Odio le giornate mondiali
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Lorenzo Vitelli)
Cosa dovremo farcene di questo calendario sovraffollato di giornate mondiali, se non bruciarlo al più presto? Basta con il piagnisteo impotente dell’umanitarismo, tutto assistenzialismo ed empatia: interroghiamoci sulle cause del pessimo ordine del mondo.
L’umanità non è in grado di guarirsi da sola, figuriamoci a cosa possono servire le giornate mondiali dei pinguini, della proprietà intellettuale, della donna, del tapiro, del jazz, della salvaguardia delle rane, delle ostetriche, delle tartarughe, dei blogger, della lentezza, dell’igiene delle mani, delle donne, della risata. Sono 119 in tutto quelle ufficiali, una ogni tre giorni. In sostanza, c’è una giornata mondiale per tutto. E c’è una giornata mondiale contro tutto. Contro l’omofobia, il razzismo, il bullismo, la discriminazione etc… etc… etc…. Insomma, tolte quelle quattro o cinque giornate che servono davvero a qualcosa, il resto non sono altro che campagne di “sensibilizzazione”, un business che andrebbe forse contabilizzato.
Sono dei bei rompicoglioni, i filantropi.
Louis-Ferdinand Céline, Morte a credito, 1936
Ma a che servono tutte queste giornate per cui indignarci o festeggiare ad orologeria? Perché le istituzioni, specie l’Onu e i suoi tentacoli (Fao, Unesco, Oms, Unicef), dedicano tutto questo tempo alla sensibilizzazione di noi tutti? E soprattutto quest’isteria collettiva che indossa il sorriso posticcio della solidarietà, a cosa serve? Che cos’è tutta questa smania di sensibilizzarci sulle conseguenze del pessimo ordine del mondo, se non ci occupiamo, invece, di modificarlo, questo ordine? Per quanto ancora la Fao, che ad ogni bilancio è nel mezzo di uno scandalo per i costi stellari dell’amministrazione che superano i fondi investiti nei programmi sul territorio, ci vorrà sensibilizzare sugli sprechi alimentari, con le sue giornate, se nessuno fa nulla per capire come si sono create e come si possono risolvere le disuguaglianze tra il Nord e il Sud del mondo? Questo assistenzialismo perenne che riflette solo sulle conseguenze e mai sulle cause, non è forse il prolungamento del controllo politico e sociale sotto altre vesti? Non è un’ulteriore forma di violenza, la stessa violenza turistica ed espiatoria che i protagonisti del film “Come sono buoni i bianchi” (1988) di Marco Ferreri, si portano con loro nel furgone assieme ai viveri mentre raggiungono i poveri Tuareg durante la loro missione? La stessa violenza che trasuda dalle foto delle star hollywoodiane che si recano nei villaggi affamati dell’Africa strappando assegni.
Quello che manca, in questo sovraffollato calendario di giornate mondiali è un momento serio di riflessione sui problemi strutturali. La questione quindi, verte sul concetto stravecchio – che ci portiamo sulle spalle come Sisifo sin dal secolo dei Lumi – di “umanitarismo”, che alla dicotomia politica “amico/nemico” di Schmitt fa prevalere una pacificazione universale, simpatica in teoria ma surreale in una prassi lacerata dalle disuguaglianze economiche. Il XXI secolo porta con sé questa grande novità rispetto alle epoche precedenti: il Partito, prima soggetto politico di correzione e modificazione della società, è un contenitore obsoleto, sostituito da un nuovo e più performante attore sul panorama sociale: le Ong. Il militante è morto e adesso è arrivato il volontario. E rispetto all’incisività del momento politico sul mondo reale, quello “volontaristico” non fa altro che rivolgersi ad una dimensione emotiva e perciò stesso passeggera di chi dovrebbe agire sul pessimo ordine del mondo. Siamo affetti dalla sindrome di Platone: amiamo più le idee degli uomini. Una sindrome che, usando le parole di Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, possiamo riassumere così:
«Io amo l’umanità, però mi meraviglio di me stesso: tanto più amo l’umanità in generale, tanto meno amo i singoli uomini, presi separatamente, come persone distinte».
Di fatti nella realtà l’odio sociale divampa, le disuguaglianze crescono, i rapporti sono distrutti da un’anoressia sentimentale generalizzata, le relazioni si digitalizzano, il nostro vicino di casa è un estraneo. A che pro celebrare giornate di solidarietà universale a scadenze fisse sui temi più generici? Perché fare la giornata mondiale della pace se nessuno ci spiega i motivi della guerra? Perché la giornata mondiale contro l’obesità se le mense scolastiche stipulano le convenzioni con McDonald’s? Dobbiamo sempre diffidare, perciò, da chi parla di amore universale, da chi mette le idee prima degli uomini, perché spesso coincide con chi si arma per le guerre umanitarie.
«Chi parla di umanità vuol trarvi in inganno» diceva Pierre-Joseph Proudhon, e a lui fa eco Henry-David Thoreau, consapevole di quanto filantropia e misantropia non fossero solo fonicamente simili: «Se sapessi per certo che qualcuno sta venendo a casa mia col deliberato proposito di farmi del bene, scapperei a gambe levate». Questo cosmopolitismo sentimentale, questa comunione d’intenti astratti è una pura illusione, che va bene per quella élite che vede il mondo dal finestrino dell’aeroplano, che ha il salotto a Parigi, la cucina a Londra e il bagno in Italia. Per noialtri è solo la maschera della solitudine, un palliativo alla noia.
“La natura dell’uomo – dice Orestes Brownson – è quella di vivere grazie ad una comunione ininterrotta con gli altri uomini e con la natura, sotto le tre forme precise e definite della famiglia, della patria e della proprietà. Il suo destino, come a dire il disegno del suo Creatore nel costruirlo, non è quindi quello di porsi fisicamente e intellettualmente in comunione con tutti gli uomini e con tutti gli esseri dell’universo. Questo lo annichilirebbe in una solitudine vasta come il Sahara”.
E soprattutto cosa c’è di nuovo e di bello in questa pantomima? Non siamo forse di fronte ad un revival della morale debole cristiana? Non c’è ancora il sentore incensato di un dualismo da sagrestia: peccato/perdono, disinteresse/solidarietà? Questo nuovo calendario di giornate mondiali non sopprime forse quello dei Santi e vi mette al loro posto i suoi feticci? E ancora questa forma di pietà rivolta non più al vicino, ma al malato, al gay, all’immigrato universale, non è una forma di colpevolizzazione perenne dell’altro? Non è quel ressentiment di cui parlava Nietzsche tipico del pensiero debole? Ogni giorno chi è in salute, chi non ha fame, chi non è malato, chi ha un lavoro, un figlio, non è obeso, non è nero, gay, chi non è informato sullo stato di salute delle tartarughe e dei panda, deve mettere in moto la sua macchina emotiva e solidarizzare aprioristicamente, informarsi, diventare consapevole, fare una donazione, con la speranza di redimersi, ma con l’impotenza di non poter agire concretamente sulle sorti del mondo, sulle sorti del malato accanto a lui, sulle sorti del disoccupato, del nero reale. Ecco tutto. Ecco le indulgenze che dobbiamo pagare. L’umanitarismo è un’impotenza con la coscienza pulita. È la festa del pentimento. Dice Baudrillard:
«Persino la celebrazione e la commemorazione sono solo la forma soft del cannibalismo necrofilo, la forma omeopatica dell’assassinio tranquillo. È il lavoro degli eredi, il cui risentimento nei confronti del defunto è senza fine. I musei, i giubilei, i festival, le opere complete, i minimi frammenti inediti – tutte cose da cui risulta che stiamo entrando in un’era attiva di risentimento e di pentimento».
Inoltre questa forma di cristianesimo deprivato di “sacralità”, ha comunque reintrodotto tutta una serie di tabù inviolabili che mettono in crisi l’umorismo e la satira. Ora che tutti, uomini e animali, stanno diventando, per i motivi più vari, delle specie protette o dei patrimoni dell’Unesco, ora che c’è la giornata mondiale contro l’omofobia, anche l’innocuo “benvenuti a sti frocioni” di Lino Banfi in Fracchia la belva umana, darebbe scandalo.
Ed è per questo che dall’altro lato, i contenuti che spopolano sui social network, sono i contenuti più trash e maleducati, come se, nell’intimità dei pochi pollici del proprio smartphone, si volesse ritrovare un modo per sfogarsi, un luogo in cui poter pisciare en plein air, in cui poter ridere del dramma dell’esistenza senza essere giudicati, ritrovando quella dimensione caustica e cinica, anti-solidale, ma molto più comunitaria e aggregante, di cui abbiamo bisogno per campare. Un luogo in cui capovolgere l’ideologia della solidarietà, fregandosene dell’umanità e ridendo con il proprio vicino.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/inattuali/odio-le-giornate-mondiali/
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