Il mondo di cui parliamo (1a parte)
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Francesco Girasoli)
Ogni individuo ha nel proprio prossimo il suo naturale interlocutore; da questo punto di vista la vita degli uomini è una continua dialettica, una perpetua interlocuzione, un continuo rapporto con l’alterità. In questa dialettica, intesa come incontro tra due forze, vige un imperativo tutto umano: il bisogno di senso, il quale necessariamente conduce ad indagare la Verità.
Oggi, molto più che in passato, gli uomini si interfacciano con il mondo come qualcosa di totale e omnicomprensivo, lo sentono come un ente non più scorporabile in tanti piccoli pezzi, che sono le esperienze delle singole individualità. Che i contemporanei ne siano coscienti o che lo rifiutino, essi ricevono il mondo in una visione totale, globalizzante e probabilmente sovrabbondante. Questo perchè, similmente a quello che accadde con l’invenzione del treno e del telegrafonel XIX sec., le distanze sono sempre più relative, la comunicazione senza ostacoli, l’informazione facilitata e ininterrotta, le problematiche sempre più inerenti all’Uomo come specie e non come individuo.
In questo sviluppo, profondamente tecnico, cui l’umanità non riesce a stare al passo con un’etica che ne corrisponda efficaciemente le criticità, e un pensiero politico che sappia fondarsi ideologicamente su presupposti autonomi dallo scenario economico, l’uomo continua tuttavia a vivere immerso nella sua dimensione più antica e fondante: quella dialettica. Ogni individualità è ed ha un prossimo, al quale propone continuamente una concezione di mondo, una narrazione culturale, un’interpretazione necessitata dall’innato desiderio di acquisire e spiegare l’economia delle cose, dalla più concreta alla più astratta. Ma questa forma spontanea e conflittuale di interpretazione e comunicazione fra gli uomini scaturisce da un interesse o da una ragione? L’interesse implica una passione, una mozione degli affetti, un giudizio di merito, e rappresenta quindi un’imposizione della soggettività rispetto all’universalità; la ragione d’altro canto implica razionalità, logicità, rigore, e la ricerca perenne dell’oggettività che si è soliti chiamare Verità, e quindi l’universalità.
Posto l’interrogativo guida, occorre portare all’attenzione della contemporaneità che oggi, molto più di ieri, la contestazione più fragorosa che le masse dirigono verso la ragione storica della filosofia, la quale prima di ogni altra ha indagato la Verità, è che questa, tutto sommato, abbia voluto spacciare per oggettivo tutto ciò che è sempre scaturito dalla necessità di comprensione umana, che per sua stessa natura è un’esigenza soggettiva. Mentre si ammette che l’uomo sia biologicamente legato alla ricerca del senso senza troppi problemi, quando questo implica l’oggettività emerge un fattore di fortissimo scetticismo negli astanti,sempre più disillusi. Questo perchè: dato come evidente che tutto ciò che l’uomo ha stabilito essere razionale è scaturito dalla sua irrazionale ed egoistica necessità di controllo, atta ad eliminare la dimensione tragica dell’angoscia, se ne è desunto che la soggettività sopravviva in tutte le forme di spiegazione razionale come un vizio di forma ineliminabile.
Si assiste al capovolgimento totale di quella che si potrebbe chiamare un’etica della conoscenza, dove la soggettività non è più considerata una dimensione insufficiente e limitativa ai fini di comprendere la realtà, come Platone aveva meritoriamente sancito demonizzando l’autorevolezza della conoscenza sensibile, bensì come l’unica dimensione possibile tramite la quale la realtà autentica possa darsi. Certo, questo dato non si esplica come presente e cosciente alla mente di ognuno, ma si può desumere notando la finalità decostruttiva, scettica e nichilistica del discorso comune, la quale abita la quasi totalità della dialettica quotidiana delle masse, che, ancora, si costituisce come un relativismo assoluto in cui nessuna cosa è sufficiente per se stessa, ma è sempre retta dalla causalità dell’interesse. In tal senso, il comune sentire ha già risposto alla domanda: non c’è alcun dubbio, l’uomo nel parlare al suo prossimo, è guidato dall’interesse.
Tale pregiudizio, così profondamente sedimentato, in realtà, è sintomatico di un’urgenza eminentemente contemporanea di statuire aprioristicamente:
1) Che ogni tentativo di rischiaramento filosofico sia solo un’affabulazione ideologica;
2) Che pertanto l’ideologia sia una volontaria e scientemente colpevole mistificazione del dover esserepresente e di quello passato;
3) Che, infine, la Verità, con la “V” maiuscola, quando dichiarata esistente, sia un arbitrio autoritario e liberticida affine al sedicente inganno millenaristico operato dalle religioni.
Oltre che anticipare le contraddizioni inevitabili che tali proposizioni continuano ad intrattenere le une con le altre, prima fra tutte quella di continuare ad essere di per sé ideologiche e universalistiche, tale complessivo pregiudizio criminalizzante, tipico delle masse verso i propri uomini di sapere sin dalla narrazione del mito della caverna di platoniana memoria, oggi è integralmente e senza contraddizioni corroborato dall’egemonia del pensiero neoliberale tecnocratico.
Si deve compendiare questa definizione: è corretto definirlo neoliberale, poichè non ha nulla a che vedere con la tradizione classica del pensiero liberale, di cui ignora completamente gli scrupoli, i compromessi, le finalità contingenti e anche i manifesti fallimenti, mantenendo tuttavia con questo il ponte ideologico rappresentato dal motto intramontabile “meno Stato, più mercato“; tecnocratico, poiché la supremazia che tale sistema di potere ha acquisito e sta esercitando nella storia è basata interamente sull’ausilio tecnico, senza il quale, con mezzi più modesti, non potrebbe darsi. Tuttavia, esiste un altro debito di gratitudine enorme che il neoliberalismo deve al pensiero liberale classico, ed è quello di aver neutralizzato lo Stato. Ossia non di averlo distrutto, ma di averlo rifondato completamente sul presupposto indiscutibile che l’uomo abbia una natura acquisitiva, e che pertanto per tutelare questa sua natura lo Stato debba solo essere un mero regolatore di rapporti economici, un arbitro in caso di contese giudiziarie, un braccio armato dinnanzi a concorrenti esteri e rivoluzionari interni.
John Locke (1632-1704), ritenuto il padre del liberalismo classico, si immagina uno Stato di Natura dove già gli uomini commerciano, usano denaro, sono proprietari di beni; l’esigenza dello Stato propriamente inteso nasce solo dal bisogno di dirimere contese, per evitare lo Stato di Guerra che getta tutti nell’angoscia di poter essere uccisi. Cerca di suggerire, poco prima e poco dopo aver enunciato questo principio, ne Ilsecondo trattato sul Governo, che gli uomini tendono alla socievolezza reciproca, ma rigorosamente per motivi utilitaristici: lo zôon politikòn aristotelico non è dato. Ancora, David Hume (1711-1776), esponente massimo dell’empirismo inglese, come prima di lui Bernard de Mandeville (1670-1733), teorizza lo Stato, che lui in questo caso definisce Civil Society, come ente necessario ai fini della buona regolazione della vita economica che cresce sempre più di intensità per lo sviluppo giuridico della contrattualistica commerciale; lo Stato sostanzialmente si auto-causa per mezzo della complessità crescente dei flussi economici di domanda e offerta. Finalmente, Adam Smith (1723-1790) arriva a sancire la natura acquisitiva dell’Uomo fondando la celebre espressione dell’homo oeconomicus: l’uomo è ontologicamente tale perché scambia beni, gli altri animali che abitano la Terra no.
Lo Stato neutro liberal-democratico e successivamente lo Stato social-democratico hanno costruito la propria legittimità attorno alla garanzia delle libertà inviolabili dell’individuo, fra cui spicca primariamente la tutela del complesso insieme delle sue proprietà, ossia hanno riformato tutta l’architettura istituzionale e costituzionale avendo come unico interlocutore un individuo astratto e razionalisticamente posto come: formalmente uguale agli altri, formalmente libero come gli altri, ma sostanzialmente legittimato all’illimitato accumulo di ricchezze, ossia il benessere che è ritenuto l’unico vero fine a cui l’uomo tende.
L’intero pensiero politico cessa di interrogarsi in modo puro sui problemi della sovranità dello Stato, sulla prassi socio-politica dei ceti, sui nuovi sviluppi della politica fiscale ed economica, per mediare tutti questi contenuti, ritenuti come pienamente risolti e superati dai primi due cicli rivoluzionari, inglese e francese, con il nuovo impianto politico che mette al centro di ogni sua considerazione costituzionale la libertà negativa dell’individuo. Non ci si domanda più cos’è e qual è il buon governo di un ottimo Stato, con le sue peculiarità giuridiche e culturali, ma si assiomatizza che il buon governo e un ottimo Stato siano solo quelli che hanno un sistema democratico parlamentare, perché solo all’interno di questo l’individuo può raggiungere la felicità, la quale a sua volta è nient’altro che il godimento pieno della proprietà tramite l’accumulo illimitato della ricchezza. Adolfo Omodeo (1889-1946), storico e ri-pensatore critico, ma non ostile, del liberalismo, definì certo ottimamente la democrazia rappresentativa come una riduzione a metodologia della libertà. Da questa impostazione dell’essere politico rispetto all’uomo come cittadino è derivata una spaccatura sempre più evidente: la società civile e lo Stato hanno cessato di coincidere. La prima è venuta ri-costituendosi come una realtà complessa e autonoma governata da rapporti di consumo e produzione, e quindi dai bisogni; il secondo, come un’ente terzo a cui spettano non delle prerogative ma delle funzioni specifiche, le quali sono, rispettivamente, l’amministrazione della giustizia, che in questa fase sarebbe più oppurtuno chiamare tutela dei diritti dei possidenti terrieri, poi dei capi d’industria e infine degli azionisti, e l’esercizio repressivo della forza a guardia dell’ordine pubblico.
Hegel (1770-1831) fu il primo a riconoscere complessivamente questi tre momenti: sistema dei bisogni, amministrazione della giustizia e uso della forza, come componenti la società civile (bürgerlich Gesellschaft), non più rinvenendo in questa espressione la mutuabilità che prima le era propria con quella di Stato. Eppure lui stesso non nascondeva che le funzioni giuridiche operate al di fuori del sistema dei bisogni erano appannaggio dello Stato, e proprio per questo riteneva questa situazione quantomeno paradossale, poiché questa funzione regolativa non aveva una sua autonomia teleologica, non aveva un fine, poiché gestiva conflitti di classe senza risolverli: una forma di temperamento meccanicistico atto a impedire, e nulla più, la disgregazione della società politicamente costituita ed il suo sprofondamento nella totale anarchia. Certo è che nel momento in cui il concetto di società civile si è distaccato dalla sua afferenza con la statualità, con cui si pone addirittura in una sorta di ambiguo antagonismo, è stato il momento in cui è venuta meno un’essenza ancestrale che precedeva e abitava lo Stato: la comunità (Gemeinschaft). A sistematizzare questa situazione e a porre in antitesi le espressioni società e comunità, fu Ferdinand Tönnies (1855-1936), eminentissimo sociologo tedesco, che in questa dicotomia ha identificato il passaggio critico della civiltà umana dal contesto pre-industriale a quello industriale. L’aggregato umano politicamente organizzato non si dà più per continuità di istanze tradizionali, di consuetudini che sono un prodotto indistinguibile e chiaroscurale di vincolatività normativa ed etica, di imperativi pratici che coniugano necessità e lealtà primordiali, di una convivenza dettata dall’appartenenza ad un territorio particolare; la comunità subisce l’elisione dalla società industriale, la quale livella tutto, razionalisticamente annulla ogni relazione sociale che non possa esprimersi tramite formule giuridiche o economiche: una ricchissima e sfaccettata prassi viene cancellata da un formalismo legale astratto e vuoto, allorché il sistema liberale trova le sue piazzeforti quasi feticistiche nel contratto, come unica forma di relazione universale fra due privati, e la legge della domanda e dell’offerta, come unica normazione imperativa del divenire sociale.
Al di fuori di questi due momenti esiste l’ampia e fastidiosa sfera dell’indefinito. Certo, lo stesso pensiero politico che nacque in completa opposizione a questo sistema, atto a salvaguardare gli sfruttati, i poveri, i diseredati, i formalmente garantiti e sostanzialmente vessati, in realtà non partiva da un diverso presupposto. Il socialismo, e poi il comunismo, che fu quanto si realizzò storicamente grazie alle opere di Marx (1818-1883) e F. Engels (1820-1895), si trovava perfettamente in accordo con il liberal-liberismo nel guardare alla società esclusivamente come una costante relazione di rapporti economici. Per il marxismo ortodosso, l’intero spirito di un popolo, hegelianamente inteso: arte, scienza, religione, politica, moralità, è così dato per la riproduzione dei rapporti di potere economici in ognuno di questi ambiti. Emblematica e degna di essere riportata è quella che si può definire una massima, di Karl Marx, nel suo libro Per la critica dell’economia politica , del 1859, che recita: l’anatomia della società civile è da ricercare nell’economia politica, la quale, è il caso di suggerire, è l’unica considerata capace di descrivere lo scenario della moderna civiltà umana.
È necessario riaffermare come quella della fondazione dello Stato liberal-democratico sia stata una fase assolutamente acerba rispetto alla primavera dei diritti civili che la storiografia più dozzinale e scolastica è solita identificare nel fatidico 1789. Senza alcun dubbio, nell’odierna condizione del mondo, è ormai appurato che la godibilità dei diritti civili, tanto meno quella dei diritti politici, possa essere assicurata se ad un’uguaglianza giuridica non ne segue una sostanziale, se, pertanto, non si concede eguale possibilità a tutti i cittadini di usufruire dei diritti sociali. Questo è un problema non solo economico, ma soprattutto politico e proprio della democrazia rappresentativa, che qui certo non si ha lo spazio per trattare.
È purtuttavia utile ricordarlo per due motivi, di cui qui è più proficuo il secondo: che il neoliberalismo stia, come un tumore maligno che si ripresenta dopo una falsa remissione, attaccando nuovamente la poca sanità delle cellule della social-democrazia e del sistema dell’economia mista, e che, forti della consapevolezza di questa nuova fase autofaga, si capisca come la liberal-democrazia che si cercò di instaurare con i primi cicli rivoluzionari abbia avuto un fine negativo, ossia di semplice demolizione dell’allora vigente struttura sociale, e dei suoi contrafforti giuridici. Sebbene sia sempre incauto tentare di effettuare raffronti tra lo scenario anglosassone e quello continentale europeo, dai dibattiti di Putney del 1647 fino al 1848 e oltre, la conclusione appurata e indiscussa che fa da sfondo alla lotta fra grandi proprietari, i quali desiderano un suffraggio democratico fondato sul censo, e tutto il resto del popolo che desidera un suffraggio democratico universale maschile, è che la nobiltà, e il regime di privilegio aristocratico e feudale su cui si incardina l’Europa di Antico Regime, sia un ordine sociale che deve essere soppresso e con lei, nel basso, tutti gli usi civici e i rimasugli giuridico-consuetudinari delle antiche comunità urbane e rurali.
Che questo sia stato un processo coincidente con l’affermarsi dello Stato Moderno è innegabile, lo è meno che il processo in sé non abbia nascosto incognite progressive che non si sono mostrate solo per congiunture storiche favorevoli. Che gli elementi: Stato, nazione e liberalismo reale non siano entrati in contraddizione insanabile, per quasi un secolo intero dalla loro interazione originaria, è stato merito di una borghesia, dotata della proverbiale coscienza infelice, capace di sintetizzare questi tre aspetti entro sé. Questo, sia ben chiaro, perché rispecchiava delle necessità immediatamente economiche, culturali, psichiche si potrebbe azzardare, oggettive, le quali al contrario verranno meno dopo i due conflitti mondiali se non prima.
La distruzione dell’Antico Regime, laddove si verifica presto, oltre ad essere un passaggio dalla valenza e dalle implicazioni incalcolabili, ancora poco introiettato nelle coscienze dei contemporanei, rappresenta il momento in cui lo Stato inizia la sua costante, irregolare ma inesorabile eclissi dallo scenario sociale quotidiano. Perita la comunità, nata la società, inizia la terziarizzazione dello Stato. Questo perché, se quanto è emerso sul conto della società rispetto alla comunità è vero, l’ente secondo, l’alterità quotidiana dell’allora cittadino non è più il vecchio Stato, le sue strutture di comando, la sua denunciata invadenza, la sua potenza illimitata, la sua mostruosa e soverchiante autorità, bensì la società dei consumi. D’altra parte, qui si evidenzia il grande paradosso: l’instaurazione di una libera ed egualmente possibile godibilità della ricchezza per tutti i possidenti pone, come già detto, lo scopo della società come negativo.
L’eliminazione di ogni ostacolo giuridico, tradizionale o politico che dir si voglia alla strisciante, e già in essere, società dei consumi, la società civile dei rapporti di produzione, livella tutto il terreno, ma non vi edifica nulla sopra; né desidera farlo. Ma queste libertà negative, ossia la non-interferenza dello Stato, agiscono ottimamente in modo verticale secondo il rapporto cittadino-Stato, non cittadino-cittadino. Al contrario di quanto un’opinione comune fortemente influenzata da narrazioni distorte della società di Antico Regime ha elaborato, il piccolo contadino proprietario o l’umile artigiano avevano grande probabilità di ottenere giustizia contro i soprusi degli stati (etats) superiori. Questo grazie a specifici tribunali, al supporto di un forte spirito corporativo che era nel contempo un’appartenenza giuridica rilevante, specie se urbana, e all’impugnazione di una miriade di ancestrali privilegi o consuetudini locali. Era nei confronti dello Stato che il cittadino era completamente impotente; nulla potevano appelli a qualunque magistratura quando il Consiglio del Re, che un po’ dovunque in Europa fungeva anche da supremo tribunale amministrativo, avocava a sé una questione che riteneva riguardasse il bene pubblico. Nello Stato liberal-democratico si assiste al fenomeno opposto: è estremamente più semplice aver ragione dello Stato, in una sede di tribunale da lui stesso istituzionalizzato per farsi osteggiare, che del proprio prossimo, quando questi è di una classe sociale ben più abbiente e protetto da una giurisprudenza, come quella statunitense, fagocitata con spietato acume dal diritto societario. Il diritto privato torna nuovamamente a diventare il principe fra gli Arcana Imperii.
Lo Stato liberal-democratico è nella sua essenza un’assenza; consiste maggiormente, e paradossalmente, laddove non prescrive alcunché. È quindi interamente supino alle esigenze dei veri apparati di potere, l’industria, gli istituti di credito, e oggigiorno della finanza internazionale. Se ne deduce che sul lungo periodo, anche con i correttivi “di umana misericordia” della social-democrazia, la politica non sia più il luogo della decisione; essa ha conservato al massimo la libertà, all’interno della sua arena, di schierarsi a favore di implementazioni di welfare o no. Anche quest’ultimo presidio, rigorososamente interno all’ambito della politica economica, ad oggi in Europa è venuto meno a causa degli accordi restrittivi imposti dall’unione monetaria europea, che ha di fatto inibito e vincolato ad un modello unico le politiche economiche di tutti i paesi, naturalmente senza tenere conto delle specificità di ognuno di essi. La politica non è più quella che Platone definiva basiliké téchne, la tecnica regia a cui spettava decidere cosa tutte le altre tecniche dovessero o non dovessero fare; dirime ciò perché ha per sua natura il fine della tutela della collettività, “conosce ciò che è meglio“, dice Platone. La politica, dimensione che per Aristotele è connaturata e sovraordinata all’uomo, ha come sua virtù una saggezza prudenziale (phrónesis) giacché essendo forza nella sua essenza, sa amministrare i suoi rapporti ovunque si generino fra gli uomini. Non è più ciò allorché la sua ragione viene fagocitata in preponderanza dal mero interesse, che usufruisce del mezzo tecnico per soddisfare l’eudemonistica, se non addirittura l’edonistica, passione umana per il possesso.
L’assenza di ragione presuppone che lo Stato non sia più un ente cui è deputato il compito di dover essere moralmente, non occorre più abbia un dignità etica né un fine differente dal mezzo. Anche nell’ambito giuridico del Diritto, altro vasto ambito di cui qui non si può che accennare, sparisce la dialettica di fondazione aristotelica tra diritto naturale e diritto positivo, tanto meravigliosamente interpretata da Julien Freund (1921-1993) nella sua opera Diritto e Politica, ossia tra morale e politica, dalla cui relazione conflittuale ma prammatica si dà il Diritto stesso. Si predilige, certo, o l’apriorismo antistorico e trascendente del diritto naturale di Christian Wolff (1679-1754), o il normativismo positivista di Hans Kelsen (1881-1973), per cui il potere dello Stato non è altro che l’efficacia di un ordine giuridico. La Tecnica, la più alta forma di razionalità umana, col suo sviluppo tecnologico, il quale a sua volta intensifica il fenomeno economico, è oramai più sovrana dello Stato senza necessità di una ragione, poiché lo supera nel suo imporsi meccanicisticamente egemone nella vita quotidiana dei popoli come entità regolativa e indirettamente autoritativa. L’opposizione tra lo scenario tecnico e quello politico ben si comprende nella distinzione fondamentale che Max Weber (1864-1920) ebbe modo di compiere tra la forza, il potere de facto(Macht) e il potere legittimo, de jure (Herrschaft). Come si è anticipato inizialmente: il neoliberalismo domina tramite apparati tecnocratici poiché dispone dell’ausilio tecnico, senza il quale questo dislocamento tra l’uomo che si dà in natura e l’uomo che si dà secondo la tecnica non potrebbe risultare così evidente.
Una risposta
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