ma costoro partono dallo stesso presupposto che sfugge alle masse, le quali ogni giorno si fanno della realtà odierna una rappresentazione inevitabile e che potrebbero non vedere mai oltre il velo dell’illusione. Il presupposto è che il consumo, prodotto da questo non-libero Mercato, che è a sua volta la surrogazione del divino in quanto forza attiva ma invisibile, ha colonizzato con le sue forme tutte le altre; è divenuto il nuovo paradigma metaforico e semantico su cui ogni attività umana si fonda. Per usare un vacabolo dell’attuale lessico egemone: tutto è, o può diventare, business. Può esserlo la politica, la cultura, il diritto, il mondo relazionale umano, la religione, la tecnologia, la natura, la vita. Ogni ambito del vivere oggi replica silenziosamente questa dinamica, la quale ha contaminato tutti i nostri significati: il linguaggio stesso è ormai prono a recepire senza difficoltà questa radicale e incessante trasformazione. Naturalmente l’ego collettivo è del tutto inconsapevole di essere portatore sano di questa simbolica, e di replicarla in ogni sua attività, quale per esempio l’arte nelle sue molteplici espressioni, ritenendo questa realtà la migliore possibile.
È noto che un senso comune piuttosto diffuso è solito enunciare: non esiste qualcosa di giusto o sbagliato, ma tale è l’uso che si può fare di qualcosa. Il consumo è giusto in quanto è la base della prosperità economica; è sbagliato in quanto strumento di avvilimento della dignità umana. Si tratta di un pensiero che non coglie il punto della questione: non si tratta di giusto o sbagliato, poiché per provocare dei mutamenti un fenomeno non si considera certo in base al suo uso, bensì al suo interfacciarsi o no con l’uomo. Per proporre un esempio banale: la digitalizzazione ha prodotto una rivoluzione della cultura materiale e dello sviluppo cognitivo nel momento in cui è stata tecnologicamente possibile, ed in quel momento si è effettuata. Nessuno si è chiesto cosa sarebbe stato giusto fare con la digitalizzazione quando questa non era ancora in essere; la morale (ancora) non può preesistere scenari inediti, si manifesta unicamente in seguito agli effetti dell’azione primigenia, ossia quando si dà una prima prassi. Quindi la digitalizzazione c’è, l’umanità vi si interfaccia e ciò produce inevitabilmente dei cambiamenti; la tecnica c’è, il consumismo c’è, il neoliberalismo tecnocratico c’è. Dopodiché ci sono le indicazioni etiche, lungi dall’esercitare un immediato effetto.
Dunque se il consumo è l’azione paradigmatica che dignifica ogni realtà vitale, si è alla conclusione di un percorso riflessivo che torna in ultima lettura sul rapporto tra pubblico e privato, politica e cittadini. Poiché, appurato che l’uomo trova significazione del suo vivere non nelle appartenenze plurali (G. Greco) ma nelle soddisfazioni dei bisogni superflui, se ne deduce che l’ente più efficiente, interessante e dotato della massima autorità è il Mercato e non è più lo Stato. A quest’ultimo non si richiede assolutamente niente se non di fare suoi gli imperativi del consumo: velocità, funzionalità, efficienza. In particolar modo quest’ultimo è l’unico criterio universalmente valido per giudicarlo, e non potrebbe darsi altrimenti dal momento in cui lo Stato non è, come già detto, ente terzo nella vita dell’individuo, ma anche terziarizzato, ossia improntato quasi esclusivamente all’offerta di servizi. Qui logica del consumo e principio tecnico vanno di pari passo: è lo Stato una realtà efficiente? No? Ebbene esso non ha motivo di sussistere. Si dà un altro ente che offre i suoi servizi in modo efficiente? Sì? Ebbene esso è un degno sostituto.
Allo Stato non si concede più neppure di essere una mera cornice narrativa (C. Geertz) di realtà culturali, linguistiche, religiose e politiche storicamente sovraordinate, poiché la sua auto-imposta priorità è stata costantemente assentarsi da tutti questi ambiti appena citati; divenire il deposito monumentale della non-interferenza. Se l’efficienza dunque è l’unico principio su cui si giudica la degnità dello Stato, è chiaro che questo non può più richiamarsi ai valori di cittadinanza, né confidare nella sussistenza dei doveri rispetto ai diritti: ogni buon consumatore dello Stato, che in questo caso specifico invece di definirsi utente è detto cittadino, paga già tasse e imposte a quest’ultimo per i suoi servizi: per la logica del consumo questo è un rapporto equo e definito, ogni altra obbligazione risulterebbe sproporzionale; anzi lo è già, perché di fronte al rivendicazionismo fiscale lo Stato moderno sarà sempre sempre metafisicamente colpevole di violare con le tasse, il male necessario di Adam Smith, la proprietà e la sua indisturbata godibilità.
D’altra parte velocità, funzionalità ed efficenza sono tutte caratteristiche che afferisco fortemente all’utile, e certo la realtà della vita appare autosufficiente, e di per sé ordinata, nel suo sottoporre continuamente all’essere umano l’incessante fenomeno della necessità, che pertanto trova nell’utilità relazionato al fenomeno tecnico trova la sua controparte inevitabilmente e sempre apologetica. Solo la necessità è l’imprescindibile imperativo naturale a cui nessuno può sottrarsi, e se, come diceva Bacone, la tecnica è il grande mezzo con cui affrontare e sconfiggere la necessità, se ne può desumere che la vita sia spiegabile per mezzo di queste due forze. E che, pertanto, le discipline che potenziano lo strumento tecnico, le cosiddette scienze dure, siano le uniche realmente capaci di consentire un progresso del vivere, e quindi meritevoli di applicazione intellettuale da parte dell’uomo. Tutto il resto viene reputato accessorio o possibile solo nella misura in cui un classico di letteratura o un saggio di filosofia trovano mercato. Caduto il privilegio, caduta la regalità, caduto l’ordine cetuale, caduto Dio, caduta la metafisica, caduta la fame, cadute le violenze e le pestilenze, caduto il bisogno di capire perché il tutto si dà, al netto dello Spirito umano c’è solo il consumo di merce, poiché è il più grande fenomeno massificato che non rappresenta assolutamente niente, e che per quanto potenzi all’infinito il suo apparato tecnico non potrà mai farlo. Il senso, e la capacità di rappresentazione che è l’umana disposizione a trovarlo, è l’unico dominio che la tecnica e il mercato non hanno nella propria disponibilità di espugnare.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/societa/societa-dei-consumi-uomo/
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