di LUCIANO BARRA CARACCIOLO
1. Il DEF attuale fornisce, a legislazione invariata ed attualmente vigente, le “analisi e tendenze” della finanza pubblica, che, già di per sè, com’è del tutto evidente, comportano una sostanziale e costante riduzione della spesa corrente primaria (cioè quella effettiva al netto degli interessi sul debito pubblico).
Si tratta di una riduzione di 2,1 punti in rapporto al PIL cumulata progressivamente nei prossimi 4 anni, con un “picco” tra il 2018 (in particolare) e il 2019. La spesa complessiva in conto capitale, cioè quella che, si dice, servirebbe maggiormente per il rilancio della crescita, rimarrebbe pressocché costante, ma pervenendo, alla fine del periodo considerato, ad un taglio di 0,4 punti, che corrispondono ad una riduzione intorno al 12% dell’ammontare complessivo.
2. Ma, senza dilungarsi troppo sulle pletoriche, quanto (dichiaratamente) incerte, analisi e previsioni di “tendenza” contenute nel complesso del documento, basti sapere che la soprastante tabella risulta già superata dalle intenzioni dichiarate in apertura dallo stesso DEF, che si pone obiettivi di riduzione dell’indebitamento netto, e quindi anche di riduzione della spesa e di aumento delle imposte (che è già certo per il 2018), ancora più ambiziosi.
Infatti:
Il deficit annuale dovrebbe (anche in virtù della ferma fiducia negli effetti trascurabilmente recessivi della “manovrina” da partorire entro aprile), dunque arrivare al 2,1 nel 2017, all’1,2 nel 2018, ed allo 0,2 (!!!) nel 2019.
3. Abbiamo già detto come queste previsioni (che implicano sia un’ottimistica tenuta delle previsioni riferite all’onere degli interessi, sia il raggiungimento di saldi primari, vicini o anche ben superiori ai 3 punti di PIL nei prossimi due anni), ci paiano incompatibili con un tasso di crescita del PIL dell’1%, anch’esso previsto dal DEF.
Colpisce, in particolare, l’idea che, compiuto effettivamente l’aggiustamento “ulteriore” enunciato nel DEF, il taglio della spesa pubblica primaria (corrente e in conto capitale) dovrebbe risultare superiore ai già elevati 2,1 punti già previsti, ed attestarsi, nel cumulo del periodo considerato, oltre i 2,7 punti PIL (sempre che non si ricorra ad un incremento della tassazione che, peraltro, si dichiara di non voler percorrere, visto che si vuol “liberare le risorse del Paese dal peso eccessivo dell’imposizione fiscale“).
In sintesi, quali che siano le misure adottate per arrivare ad un saldo primario di tale entità, non si vede come ciò possa essere conciliato con il previsto livello di crescita.
E se non sarà raggiunto tale livello di incremento del PIL, saranno altrettanto sbagliate, in quanto sottostimate, le previsioni di entrata ad esso correlate; per mantenere le quali, occorrerebbe un ulteriore inasprimento dell’imposizione, innescando un circolo vizioso di depressione di consumi e investimenti che si aggiungerebbe agli effetti, diretti ed oggettivi, del taglio della spesa primaria.
4. L’applicazione di un corretto moltiplicatore fiscale, in relazione alle varie, e non ancora ben chiarite, voci di riduzione della spesa, – ed anche ai ben minori effetti moltiplicativi della riduzione/aumento della tassazione-, indicano che gli effetti quantificati dal DEF risulteranno molto più recessivi di quanto non sia ipotizzato dalle attuali previsioni: si noti come il moltiplicatore della spesa per “trasferimenti”, – cioè ad esempio le pensioni e le altre forme di assistenza alla disoccupazione ed alla povertà-, risulti il più elevato, mentre in condizioni “avverse” come sono notoriamente quelle attuali, anche un taglio della spesa per consumi pubblici tenda a innalzarsi verso il doppio dell’unità:
Figure 1. Compound cumulative multipliers of fiscal impulses for different regimes (full sample)
Note: Upper: above average economic circumstances; Average: average economic circumstances; Lower: below average economic circumstances.
5. Questa situazione risulta quindi altamente instabile se non apertamente “destabilizzante”.
6. Neppure una redistribuzione contraddistinta da equità può verificarsi senza crescita.
L’effetto di questo consolidamento fiscale, avulso da ogni realistica considerazione dei suoi effetti “decrescisti”, sarebbe solo l’irrisolvibile ampliarsi della caduta del livello di reddito e di benessere di fasce crescenti della società unito all’inevitabile ampliarsi della stessa diffusione della più cruda povertà.
La soluzione attualmente percorsa è quella di provvedere agli effetti della povertà assoluta in modo parziale e insufficiente, senza incidere (sulle) ma, anzi, acuendo le cause del suo ampliarsi; e ciò ponendo a carico di una componente sociale sempre più ampia di semipoveri, e di impoveriti, il carico della stessa irrisolta povertà assoluta.
Come vedete dal grafico sottostante, l’andamento di quest’ultima, non rispecchia, (e non può rispecchiare), neppure quello dell’andamento della disoccupazione, dato che è proprio la precarizzazione e la deflazione salariale dominante a generare povertà anche in presenza di una “occupazione” in senso…statistico.
Mi scuso con i lettori se non ho un messaggio di speranza da consegnargli in questa ennesima Pasqua sotto il tallone d’acciaio dell’€uropa.
L’unica cosa che possa assomigliare ad una speranza è la drammatica prospettiva di un impegno sempre più ampio di tutti i cittadini italiani a recuperare il buon senso e la verità nell’interpretare i fatti di cui sono, oggi più che mai, i soggetti passivi.
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