Don Chisciotte e la sanità pubblica
di DOPPIOZERO (Valerio Miselli)
Torniamo a scrivere di salute, di Sistema Sanitario Nazionale, del nostro stato di salute durante un periodo di epidemia influenzale, l’ennesima emergenza sanitaria che si abbatte su un sistema già reso fragile dall’impatto col COVID, dopo anni di tagli e revisioni, senza un posto fisso nell’agenda politica di chi ci governa, da molto tempo. Poi compaiono due articoli sulle pagine dei quotidiani, lettere di protesta nelle pagine riservate ai lettori, la figlia di una donna di 98 anni che è costretta ad aspettare per 12 ore su una barella al Pronto Soccorso, un giornalista molto conosciuto che ha la stessa sorte con il padre ultraottantenne che sta facendo chemioterapia, storie di visite negate, attese infinite, dignità umana calpestata, sofferenza. Storie quotidiane che non si vorrebbero sentire in un Paese che si vanta di avere un buon Sistema Sanitario Nazionale, dove la salute è garantita a tutti, per legge.
Le storie di malattia entrano in conflitto con il nostro sistema di cura, le persone diventano malati. La figura del paziente sottoposto al controllo smette di corrispondere in toto con la persona malata che comincia invece a rivendicare di aver voce in capitolo per ciò che riguarda il proprio corpo. Diventiamo tutti un po’ “Narratori feriti” secondo l’espressione di Arthur Frank. Il modello classico di cura per una patologia acuta (in pratica, chiamare il medico o telefonare al 118) non sempre riesce a soddisfare il bisogno emergente, la frattura narrativa che la malattia genera in ciascuno di noi, la necessità di un ripristino urgente dello stato di salute precedente.
Peggio ancora per chi vive con una patologia cronica, dove spesso cresce il divario tra il dolore che aumenta e l’agenda dei medici che prendono in mano la situazione critica: mentre uno pensa che la sua vita stia deragliando, arrivano rassicurazioni inutili, perché non possono essere colte in quel momento. Ogni persona che soffre dovrebbe poter sviluppare uno “stile” per vivere la malattia, ma purtroppo i medici scoraggiano le nostre storie quando non hanno tempo e quando esse non coincidono con il loro sistema di raccolta dati che loro chiamano anamnesi. Tutto ciò in un sistema che funziona, dunque proviamo ad immaginarlo (ed è la realtà quotidiana) in un sistema già in crisi, messo a dura prova dalle emergenze ripetute di questi ultimi tre anni. Non scendo a valutazioni tecniche: do per scontato che tutti sappiano fare bene il proprio mestiere.
Vorrei dare voce anche a chi ci lavora dentro, tutti i giorni, nei nostri presidi sanitari.
Dice Ciro B, infermiere che da anni lavora in un Pronto Soccorso di una città del Nord:
“Lavorare in Pronto Soccorso in questo periodo significa percepire tutte le difficoltà e criticità del Sistema Sanitario. Il numero di pazienti che afferiscono è aumentato in modo significativo, con necessità di cure, osservazione e ricovero a cui è impossibile fare fronte. Mancano i medici e da mesi l’ambulatorio “fast track” rimane chiuso al mattino, così al pomeriggio c’è già la fila. Le attese arrivano anche a 12 ore per i codici verdi.
Non ci sono posti letto per il ricovero e i pazienti, per la maggior parte anziani, aspettano dalle 24 alle 48 ore su una barella. A loro vengono garantite cure igieniche, pasto, terapia domiciliare alla dimissione, controlli degli esami ematici, trasformando di fatto il pronto soccorso in un reparto.
Aumentano i casi sociali, i pazienti fragili che hanno bisogno di essere presi in carico.
Con la chiusura del reparto di Diagnosi e Cura fortemente voluta dalle forze politiche, tutte le urgenze psichiatriche afferiscono in pronto soccorso e in molti casi lo specialista richiede un periodo di “osservazione” che viene fatta negli stessi ambienti. Quindi nella stessa area, dopo il filtro del triage per distinguere vere emergenze, emergenze dilazionabili e problemi minori (spesso perché le persone non trovano un medico e quasi più nessuno visita a domicilio), filtrati i pazienti con un rapido COVID -Test per indirizzare in ambiente diverso i positivi, nelle stesse stanze devono convivere anziani fragili, persone con codici bianchi e pazienti psichiatrici in relativa stabilizzazione, sempre con lo stesso personale che deve soprattutto curare in emergenza i codici rossi. Un caos difficile da organizzare, ma noi ci proviamo, tutti i giorni!
La sensazione che si prova è di scoraggiamento e impotenza, di essere lasciati soli di fronte a ripetute emergenze sanitarie: prima per il COVID, mai terminata e poi adesso anche una forma di influenza molto “cattiva” che provoca frequenti emergenze respiratorie (capita a persone relativamente giovani di venire in PS perché “fanno fatica a respirare” e scopri che hanno una ossimetria pericolosa e devi immediatamente metterli sotto ossigeno!).
Le ripetute attivazioni del cosiddetto “Piano per la maxi emergenza,” non risolvono la carenza di posti letto e non riducono i tempi di presa in carico dei pazienti. Servono soltanto a comunicare all’organizzazione sanitaria la situazione di affollamento e di crisi del servizio”.
Anna Lisa Z., giovane pediatra di base che lavora in una cittadina della pianura padana, racconta:
“Com’è lavorare oggi nel sistema sanitario pubblico?
Lavorare oggi nel sistema sanitario territoriale è una sfida quotidiana, è come saper fare uno slalom gigante sulla pista 3-Tre di Madonna di Campiglio.
Mi alzo al mattino, indosso il mio vestito da Don Chisciotte e vado a combattere i miei mulini a vento. Combatto contro un’utenza che il più delle volte non comprende, ma pretende. Non comprende l’enorme lavoro di inutile burocrazia che c’è dietro ogni giornata di lavoro. Non comprende che al tempo stesso sono medico, segretaria, centralinista e psicologa. Un’utenza che non comprende ma pretende; pretende il massimo della prestazione, anche per il più banale dei bisogni e lo pretende in tempi più rapidi, immediati… Un’utenza che non accetta, non ammette e forse quasi attende “l’errore”. A volte hai la sensazione che esista davvero una sindrome assicurativa dal rimborso facile per ogni errore commesso. Nel tempo dove tutto è ordinabile con un click e consegnato in tempo zero sotto casa, dove padroneggia l’estenuante rincorsa alla perfezione (spesso solo esteriore), anche i problemi sanitari sono diventati social: i bambini non possono più concedersi il lusso di essere malati e noi medici non possiamo più concederci il lusso di fare i medici, di usare il ragionamento critico, di usare le conoscenze che abbiamo appreso in tanti anni di studi, ma dobbiamo “assecondare richieste”.
Persino facile se fosse tutto qui. Combatto anche soprattutto contro quel sistema sanitario che tanto amo e tanto vorrei funzionasse ma che in parte è responsabile, se non altro di aver assecondato questo cambiamento sociale. Un sistema sanitario dove conta di più garantire una prestazione, piuttosto che garantire un buon servizio, dove si lavora in continuo stato di emergenza per far fronte a carenze di organico mai sanate, dove la politica non investe sull’università, sui giovani che sempre meno si iscrivono ai corsi di medicina, perché il mestiere del medico oggi vale sempre meno e si sta lentamente trasformando in un mestiere impiegatizio, facilmente sostituibile.
Le scelte politiche aziendali oggi ci dicono chiaramente che tutti possiamo fare tutto e nessuno è indispensabile: è un sistema sanitario dove si vuole fare tutto nonostante manchino le risorse, dove nascono progetti ambiziosi senza avere le persone che li possono realizzare. E senza le persone non fai nulla. Parlo di persone, perché prima di essere professionisti, siamo persone che hanno scelto di fare un mestiere, quello del medico, dove empatia, ascolto e condivisione sono elementi essenziali; ma per fare questo ci vuole tempo e oggi nessuno vuole “perdere tempo”.
Il medico è un mestiere in crisi: poco personale, troppe richieste e poca programmazione sanitaria, ma io da brava, instancabile Don Chisciotte, continuerò a combattere tutti i giorni nella speranza che ci venga restituita la nostra identità professionale e perché ci venga restituito il tempo di dedicarci alla costruzione di quel rapporto medico-paziente che altro non è se non una relazione di fiducia tra chi ha un bisogno di salute e chi si propone di aiutarlo”.
Per ultimo, una nuova categoria di medici (i liberi professionisti che lavorano a chiamata) che si è creata in questi tempi di emergenza ripetuta: Luca B. pediatra e neonatologo romano, rientrato dopo quasi 4 anni in Africa per lavorare in un piccolo ospedale della Tanzania. Prende un aereo da Cagliari due volte al mese, poi un treno per arrivare in Alto Adige dove fa due turni consecutivi di notte e poi riparte per tornare a casa.
“Premessa: non ho deciso di fare e non faccio questo lavoro per soldi.
Opero in una struttura ospedaliera pubblica ben organizzata:1100 parti, 7000 visite ambulatoriali e 10.000 accessi all’anno in pronto soccorso, un reparto di pediatria con 20 posti letto e uno di neonatologia con una mezza dozzina di culle / incubatrici. Oltre al primario, il team è composto da cinque pediatri/neonatologi, tre dei quali, per scelte personali, non lavorano a tempo pieno e non partecipano a coprire il turno notturno. Questi in breve sono i numeri del reparto dove, ormai da sei mesi, presto servizio a gettone come libero professionista. Mi sembra evidente, anche per i non addetti ai lavori, come questi numeri descrivano una situazione limite in cui è presente un bisogno reale, concreto: servirebbero altri medici per garantire copertura dei turni 24\7.
Si può constatare quotidianamente la deriva verso la privatizzazione della sanità italiana: solo pochi dati presi da qualsiasi rivista specialistica a conferma che, nonostante la pandemia e tutto ciò che ha comportato in termini di sacrifici e sforzi organizzativi, la spesa sanitaria viaggia verso il 6,1% del PIL, la più bassa tra tutti i paesi europei.
Questa che vi ho descritto brevemente non è una situazione isolata lungo tutto lo stivale. Si è creato un bisogno ed è stata proposta come soluzione “d’emergenza” quella della libera professione, profumatamente pagata, ma che ormai sta diventando una specie di normalità. Sconcertante il confronto tra numeri: 3000 € al mese lo stipendio medio di un medico ospedaliero (con il 43% di tasse, l’aliquota più alta che esista!) vs 1000 € per turno di 12 ore (con il 15% di flat tax) per la collaborazione occasionale di un libero professionista.
Giudicate voi in base a questi numeri! Ma questa situazione non è colpa dei “gettonisti” e tantomeno non è sacrificando il tempo, i soldi e la salute dei professionisti che si può fondare un sistema pubblico che funziona”.
Partendo da un’indagine commissionata dalla Cgil relativa ai tempi di attesa per una visita specialistica o ad un esame nella sanità pubblica, si scopre che l’attesa media è di 7 giorni nel privato e 65 giorni nel pubblico. Ovviamente l’interpretazione dei risultati deve tenere conto del fatto che si tratta di tempi di prestazione senza esplicita indicazione di urgenza, per le quali l’accesso è prioritario e quindi più rapido.
Per esempio, per una radiografia al ginocchio, nel pubblico si devono aspettare circa 23 giorni mentre nel privato a pagamento bastano 3 giorni. Emerge dunque un quadro di sanità a due velocità, dove il privato garantisce tempi di attesa più celeri del pubblico e, in tutte le specialità, i tempi di attesa nel pubblico sono quelli che registrano il maggior trend di crescita. Questo vuol dire che, per accedere a una prestazione in tempi più rapidi, i cittadini sono costretti a pagare, tutto o parzialmente, di tasca propria.
Per di più bisogna tenere conto delle criticità che ostacolano ogni implementazione della funzionalità del nostro SSN: differenze regionali con modelli organizzativi e performance dell’assistenza territoriale molto diversi, attuazione del fascicolo sanitario elettronico, carenza di personale, eterogeneità nelle modalità contrattuali vigenti sul territorio, scarsa attitudine alla collaborazione inter-professionale, offerta del privato accreditato, analfabetismo digitale di professionisti sanitari e cittadini, tempi di attuazione della legge delega sugli appalti pubblici, carico amministrativo di Regioni e Aziende Sanitarie, aumento dei costi delle materie prime e soprattutto dell’energia.
Questi sono i grandi problemi ed esistono già gli organi preposti a trovare soluzioni e poi ci sono tutti quelli cosiddetti minori che ancora oggi sono irrisolti. Primo fra tutti il rapporto medico-paziente (o meglio operatore sanitario-paziente).
Quando a gran voce si chiede una umanizzazione delle cure, si fa una richiesta che scende in dettagli quasi mai presi in considerazione dagli amministratori e dai politici la cui attenzione è sempre rivolta alla soluzione dei grandi problemi. La Medicina Narrativa si pone propriamente in questo ambito, come un tentativo nuovo di vedere il problema.
Noi, cittadini e pazienti, abbiamo il diritto di raccontare le nostre storie.
Noi raccontiamo per porre rimedio al danno che la malattia provoca al nostro senso dell’orientamento nella vita. La malattia può essere considerata proprio alla stregua di un naufragio e la sensazione è che la tempesta della malattia provochi condizioni di incertezza, stanchezza, sofferenza, paura, condizioni che impediscono una narrazione fluida, perché si perde il senso del tempo e si perde il senso del futuro. Per raccontare una vita interrotta c’è bisogno di modalità inedite e c’è differenza tra raccogliere una anamnesi e ascoltare una persona; spesso si è troppo vicini al vissuto per comprenderlo, non è possibile riflettere e quindi sembra impossibile raccontare una storia. È necessario però rispettare una narrazione anche se caotica, sia dal punto di vista morale che da quello clinico. Il corpo della persona malata sembra a volte essere considerato un semplice vettore di una patologia. Ma la testimonianza di chi sta male e la competenza professionale devono avere la stessa dignità. Anche chi lavora quotidianamente a contatto con i malati e si occupa di accudirli non viene ascoltato.
Abbiamo qualcosa da insegnare anche quando stiamo male e questo è il senso di una pedagogia della sofferenza.
La Medicina Narrativa dovrebbe essere inserita nel contesto formativo di medici e infermieri e questo oggi in Italia non succede.
Forse non esiste un piano occulto di smantellamento o privatizzazione del nostro sistema sanitario nazionale, però manca certamente un esplicito programma politico per il suo salvataggio. Sarebbe necessario un appello da parte di tutti i professionisti ma soprattutto da parte dei cittadini per fare riflettere questa nuova legislatura e per orientare le decisioni politiche. L’obiettivo sarebbe quello di avere un piano finalizzato non a una manutenzione ordinaria per una stentata sopravvivenza dell’SSN, ma l’attuazione di riforme innovative e di rottura per il definitivo rilancio di un pilastro fondante della nostra democrazia.
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