Né con Trump né con Merkel
di ALESSANDRO GILIOLI
Il pensiero unico che ha fatto da base a un’Europa politicamente immobile è giunto al capolinea. Il modello economico instaurato con la svolta neoliberale degli anni Ottanta non ha prodotto che disuguaglianze e polarizzazione delle ricchezze nel nostro Continente. L’Europa, allo stato, è un campo di battaglia tra un establishment in bancarotta e nuovi nazionalismi reazionari.
È da queste premesse storico-politiche che nasce il saggio di Yanis Varoufakis e Lorenzo Marsili “Il terzo spazio. Oltre establishment e populismo”, da poco uscito per Laterza. Varoufakis sapete tutti chi è; Marsili è il suo principale collaboratore in Italia e coordinatore nel nostro Paese di Diem25. Il loro libro ha uno scopo chiaro fin dal titolo: proporre un manifesto per un’ipotesi politica europea che sfugga alla tenaglia tra Juncker e Le Pen, tra Merkel e Salvini, tra “larghe intese” e neonazionalismi. Insomma tra due destre: una economica liberista e una postfascista-parafascista.
Nel suo libro precedente, “I deboli sono destinati a soffrire?”, Varoufakis partiva da lontano: dagli squilibri economici e finanziari deflagrati nel 1971, l’anno in cui Nixon pose fine agli accordi di Bretton Woods, che dal 1944 regolavano l’ordine valutario mondiale imperniandolo sul dollaro e sulla sua convertibilità in oro. E da lì l’ex ministro greco arrivava ai giorni nostri, alla catastrofe europea attuale. Questo volume è meno tecnico (e ha uno stile più narrativo) ma l’analisi affonda le sue radici ancora più in là: nella Grande Depressione post crisi del ’29, nei “gloriosi anni Trenta” del New Deal quando per la prima volta il capitalismo ha dato vita a sistemi di welfare che sembravano indicare un terzo spazio tra liberismo e comunismo. Anni segnati in molti Paesi dal primato della democrazia sull’economia e dall’estensione dei diritti, con l’obiettivo della piena occupazione e della protezione sociale. «Non l’Eldorado, ma un modello di democrazia che funzionava e rispondeva alla volontà popolare».
Oggi non è più così. E le democrazie occidentali che avevano risposto in modo flessibile ed elastico alla crisi iniziata nel ’29, non hanno finora proposto un’uscita altrettanto efficace da quella cominciata nel 2008. Anzi, hanno reagito arroccandosi nei dogmi dello status quo, irrigidendo l’assolutismo del libero mercato. Chiudendosi a riccio. E così creando, per reazione, le pulsioni verso il passato stimolate e urlate da leader nazionalisti parafascisti, demagogici e muscolari, che canalizzano la rabbia e l’odio dando l’illusione di restituire sovranità («Non è solo un cambio di presidente, oggi il potere torna al popolo», dice Trump entrando alla Casa Bianca).
È quindi in corso una crisi della democrazia, per via dell’incapacità (o della non volontà) di resilienza della democrazia stessa, sostengono gli autori; ed è proprio la politica a tenersi separata dall’economia, è la politica che che porta molti a credere che non ci sia nulla da fare di fronte allo strapotere della finanza globale, è della politica la responsabilità maggiore della crisi, non dell’economia. Se il robot sembra fare tutto da solo, è perché la politica glielo lascia fare o meglio ci fa credere che faccia tutto da solo mentre a non voler far nulla è lei, la politica. Era politica Reagan, lo era Thatcher, lo era Tony Blair che ha reso convenzionale l’agenda neoliberista in Europa camuffandola da Terza Via, lo era Tiziano Treu che con il suo “pacchetto” di leggi sul lavoro ha avviato l’Italia verso il precariato, lo era Gerhard Schroeder che ha realizzato una delle più grandi compressioni di sempre dei diritti dei lavoratori in Germania, lo era José Luis Zapatero che ha assecondato la speculazione immobiliare in Spagna, così come lo erano i capi di governo dell’est europeo che hanno inventato la via orientale al fondamentalismo di mercato.
E così, mentre si decantava la fine delle ideologie, dilagava la furia ideologica di questo fondamentalismo. E così si creava l’Unione europea che abbiamo davanti agli occhi oggi, custode ortodossa di regole economiche arbitrarie e ottuse, da Maastricht in poi. E tanto più questo avveniva, quanto più gli Stati nazionali interiorizzavano (anche nelle loro stesse Costituzioni) questo rigido fondamentalismo, in un circolo vizioso, un loop che ci ha portato alla gabbia in cui ci troviamo oggi.
Siamo diventati, insomma, un Austerity Union. E – scrivono gli autori – oggi non basta dire che “serve più Europa” per rompere le sbarre, non basta vaticinare una federazione compiuta di tipo americano: bisogna invece cambiare i rapporti di forza e della cultura economica dominante. Perché se il piano federale è quello tecnocratico e ipercompetitivista proposto dalle attuali istituzioni europee, non si fa che offrire nuovi argomenti a chi rigetta il concetto stesso di Europa. E quindi reagisce con pulsioni autarchiche, xenofobe, nazionaliste.
Ma non è quella della disintegrazione la strada giusta, dicono Varoufakis e Marsili. Distruggere l’Europa e perfino uscire dall’euro – la cui architettura è peraltro catastrofica – non sono cose che ci farebbero uscire dal fondamentalismo di mercato, come del resto dimostra anche la Brexit, o l’iperliberismo rapace americano, che produce disuguaglianze anche più marcate. Sono proprio gli stati nazionali – a cui alcuni propongono di tornare – quelli che hanno creato quest’Europa, quelli che si sono inginocchiati alle lobby, alla finanza, alle élite. È un inganno, quello nazionalista e autoritario di Le Pen e di Orbán, così come dall’altra parte dell’Oceano quello di Trump. Ed è un meccanismo di alimentazione reciproca quello tra élite tecnocratiche e destre nazionaliste, in cui ciascuna parte si nutre della paura per l’altra, dell’odio per l’altra, in un rapporto perversamente simbiotico.
Di qui l’unica via d’uscita decente e di buon senso, quella di un New Deal per l’Europa, a cui Varoufakis e Marsili dedicano l’ultima parte del loro libro con una serie di proposte concrete, «un accenno di programma europeo»: un piano di investimenti per la riconversione ecologica, attraverso la mobilitazione di capitali in investimenti con un modello misto pubblico-privato, da finanziare con un nuovo uso del Quantitative Easing (con il quale oggi la Bce acquista titoli di stato e delle imprese), basato su un rilancio della Banca Europea degli investimenti; una garanzia dei diritti fondamentali, dei servizi, dei beni essenziali, a partire da educazione, sanità e ambiente; un dividendo universale di base da ottenere attraverso la condivisione della remunerazione del capitale; una democrazia aperta e partecipata che restituisca la parola ai cittadini che negli ultimi anni sono sempre di più stati esclusi dalle decisioni che li riguardano. E non entro più di così nei particolari delle proposte per non spoilerare ulteriormente un libro di cui ho già raccontato molto.
Un libro che non è – e non credo voglia essere – un trattato sistematico di politica ed economia (scopo per il quale ci sono molti altri testi, da Piketty ad Atkinson etc) bensì una sorta di manifesto, una bozza e un punto di partenza per iniziare a uscire dalla dicotomia soffocante in cui – anche in Italia, come in quasi tutto l’Occidente – ci ha costretto la crisi dell’establishment e la conseguente reazione autoritaria.
Ed è, oltre a una lettura del reale, una buona base per un programma elettorale che vada oltre i politicismi, i tatticismi, i litigi, i personalismi e i settarismi in cui è impaludata in Italia quella parte politica che una volta si chiamava sinistra.
Parola peraltro accuratamente evitata nelle 132 pagine del libro di Marsili e Varoufakis, e non sono sicuro che sia soltanto un caso.
fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2017/04/05/ne-con-trump-ne-con-merkel/
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