Mancano infermieri in corsia, ma l’emergenza è voluta
di LINKIESTA (Silvia Favasuli)
Età media che cresce, personale che si riduce nonostante il carico di lavoro aumenti. Perché?
Nel corso di un’inchiesta, mentre raccoglievamo storie di giovani lavoratori divisi tra enormi carichi di lavoro, blocco degli avanzamenti di carriera e contratti precari, ci siamo imbattuti nella storia di Alessia, 29 anni e infermiera da dodici mesi in un ospedale privato del milanese.
Ci aveva raccontato dei doppi turni “imposti” dall’azienda a lei e ai suoi colleghi per risparmiare sul personale. Per poter coprire tutte le ore, lei e i 18 colleghi erano costretti a legare il turno della mattina a quello della notte. Cosa vietata dalla legge, in realtà, «perché le ore libere tra un turno e l’altro sono solo sette e non otto». Ma non era questo il peggio. Se la legge prevede che dopo il turno notturno (di dieci ore) seguano due giorni di riposo e un rientro al terzo giorno con il turno pomeridiano, Alessia raccontava come agli infermieri venga concesso «un solo giorno di riposo dopo la notte anziché due».
«La gente intanto qui si esaurisce», aveva sbottato Alessia
Un ritmo che prolungato per mesi o anni finisce per fiaccare anche la più forzuta delle infermiere. «La gente intanto qui si esaurisce», aveva sbottato Alessia. «La resistenza di un’infermiera nel mio reparto è di pochi anni, nessuno va oltre i cinque, mi raccontano le colleghe».
Incuriositi, abbiamo deciso di verificare se quella di Alessia fosse un’eccezione oppure la regola. E abbiamo scoperto che l’emergenza in corsia è da qualche anno la norma per tutti gli infermieri italiani, sia quelli che lavorano nel pubblico sia per quelli del settore privato, in ospedale o nelle residenze per anziani (Rsa). Se la media Ocse è di 7 infermieri su 1.000 abitanti, in Italia abbiamo 6 infermieri ogni 1.000. Secondo la Cgil ne mancano 40.000.
Se la media Ocse è di 7 infermieri su 1.000 abitanti, in Italia abbiamo 6 infermieri ogni 1.000
Perché? È stata la domanda che ci siamo fatti subito dopo. E abbiamo scoperto l’esistenza di un meccanismo emergenziale “voluto”, sia nel pubblico sia nel privato, non giustificato da motivi economici.
Spending review
«Per il pubblico è presto detto, signorina», esordisce Antonio Marchini di Cgil Fp. «Fino a cinque/sei anni fa, ogni legge finanziaria prevedeva il blocco del turn over in molti settori della pubblica amministrazione. Venivano esclusi però vigili del fuoco e infermieri». Con la finanziaria del governo Monti del 2011, il blocco viene esteso a tutti: è il turn over totale, che fa una piccola eccezione solo per i medici. Se vanno in pensione o si licenziano 5 medici, l’ospedale ne può assumere uno. Rimanendo però sotto di quattro. I tagli lineari al Sistema sanitario nazionale sono stati di 30 miliardi tra 2011 e 2015 (Cgil Fp). «L’unico modo», racconta Marchini, «per superare l’emergenza che si crea è ricorrere ai contratti a tempo determinato, che coinvolgono oggi oltre 40mila persone. Ma un medico o un infermiere a contratto determinato lo paghi tanto quanto uno assunto», spiega Marchini. Anzi, con la Riforma Fornero, un contratto a tempo determinato costa di più. Per disincentivare l’assunzione di lavoratori a termine, la legge del 2012 prevede sui contratti a termine un contributo addizionale dell’1,4% della retribuzione imponibile.
Il Sistema sanitario nazionale italiano costa il 7% del pil, meno della media Ue, che è dell’8 per cento. E il suo valore aggiunto è maggiore di 150 miliardi di euro, il 12% del Pil (dati Cgil Fp, 2013). Perché allora creare emergenza tagliando personale?
«Se fosse il caso dell’Accademia di Brera, mettiamo, dove alla diminuzione del personale posso rispondere con la chiusura di due sale espositive, saremmo relativamente a posto. Ma in ospedale che fai? Chiudi due corsie?», incalza il sindacalista, che spiega come il tema dell’invecchiamento del personale infermieristico e del blocco delle assunzioni stia sollevando non poche proteste tra gli stessi infermieri, che in un momento di sottoccupazione diffusa si trovano costretti a fare salti mortali e ad abbassare la qualità dell’assistenza.
«Non siamo più in condizioni di erogare assistenza ai pazienti in sicurezza», spiega Muttillo, Ipasvi
Ma con il blocco delle assunzioni, la conseguenza è anche l’invecchiamento del personale. Problema non meno grave della sottoccupazione. «L’età media dei lavoratori in Lombardia è di 46 anni. Non siamo più in condizioni di erogare assistenza ai pazienti in sicurezza», spiega Giovanni Muttillo, Presidente di Ipasvi di Milano e Lodi (Collegio Interprovinciale degli Infermieri). E dire che accade in Lombardia, la regione più nota per gli alti livelli raggiunti dalla sanità pubblica e privata.
Una situazione simile si registra anche (forse è il caso di dire soprattutto) nelle Residenze per anziani (Rsa), tanto che l’Ipasvi di Milano ha deciso di avviare una ricerca per valutare lo stato di salute degli infermieri che coinvolge sette ospedali e sei Rsa della provincia di Milano. Il progetto si chiama Agire, e darà risultati solo a fine anno.
La speculazione dei privati convenzionati
E nelle strutture private? Se la spending review interessa solo la pubblica amministrazione, perché anche in un ospedale come quello di Alessia, privato e convenzionato, si lavora sotto organico? Per pura speculazione, visto che nell’ultimo bilancio sociale disponibile online, si legge che nel 2012 la struttura ha raggiunto e superato i 200mila euro di utile. E si riferisce anche di una situazione patrimoniale stabile e solida. Per capire i meccanismi che si celano dietro “l’emergenza infermieri” nel privato, ci guida ancora Antonio Marchini. Che separa due diverse situazioni.
– Il meccanismo “distorto” dei fondi pubblici
Il primo caso è quello degli ospedali privati convenzionati con la pubblica amministrazione, cioè strutture che ricevono fondi pubblici dalle regioni (incaricate della materia sanitaria dalla Riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001). «Per poter ricevere i fondi pubblici, gli ospedali devono accreditarsi al Servizio sanitario nazionale. Per farlo, devono rispettare determinati criteri, diversi tra regione e regione. In particolare, si chiede che la struttura garantisca un determinato numero di minuti di assistenza ai malati che può accogliere, minuti che variano rispetto alle corsie (l’assistenza richiesta per i malati di Alzheimer è diversa da quella necessaria ai reparto ostetricia e ginecologia, per intendersi). E dal numero di minuti di assistenza obbligatori dipende il numero minimo di infermieri in corsia.
«Ma con i criteri imposti dalle regioni non ci puoi aprire neanche una bocciofila!», commenta Marchini. Le strutture private convenzionate finiscono per fermarsi ai criteri minimi decisi a livello regionale, senza aggiungere nemmeno un dipendente in più.
– Il dumping contrattuale
La seconda spiegazione «è il di dumping contrattuale». L’azienda, cioè, fa contratti con condizioni particolarmente favorevoli a sé, ma svantaggiose per il lavoratore. E questo in deroga ai contratti nazionali. Come?
Nel Lazio è stata creata l’Aiop (Associazione italiana ospedalità privata). «È l’associazione più grande di imprenditori della sanità privata nata tre anni e mezzo fa e ha come presidente nazionale Gabriele Pelissero, presidente anche dell’Ospedale San Raffaele dopo l’acquisto da parte del gruppo Rotelli. Con alcuni sindacati di comodo, l’Aiop ha sottoscritto un contratto nazionale che prevede una retribuzione di 700/800 euro al mese per 40 ore di lavoro settimanale. Le principali sigle (Cgil, Cisl e Uil) non l’hanno sottoscritta, ma tutte le Rsa o aziende ospedaliere private che si iscrivono a questa associazione possono applicare questo contratto. Così, mentre un infermiere di un ospedale pubblico guadagna 100, uno del privato prende 50».
«Ma con i criteri imposti dalle regioni non ci puoi aprire neanche una bocciofila!»
L’Aiop non è l’unico caso. C’è anche Aris (Associazione religiosa istituti socio-sanitari), nata tra 2011 e 2012, che però ha attuato una strategia diversa. Non ha “imposto” salari più bassi, ma ha sottoscritto con alcune sigle (tra cui questa volta anche Cisl e Uil) un contratto che estende fino al 40% la quota di personale a tempo determinato che è possibile assumere, contro il 25% del Ccnl firmato anche dalla Cgil.
La situazione si fa pesante, se consideriamo che la sanità privata in Italia non è così rara. Il 53% delle strutture sanitarie è di tipo pubblico, il restante 47% privato. Il 74% delle strutture di riabilitazione sono private convenzionate. E tra le residenze per anziani è davvero difficile trovarne una pubblica.
Occupazione in calo
Prova del nove del calo di assunzioni nel settore, sono le percentuali di occupazione tra neolaureati del gruppo medico-sanitario. I dati AlmaLaurea mostrano che dal 2008 al 2013 il tasso di occupazione a un anno dal titolo è diminuito di circa 23punti percentuali, passando dall’88% per i laureati del 2007 al 65% per i laureati del 2012. E cala anche la stabilità dell’occupazione, passando dal 60% del 2007 al 45% del 2012. Scendono le retribuzioni nominali, da 1.304 euro mensili del 2007 ai 1.068 del 2012. E dire che fino a poco tempo fa quello dell’infermiere era un mestiere che non conosceva crisi. Ma è, questa, una crisi voluta.
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