“L’Europa è su un binario morto. Noi ungheresi sappiamo il perché”
Lo scorso 23 ottobre il primo ministro ungherese Viktor Orbàn ha commemorato la rivoluzione del 1956 pronunciando il discorso riportato integralmente qui di seguito. Se apprezziamo il lucido realismo con il quale esso mette a fuoco il carattere violento e totalitario del progetto europeista, rifiutiamo, d’altro lato, il mito della purezza delle origini come pure la teoria “etnica” della nazionalità cui è ispirato.
[LA REDAZIONE]
Rendo omaggio e saluto gli ungheresi che davanti agli eroi del ’56 chinano la testa. Saluto voi, sparpagliati in tutto il mondo da Toronto a Parigi, da Dunaszerdahely a Munkács passando per Szabadka fino alla Terra dei Siculi. Saluto chi festeggia qui nella capitale della nazione ed anche chi sta a casa davanti ai televisori, anche loro sono con noi. Saluto quelli che sentono che noi ungheresi, popolo della libertà, siamo un particolare popolo della libertà. Può piovere, può tirare il vento, possono arrivare lacrimogeni o cariche a cavallo, noi ci riuniamo, perché ovunque viviamo nel mondo oggi noi vogliamo ricordare. Dignità e giustizia. Vogliamo ricordare quel stupendo giorno d’ottobre, quando un popolo disse: ora basta, e tremarono i piloni del sistema comunista mondiale. Vogliamo ricordare quel momento, che vivrà per sempre nel ricordo delle nazioni libere del mondo.
Egregi Signori e Signore!
La patria è una realtà naturale e spirituale. Il potere sovietico invece ci aveva portato in uno spazio senza storia, voleva annientare il nostro passato e la nostra cultura. Contro il ripetersi del terrore fisico e spirituale l’arma più forte è la memoria nazionale. Per questo siamo venuti oggi proprio qui. L’edificio accanto a noi è stato prima sede delle crocifrecciate [ndr: collaborazionisti ungheresi del regime nazi-fascista], poi sede del terrore del partito-stato comunista. Prima i nazional-socialisti, poi i socialisti internazionali si sono insediati qui. Qui tenevano imprigionati e torturavano, quelli di cui avevano maggiormente paura e che per questo odiavano di più. Nel 2002 l’abbiamo ritagliato fuori dal tempo e dallo spazio e abbiamo eretto un “memento”, abbiamo collocato qui un museo, a Budapest, in Ungheria nel cuore dell’Europa. Affinché ricordi sempre il mondo che la voglia di libertà degli ungheresi non si può soffocare. L’abbiamo collocato qui affinché ricordi anche a noi stessi che se si perde la libertà, se si perde l’indipendenza nazionale, saremo persi anche noi. Ci esorta, che la libertà a noi non è mai stata data gratuitamente. Dobbiamo sempre combattere per averla. Che arrivino i labanc [ndr: soldati imperiali nella guerra di indipendenza di Rakóczi] o i muszkák [ndr: il nome popolare dei russi] i tedeschi o i sovietici, si vestino con panni da crocifrecciati o comunisti, la nostra libertà tocca sempre a noi difenderla. Altri non lo faranno mai. Siamo abituati: per noi la liberazione ha sempre rappresentato l’inizio di una nuova occupazione. E’ fortunato quel popolo che nel momento del bisogno, nelle ore decisive, ha giovani donne e uomini pronti a difendere la patria. Perché in quest’angolo d’Europa arriveranno quei momenti, quando dell’amore per la patria non basterà parlare, ci saranno tempi quando la patria dovrà essere difesa veramente.
Oggi ricordiamo quelli che un giorno si sono svegliati, e si sono resi conto che gli avevano tolto tutto, tutto quello per qui valeva la pena non solo di morire ma anche di vivere. Non hanno tolto loro solo quello che avevano, ma anche quello che avrebbero avuto. Erano paralizzati dal terrore, se fosse andato avanti così l’Ungheria sarebbe stata persa per sempre. E allora sull’orlo del precipizio, sulla soglia di polverizzazione della patria millenaria e del mondo ungherese si sono ribellati. Nel 1956 è sbocciato un paese meraviglioso dall’ombra dell’oppressione. Quello che desideravamo da sempre. E’ apparso a noi, si è rilevato come possibile, l’idea che potrà esistere un’Ungheria costruita dal nostro io migliore. La rivoluzione è stata una rivoluzione nazionale. Si capì in un baleno che i lavoratori delle fabbriche non erano proletari internazionali ma operai ungheresi. E di questo momento ci ricorderemo sempre finché un ungherese vivrà sulla terra. Facciamo una piccola deviazione e confessiamolo: noi non solo ricordiamo ma non dimentichiamo nemmeno. Non dimentichiamo chi si è messo contro di noi. E’ normale criticarci del fatto che noi non sappiamo perdonare. Ma sono loro che non sanno scusarsi di tutte le cose che hanno fatto contro di noi in quasi cinquanta anni.
Egregi Signori e Signore che qui commemorate!
Gli occidentali anche se hanno osannato la rivoluzione ungherese, non l’hanno capita. Non hanno capito la forza che lavora dentro di noi. Non hanno capito perché lottammo contro un nemico così potente che secondo i calcoli umani era imbattibile. Non l’hanno capito che lottiamo perché fino alla fine siamo attaccati alla nostra cultura e al nostro stile di vita, e non vogliamo fonderci in un crogiolo di nessuno. Vogliamo che ci rispettino per chi e per cosa siamo. Da mille anni abbiamo protetto i confini dell’Europa e abbiamo lottato per la nostra autodeterminazione nazionale. Siamo una nazione forte e coraggiosa che sa bene che chi non è rispettato è disprezzato. Non ci capiscono oggi a Bruxelles perché già allora non ci capivano.
Egregi Signori e Signore!
Non siamo solo vicini alla Casa del Terrore, ma siamo su uno dei più bei viali al mondo. Si manifesta davanti a noi nella nella sua inimitabile realtà quella bellezza e quella grandezza che dimostra la capacità della nostra nazione. Qui ci sono in fila i maestosi palazzi del viale Andrassy, là Piazza degli Eroi, da quella parte l’Opera e il Ponte delle Catene. Un patrimonio. Una eredità suggestiva che ci obbliga tutti. Le nostre piazze non sono apparati scenici, sui quali passare meravigliati. Sono strumenti di misura, segni e avvertimenti. Una nazione che è arrivata a un tale apice come siamo arrivati noi – e non solo una volta- non può accontentarsi di meno. Ci sono stati tempi in cui dirigevamo un Impero. Ci sono stati tempi – e non solo una volta- nei quali dopo la distruzione abbiamo dovuto ricostruire e riorganizzare la nostra devastata patria. E non ci siamo nascosti né dalla responsabilità né dal lavoro, né dalla volontà di Dio, abbiamo accettato quello che c’era da accettare. C’è chi ha garantito l’aiuto alla nazione sul campo di battaglia, chi invece nel lavoro spirituale. Oggi festeggiamo quel giorno in cui milioni di ungheresi hanno scoperto insieme, sebbene viviamo vite differenti, che facciamo parte tutti della stessa nazione. Oggi ricordiamo quel momento in cui il cardinale e il tornitore, i filosofi ed i ragazzi di Pest, il principe e il partigiano sovietico diventato Ministro della difesa, volevano la stessa cosa. Oggi ricordiamo quel momento, che ha attraversato i muri che separavano le parti divise della nazione ed è passato nelle riunioni studentesche della Transilvania o le celle della prigione di Szamosújvár. Mansfeld Péter, Wittner Mária, Dózsa László, Szabó János, Pongrátz Gergely, Nagy Imre, Mindszenty József. Guardiamo a loro, ma vediamo una nazione.
Egregi Signori e Signore!
Il ricordo ci aiuta a vedere in faccia la verità della nostra vita odierna. La verità è, che dopo 30 anni dalla caduta del comunismo c’è di nuovo una forza mondiale, che vuole plasmare le nazioni europee in modo che diventino dello stesso colore e della stessa sostanza. Come tutte le nazioni europee di cultura, anche noi ungheresi, abbiamo un’idea di Ungheria. Un’idea di libertà, di civilizzazione, una visione di come devono essere e vivere degnamente le persone. Abbiamo sempre ricostruito così l’Ungheria, appena ci siamo liberati dagli oppressori attuali. E’ stato così anche dopo l’abbattimento del comunismo quando abbiamo mandato a casa i sovietici. La verità è che ora, trenta anni dopo, c’è di nuovo un pericolo che minaccia tutto quello che abbiamo pensato dell’Ungheria e del modo di vivere ungherese. La verità è che dopo l’ottenimento della libertà del 1990, siamo arrivati di nuovo ad un momento cruciale della nostra storia. Volevamo credere che i vecchi problemi non potranno ripetersi. Volevamo credere che l’ossessivo sogno comunista di creare l’homo sovieticus al posto degli ungheresi, fosse sconfitto per sempre. Ed ora siamo qui increduli e vediamo che le forze della globalizzazione tentano di scassare le nostre porte e lavorano affinché al posto degli ungheresi venga creato un homo bruxellicus. Volevamo credere che non avremmo più avuto a che fare con forze politiche, economiche e intellettuali che volessero tagliare le nostre radici nazionali. Volevamo credere anche che in Europa non avrebbe mai più potuto rialzare il capo il terrore e la violenza.
Non è andata così. L’Europa si è abbagliata dai successi di una volta. E così si è marginalizzata nel teatro mondiale senza neanche rendersene conto. Sognava un ruolo mondiale ed oggi i vicini a mala pena la considerano, e riesce a mal la pena a mantenere l’ordine nel suo territorio. Invece di riconoscere questo ha iniziato una campagna vendicativa contro chi l’ha avvertita del pericolo della abnegazione spirituale e del nichilismo. Hanno bollato come pedanti, quelli che hanno detto che l’Europa ha bisogno di confini esterni proteggibili. Hanno chiamato razzisti chi diceva che le migrazioni mettono a rischio la nostra cultura. Hanno bollato come ripugnanti chi ha alzato la voce in difesa della cristianità. Hanno bollato omofobi chi è andato in difesa della famiglia. Hanno bollato come nazisti chi difende un’Europa come federazione di nazioni. E infine hanno bollato come sognatori chi ha deviato dalla via di Bruxelles che conduce nella palude. In pochi siamo sopravvissuti a queste campagne punitive. Questa superbia ha portato l’Europa nella crisi economica, politica e spirituale dalla quale oggi ogni stato vuole scappare. Questa è la verità con la quale oggi dobbiamo confrontarci. Parentesi. Si vede che da quelle parti non conoscono il monito più famoso del nostro Santo Re, Stefano: “Niente si solleva, solo l’umiltà, niente precipita, solo la superbia e l’odio.”
Egregi Signori e Signore!
Gli uomini europei – e tra loro anche noi – ci siamo stancati di quelli che vogliono farci accettare la globalizzazione come una forza irresistibile. Ci siamo stancati che ripetono questo giorno e notte, che non possiamo fare niente, dobbiamo solo sopportare, dobbiamo solo conformarci e chinare il capo. Noi volevamo e vogliamo ancora oggi l’Unione Europea. Che sia sicurezza ed uno strumento con il quale le nazioni europee proteggano i loro pensieri comuni della civiltà. Invece in realtà ci siamo resi più vulnerabili di quanto eravamo. In ogni situazione di crisi gridano Europa, come se fosse una parola magica, quale solo se essa possa cambiare le nostre sorti. L’Europa è su un binario morto. Noi ungheresi sappiamo perché. In questo periodo, il 23 ottobre lo vediamo ancora più chiaramente. Nel XX secolo i problemi sono stati causati dagli Imperi militari, ora sulla scia della globalizzazione si ergono Imperi economici. Non hanno confini, ma hanno i media mondiali dalla loro parte e hanno decine di migliaia di persone comperate. Non hanno una struttura forte, ma hanno una rete sviluppata. Sono veloci, forti e brutali. Questo impero speculativo finanziario ha fatto prigioniera Bruxelles e qualche paese membro. Fino a che non riconquisterà la sua sovranità il governo europeo non potrà guidarci nella direzione giusta. Questo impero ci ha portato queste ondate migratorie della nuova era, milioni di migranti, l’invasione di migranti. Loro hanno elaborato questo progetto con il quale vogliono far diventare l’Europa un continente meticcio. Ora siamo solo noi che resistiamo. Siamo arrivati a questo punto che l’Europa centrale rimane l’ultima area senza migranti. Proprio per questo la lotta per il futuro dell’Europa si concentra qui.
Egregi Signori e Signore!
Noi ungheresi siamo stati quelli che hanno rotto il ghiaccio del silenzio. Noi siamo stati quelli che hanno indicato quali sono le forze che vogliono tagliare le radici nazionali dell’Europa. Abbiamo portato alla luce, l’alleanza, prima nazionale poi internazionale, contro di loro. Non potevamo fare altrimenti. La semioscurità e la guerra nascosta non fanno parte del nostro mondo. Quella noi non la potremmo mai vincere. Nell’oscurità i nostri nemici sono più forti. Solamente in una lotta a carte scoperte, con un discorso chiaro e diritto abbiamo probabilità di vincere, di difendere i nostri confini, fermare le migrazioni, e difendere la nostra identità nazionale. Se vogliamo una Ungheria ungherese e un’Europa europea allora dobbiamo dirlo apertamente. E non basta dirlo, ma bisogna anche lottare. Come sempre abbiamo fatto quando si trattava della nostra libertà e indipendenza.
Egregi Signori e Signore che siete qui per festeggiare!
Oggi ogni votazione è determinante in Europa. Lo erano quella austriaca, quella tedesca, quella ceca e lo saranno il prossimo anno quella italiana ed anche quella ungherese [ndr: nel 2018 si tengono le elezioni politiche in Ungheria]. Si deciderà adesso se i popoli d’Europa riconquisteranno la guida della propria vita nazionale dai burocrati europei che sono intrecciati con l’elité economica. In ogni campo, nella politica, nell’economia, nella vita intellettuale e prima di tutto nella cultura dobbiamo conseguire cambiamenti profondi. Si deciderà ora se riusciremo a far tornare la vecchia, grandiosa Europa, quella che era prima della multiculturalità. Noi vogliamo un’Europa sicura, dignitosa, borghese, cristiana e libera.
Ancora tanti pensano che questo sia impossibile, ma noi pensiamo al 1956. Quanti avrebbero pensato alla mattina del 23 ottobre andando al lavoro sul tram, che alla sera al posto della statua di Stalin sarebbero restati solo gli stivali? Quanti avrebbero pensato che, in caso di necessità, anche gli uomini-bambini prenderanno le armi in mano? Scrive Örkény [ndr: scrittore ungherese] di un bambino che bussa la porta di un’appartamento borghese: “Signora prego, se pulisco bene i piedi mi sarà permesso di sparare dalla finestra?” E quanti credevano nel 1988 che saremmo riusciti a far franare il comunismo in un anno imponendo alle truppe sovietiche di ritirarsi. E in quanti hanno creduto prima del 2010, che in breve avremo una costituzione su basi nazionali, di cultura cristiana e capace di proteggere le nostre famiglie. Dicevano che è impossibile. Dicevano che è impossibile mandare a casa l’FMI. Dicevano che è impossibile far rendere conto alle banche. Impossibile fare pagare le tasse alle multinazionali, impossibile abbassare le spese. Dicevano impossibile dare lavoro a tutti, che è impossibile mettersi contro la migrazione e che è impossibile fermare l’invasione dei migranti con il recinto.
Non ho potuto dirvi, nemmeno una volta, che si riuscirà a farlo con certezza. Nella vita per queste cose non c’è garanzia. Una cosa invece è sicura: se non ci proviamo, allora non ci potremmo riuscire. Un po’ di possibilità c’è sempre. Nel 1956 abbiamo salvato l’onore della nazione, nel 1990 abbiamo ripreso la nostra libertà, e nel 2010 ci siamo messi sulla strada dell’unificazione della nazione. A noi nessuno può dire che è impossibile. Noi sappiamo che la migrazione si può fermare, si può frenare la globalizzazione, si può contenere Bruxelles, si può forare il piano speculativo finanziario, e alla pazza idea degli Stati Uniti d’Europa si può mettere la camicia di forza.
Egregi Signori e Signore!
La posta in gioco è alta. Non possiamo trattare niente dall’alto in basso. Nonostante la nostra forza odierna non possiamo gongolarci nell’inattività e nella comodità. Non dobbiamo sottovalutare mai la forza del lato oscuro. I favoriti per la prossima tornata elettorale siamo noi, ma non abbiamo ancora meritato, non abbiamo ancora combattuto per la vittoria. Abbiamo bisogno di tutti. Per questo nei mesi seguenti ci organizzeremo. A marzo ricominceremo. E allora in aprile vinceremo di nuovo.
Forza Ungheria, Forza ungheresi!
fonte: ungherianews.com
che schifo di discorso!
Addirittura schifo?
E’ un discorso nazionalista ma non imperialista. Un discorso coraggioso. Un discorso tradizionalista ma di una tradizione che in Italia è morta mentre là no. Quella tradizione l’hanno infilata nella loro costituzione. E’ un discorso non socialista ma che loda socialisti. Ed è un discorso non liberoscambista.
Dunque a me, che sono sovranista ma non nazionalista e che non sono credente e non credo che la tradizione da far valere in Italia sia quella cattolica, che, almeno per ora, si è estinta, sembra un discorso del quale non condivido i presupposti, nel senso che questi ultimi non sono i miei, quelli che vivo sento e voglio, ma che è oggettivamente un grande discorso. Magari in Italia esistesse un partito moderato, tradizionalista, non liberoscambista, che ragionasse così, anziché la Lega Fratelli d’Italia e Forza Italia! Salvini Berlusconi e Meloni messi uno sopra l’altro non arrivano nemmeno alla caviglia di Orban.