Il Wahabismo, l’Islam più pericoloso, si diffonde ovunque grazie ai dollari del petrolio e alla sudditanza occidentale
di L’ANTIDIPLOMATICO (Fulvio Scaglione, Linkiesta)
Gli abitanti di Helsinki avevano visto i cortei anti-migranti dei gruppi neo-nazisti. Ora, invece, fanno conti con una protesta nuova, che anche noi dovremmo seguire con attenzione. È quella contro il progetto chiamato “Centro Oasi”, che nella periferia industriale della città vorrebbe far sorgere una moschea capace di accogliere 1.200 fedeli, un centro culturale e una serie di giardini e locali comunitari. Un gigante, considerato che l’intera comunità islamica della Finlandia conta al più 70 mila persone (tra le quali molti somali, turchi e albanesi).
I musulmani non vedono l’ora di arrivare all’Oasi ma il resto del Paese si preoccupa, perché i lavori dovrebbero essere finanziati dal Bahrein e la moschea affidata a predicatori wahabiti. Sulla diffidenza dei finlandesi agiscono due fattori. Il primo è il rimorso: nel 2011, appena prima della Primavera che agitò il Bahrein con richieste di democrazia soffocate nel sangue, la Finlandia vendette alla famiglia regnante degli Al Khalifa 3,5 milioni di euro di armi leggere, tra cui anche un lotto di fucili da cecchino con relative munizioni.
Rimorso che, a quanto pare, non tocca l’Italia, che ai sauditi continua a fornire un po’ di tutto, come proprio Linkiesta ha documentato nei giorni scorsi. Ma a spingere la mobilitazione anti-moschea (che ha coinvolto politici, religiosi, giornalisti e tanta gente comune) è soprattutto il timore che il wahabismo possa infiltrarsi in Finlandia e agire anche lì come primo e decisivo supporto al fondamentalismo islamico.
Negli ultimi trent’anni i sauditi avrebbero speso più di 100 miliardi di dollari per diffondere il wahabismo, attraverso moschee e centri culturali, in una lunga serie di Paesi. L’Urss, nel periodo 1921-1991, avrebbe speso per diffondere il comunismo “solo” 7 miliardi di dollari
Il wahabismo non è particolarmente popolare in Bahrein, dove la grande maggioranza della popolazione (circa il 70%) è sciita. Ma è la corrente di islam a cui aderiscono gli Al Khalifa, legati a filo doppio all’Arabia Saudita dove il wahabismo è religione di Stato. Di più: è religione di famiglia, perché quasi tre secoli fa la famiglia di Muhammed ibn Abd al-Wahhab (1703-1792), fondatore appunto della corrente, si imparentò con quella dei Saud, che avevano offerto aiuto e protezione al religioso messo al bando dalla città natale di Uyaynah.
Dalle sabbie della penisola arabica alle nevi della Finlandia il passo è lungo ma non troppo. Dal 1962, cioè dall’anno in cui alla Mecca fu fondata la Lega islamica mondiale (dal 1978 accompagnata dalla International Islamic Relief Organization), l’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo hanno investito somme enormi per diffondere il verbo wahabita, che è la base religiosa e ideologica dell’arcipelago radicale che ha generato tutti i grandi gruppi del terrorismo sunnita, da Al Qaeda all’Isis ai talebani.
Secondo Yousaf Butt, direttore del Cultural Intelligence Institute del Michigan (Usa), negli ultimi trent’anni i sauditi avrebbero speso più di 100 miliardi di dollari per diffondere il wahabismo, attraverso moschee e centri culturali, in una lunga serie di Paesi. Per avere un termine di confronto: secondo le stesse stime, l’Urss, nel periodo 1921-1991, avrebbe speso per diffondere il comunismo “solo” 7 miliardi di dollari. Butt non è l’unico a essersi cimentato con certi calcoli. Nel 2006 Patrick Sookdeho, per molti anni direttore dell’Institute for the Study of Islam and Christianity, calcolò che il saudita re Fahd, con il proprio patrimonio personale, aveva fatto costruire 2000 scuole islamiche, 202 collegi universitari, 210 centri culturali e 1500 moschee nei cinque continenti. E Fahd, salito al trono nel 1982, già nel 1995, colpito da un ictus, aveva dovuto cedere i poteri al principe ereditario Abd Allah.
Quello dei sauditi è un progetto di dominio globale sull’islam, non di guerra all’Occidente. Per questo sono sempre andati d’accordo prima con il Regno Unito, grande sponsor della nascita dell’odierna Arabia Saudita, e poi con gli Usa, che hanno seguito con grande interesse la strategia di penetrazione del wahabismo in Asia e in Medio Oriente e hanno cercato di sfruttarla.
Anche il resto d’Europa, Francia e Italia avanti tutti, flirta coi petrodollari.
Ma noi europei dovremmo stare un po’ più attenti. Intanto perché anche il Regno Unito e gli Usa (dove più del 10% delle moschee è ormai controllato da predicatori wahabiti) hanno infine avuto problemi con la radicalizzazione di una parte dei musulmani locali. Ma anche perché l’interesse degli agenti wahabiti per l’Europa è stato sì altalenante (i maggiori e più facili progressi, è ovvio, il wahabismo li ha fatti nei Paesi poveri o in via di sviluppo) ma profondo.
Già nel 1967, infatti, il re Baldovino del Belgio concesse all’Arabia Saudita, in cambio di un ricco contratto petrolifero, di far nascere nel cuore di Bruxelles una Grande Moschea che negli anni, grazie ai predicatori wahabiti (nel 2012 Khalid Alabri, reggente della moschea, fu rimosso dopo che il Governo belga aveva contestato i suoi sermoni anti-cristiani e antisemiti), ha contribuito a cambiare la natura dell’islam praticato dagli immigrati, in maggior parte di origine nordafricana, più tollerante e aperto di quello appunto wahabita.
Poi, come si diceva, il grosso degli sforzi di proselitismo si è spostato verso l’Asia e il Medio Oriente. È tornato verso Ovest con la seconda guerra di Cecenia (1999-2009, di fatto il primo jihad in un Paese europeo), con gli attentati qaedisti (Parigi, Londra, Madrid) e con la capillare opera di radicalizzazione delle moschee e di arruolamento dei cosiddetti “lupi solitari” a cui assistiamo da anni.
Helsinki, con le polemiche sul Centro Oasi, si inserisce in questa filiera. Ci colpisce perché è a Nord (ma impressionano anche le dimensioni: la moschea progettata coi soldi del Bahrein sarebbe di poco più piccola di quella di Sarajevo, che è a sua volta la più grande dei Balcani), e anche perché quanto accade a Est ci lascia indifferenti. A dispetto dei ripetuti allarmi (nel 2015 fu arrestato in Italia un gruppo di kosovari che arruolava combattenti da mandare in Siria; altri tre kosovari, che volevano mettere bombe a Venezia, sono stati arrestati nel marzo 2017), l’opinione pubblica europea pare non rendersi conto di quanto avviene in Kosovo, Albania e Bosnia-Erzegovina, cioè sulla soglia di casa.
Nella sola Sarajevo, capitale appunto della Bosnia-Erzegovina, nei primi anni Duemila sono state costruite più di 100 nuove moschee e oltre 70 centri culturali islamici, sempre con fondi provenienti dalle petromonarchie del Golfo Persico. La predicazione wahabita sta cambiando non solo la natura dell’islam bosniaco ma addirittura la composizione etnico-religiosa dell’intero Paese: il crescente settarismo spinge alla fuga i cattolici, che erano 800 mila prima della guerra, sono 400 mila oggi e, visto il lento ma costante calo, saranno ancor meno domani.
Un’analoga espansione del wahabismo si registra anche in Albania, dove già nel 2005 Xhavit Shala, studioso dell’islam balcanico, invitava le autorità a “soffocare il fuoco wahabita” fomentato “dal supporto di certi Paesi del Golfo Persico”. Per non parlare del Kosovo che, sponsorizzato fin dalla nascita dall’Occidente e sede della più grande base militare americana fuori dai confini Usa (Camp Bondsteel), è anche il Paese europeo che ha fornito all’Isis la maggior percentuale di foreign fighters per abitante.
L’indifferenza occidentale all’insidia wahabita è stata ben codificata dalle teorie dello “scontro di civiltà” e dai loro cascami fallaciani. È assai più comodo, per i circoli al potere, accettare una visione di confronto aggressivo con l’intero islam (anche se è una sciocchezza venata di razzismo credere che l’islam sia un mondo indifferenziato e compatto e che i musulmani siano tutti uguali) piuttosto che praticare una distinzione tra chi promuove il terrorismo e chi no. Prendersela con tutti è come prendersela con nessuno. E infatti sono un grottesco fallimento tutte le nostre campagne di “esportazione della democrazia” e “guerra al terrorismo”. Prendersela con chi concretamente sponsorizza il radicalismo e il terrorismo implica invece un concreto riassetto delle alleanze e delle pratiche politiche, e magari anche qualche costo, se questi Paesi sponsor sono anche ricchi e disposti a spendere. Intanto il wahabismo avanza. E sentitamente ringrazia.
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