Globalisti contro sovranisti. Un conflitto tutto interno alle classi dominanti (1a parte)
di SINISTRA RETE
Paolo di Lella intervista Stefano G. Azzarà.
Ancora sul fenomeno cosiddetto “populista”. Dopo le interviste, pubblicate sui numeri di dicembre e gennaio, a Fulvio Scaglione, Carlo Formenti, Marcello Foa e Giulietto Chiesa, questo mese, in esclusiva per i nostri lettori, affrontiamo lo stesso tema con Stefano Azzarà, docente di Filosofia moderna presso l’Università di Urbino e autore del volume “Democrazia cercasi”.
Paolo di Lella: Visto che lei è un marxista, inizierei dalla critica. Uno dei paradigmi interpretativi che si sta affermando nettamente, non solo tra i rappresentanti dell’establishment (lo ha dichiarato qualche settimana fa in un’intervista sul Corriere della Sera, il direttore del Wall Street Journal, Gerard Baker) ma anche tra molti compagni, riguardo alla reazione che sta montando in occidente contro chi ha governato la globalizzazione negli ultimi 20 anni, è quello secondo cui lo scontro fondamentale non è più fra destra e sinistra ma tra populisti e globalisti. Ecco, rispetto a questo, qual è la sua analisi?
Azzarà: Ritengo profondamente sbagliata, per non dire foriera di grandi pericoli, questa impostazione, che appare nuova ma che in realtà si è presentata più volte sulla scena politica e culturale non solo nel XX ma già nel XIX secolo. La vera differenza rispetto al passato è semmai che mentre prima queste tesi erano smentite nella pratica, oltre che nella teoria, oggi l’impotenza pressoché totale acquisita dalla sinistra lascia un campo totalmente aperto alle destre per un’operazione egemonica in grande stile. Un’operazione che sta già cambiando il modo di pensare delle generazioni più giovani e ha aperto una breccia anche a sinistra.
Come lei stesso fa notare, oltretutto, il fantomatico potenziale “antagonistico’* di questa impostazione, che individua la contraddizione fondamentale non più in quella capitale-lavoro ma nella coppia antagonistica universale/particolare (globale/nazionale; astratto/concreto; artificiale/storico), e per questo invita a superare categorie considerate obsolete, è immediatamente smentito dal fatto che la versione più influente di questa tesi – che io chiamo Mito Transpolitico e che ha molte sfaccettature e varianti – è appunto e in primo luogo la versione tecnocratica, ovvero quella neoliberale. Su questo terreno, si può dire, de Benoist e Dugin la pensano esattamente come Matteo Renzi e Mario Draghi, perché in effetti si tratta di due facce diverse di un’egemonia che è però tutta di destra. Siamo purtroppo in una situazione nella quale le idee delle classi dominanti occupano senza trovare resistenza tutto lo spettro ideologico e soddisfano perciò tutti i bisogni simbolici sociali. Tutto si riduce insomma a un confronto interno alle destre. La sinistra è letteralmente assente, come diceva un recente libro di Domenico Losurdo.
In realtà, destra e sinistra sono ancora categorie politiche irrinunciabili, senza le quali non è possibile comprendere il nostro tempo e il nostro mondo. Esse vengono ridefinite dalla storia, come ogni cosa umana, ma non è possibile prescinderne per l’interpretazione della realtà. L’equivoco di fondo, che è presente in primo luogo in un autore al quale sono stato assai legato sul piano culturale come Costanzo Preve – un autore che però non si è mantenuto fino in fondo all’altezza di quanto aveva prodotto negli anni Novanta e ha finito per generare anche una “destra previana”, oltre che una “sinistra previana” – è tutto di natura nominalistica. Si tende cioè a identificare la sinistra con ciò che si autodefinisce tale o che tale viene definito dal sistema dei media. E di conseguenza si denuncia la presenza di un’egemonia culturale della sinistra che farebbe da accompagnamento universalistico, dirittumanista e libertario all’avanzata di un capitalismo finanziario globale e disgregante.
In realtà, proprio per criticare la sinistra ufficiale – nelle sue varianti idealtipiche della sinistra imperiale e di quella postmoderna – e per mostrarne le gravi responsabilità, noi siamo costretti sistematicamente a fare riferimento a queste categorie presunte obsolete e a dire che essa ha fatto proprio il programma della destra. A denunciare anzi come essa si sia fatta destra pur mantenendo il nome di sinistra e conservando questa collocazione convenzionale nella rappresentazione dei sistemi politici. Bisogna ancora spiegare le profonde e complicate ragioni storiche per cui questo è avvenuto, ovviamente. E però non si capisce nulla di quanto è accaduto negli ultimi decenni se non si coglie il gigantesco slittamento a destra che ha traslato l’intero quadro politico: questo slittamento è infatti l’esito di una gigantesca sconfitta delle classi subalterne nell’ambito del conflitto politico-sociale all’interno delle nazioni come su scala globale. Affermare che destra e sinistra non esistono più significa esattamente rimuovere sia la sconfitta, sia – ancor prima – l’esistenza stessa del conflitto. Giudicare il conflitto di classe insussistente mi sembra un modo veramente super partes per dimostrare l’obsolescenza di destra e sinistra…
Va allora ribadito che rimangono pienamente operative la destra come la sinistra ma che queste categorie vanno profondamente ridefinite. Come dicevo prima, infatti, la destra occupa oggi nelle sue diverse forme pressoché tutto lo spettro politico mentre la sinistra vera e propria, quella che è tale non solo nella nomenclatura ma anche sul piano programmatico e storico, si è ridotta ai minimi termini, oltre ad essere assai confusa.
Per come la penso io, dalla fase giacobina della Rivoluzione francese in avanti la sinistra dovrebbe essere il partito dell’emancipazione e del progresso integrali, che guarda a un universalismo pieno e compiuto, capace di riconoscere le differenze. In questo senso, la sinistra è anzitutto il partito della mediazione e della totalità (linea Hegel-Marx). La destra nelle sue diverse forme – e questo ne spiega anche il facile successo popolare – è invece il partito dell’immediatezza e della parzialità, ovvero il partito del particolarismo. La contrapposizione tra populismo e globalismo, se affrontata da questo punto di vista, è del tutto formale e incapace di spiegare la realtà. Bisognerebbe entrare nel merito e qui manca lo spazio E però già ad un approccio superficiale è del tutto evidente che vengono oggi rivendicati sia un “populismo” di sinistra (kirchnerismo, Podemos, Syriza ) che uno di destra (Trump, Le Pen); così come vengono rivendicati sia un “globalismo” di sinistra (sinistra liberale) che uno di destra (tecnocrazia) Ma in questo modo non abbiamo fatto un solo passo avanti, perché si tratta appunto di andare oltre il formalismo per guardare la sostanza delle cose.
Personalmente, allora, distinguo tra un processo di “mondializzazione” che accompagna tutta l’età moderna e lo sviluppo del modo di produzione capitalistico e che, attraverso innumerevoli contraddizioni, si è intrecciato al processo di costruzione del genere umano, da un processo di ‘globalizzazione” che costituisce invece la versione distorta del primo processo, conseguenza dell’affermazione dell’imperialismo statunitense. La globalizzazione di marca americana, che rimonta al progetto wilsoniano e poi a Bretton Woods, era in realtà non un fenomeno naturale o endogeno allo sviluppo tecnologico ma nient’altro che il progetto di costruzione dell’egemonia statunitense nel XXI secolo. Questo processo ha inevitabilmente generato spinte e controspinte, perché mai nella storia chi ha scatenato energie immani ha poi potuto controllare tutta la catena di cause e concause. La crisi economica è ad esempio un inciampo imprevisto di questo progetto. Ma lo è anche il risveglio di alcune aree geopolitiche, penso anzitutto alla Cina, che hanno saputo cavalcare le contraddizioni della globalizzazione americana per installarvi un proprio autonomo piano di modernizzazione.
L’emergere dell’ex Terzo Mondo colonizzato inevitabilmente ha ridotto la “torta” a disposizione per l’Occidente Ma questa torta non si è ridotta in maniera proporzionale per tutti. Gli USA ne ricevono comunque una porzione maggiore e anche in Europa, come è noto, ci sono forti squilibri tra gli Stati. AH’intemo di ciascuna nazione, poi, è chiaro che le classi dominanti scaricano il più possibile su quelle subalterne la necessità di fare posto a tavola anche ad altri Paesi che prima erano esclusivamente dominati.
Chi respinge tout court la “globalizzazione” con una negazione indeterminata, allora, respinge non solo i suoi effetti negativi come la concorrenza crescente e l’impauperimento di massa ma anche quelli positivi, anche la “mondializzazione”, anche la costruzione del genere. Rimuovendo tra l’altro il ruolo delle classi dominanti all’Interno degli Stati nazionali: in nome di una comunità compatta e organica che non esiste da nessuna parte, respinge in realtà un grandioso processo rivoluzionario che riguarda il mondo ex coloniale. In maniera reciproca, chi esalta la “globalizzazione” in maniera acritica, senza fare distinzioni, fiancheggia di fatto l’imperialismo statunitense e i vari sub-imperialismi regionali.
Si tratta perciò, come in ogni processo, di sviluppare un’analisi concreta della situazione concreta. E di capire, come ha spiegato assai bene di recente Xi Jinping a Davos, che il processo di mondializzazione non è univoco ma è un campo di forze. Un campo nel quale, semmai, dobbiamo aiutare a prevalere le forze favorevoli allo sviluppo di una forma di democrazia internazionale e di un commercio più equo. L’arresto della globalizzazione non eliminerà lo sfruttamento di classe. Al contrario, l’affermazione di ideologie organicistiche, che nascondono dietro l’idea di popolo quella che è una guerra ferocissima interna alle classi dominanti, in parte favorite e in parte svantaggiate dalla globalizzazione – come negli anni Venti e Trenta del Novecento l’industria leggera era favorevole al libero scambio e quella pesante al protezionismo – ne renderà ancora più difficile la critica.
Dunque, la vittoria di Trump negli USA non è affatto uno schiaffo alle élite dominanti, semmai dimostra – come direbbe Christian Lavai – la capacità di queste ultime di recuperare l’opposizione… Si tratta, in definitiva di uno scontro interno al fronte neo-liberale, giusto?
Non ho alcun dubbio su questo punto. Il fascino che Trump esercita a sinistra è il sintomo della compensazione di un’insormontabile impotenza, oltre che il sintomo di una confusione a causa della quale abbiamo dimenticato anche l’ABC della politica. La crisi economica impoverisce i ceti medi, i quali ad un certo punto hanno revocato il mandato che dopo la Seconda guerra mondiale avevano conferito alla grande borghesia a patto che questa tutelasse in parte anche loro. Ecco che le élites dominanti sul terreno economico, politico ma anche culturale e ideologico (banche, corporations, “caste” politiche, grandi giornali e tv, cordate universitarie), si sono trovate improvvisamente delegittimate dallo scioglimento di un intero blocco sociale.
La piccola borghesia pretenderebbe ora di fare da sé, di salvarsi da sé, e genera movimenti populistici. Ma ovviamente non ne è capace, perché è per definizione priva di autonomia, di forza di direzione e di un ceto intellettuale. Essa diventa perciò preda di una contesa furibonda dentro le classi dominanti. Nelle quali le vecchie cordate “stabilite” che avevano approfittato della globalizzazione americana devono subire l’assalto di nuove cordate “outsider”, che non sono state capaci di cavalcarla fino in fondo. E che si ergono adesso a improbabili rappresentanti della piccola borghesia offesa e degli strati più poveri (essi stessi totalmente privi di autonomia e consapevolezza). E ne sfruttano perciò le energie di mobilitazione. Si tratta di un normalissimo fenomeno di circolazione delle élites interno alle classi dominanti, con gli ovvi corollari della cooptazione di élites emergenti provenienti da altri strati sociali.
Il fatto che Trump sia – a parole – più attento ai bisogni sociali e ai ceti disagiati non è affatto una novità, sotto questo aspetto, ma rientra nella tradizione del liberal-conservatorismo compassionevole. Anche l’atteggiamento della nuova amministrazione statunitense verso lo Stato – visto che molti a sinistra si eccitano solo a sentire questa parola tanto quanto altri, di tendenza anarcoide, se ne adontano – non è chissà quale grande sconvolgimento. Il liberalismo sa modulare pragmaticamente l’intervento statale secondo le esigenze di fase dei propri stakeholders. Non è affatto vero che liberalismo è sempre stato sinonimo di laissez-faire e di non intervento statale. Intanto, anche il non intervento è un intervento al contrario, se messo in relazione alle forze del mercato. In secondo luogo, infinite volte i liberali hanno sviluppato politiche interveniste. L’intervento statale è certamente importante ma anche questa categoria è formalistica: si tratta di vedere che tipo di intervento e in quale direzione si muove.
Anche sul piano della politica estera, mi pare che molti a sinistra stiano prendendo lucciole per lanterne. “America First“, lo slogan principale del discorso di insediamento di Trump, è una diversa formula per ribadire il primato e l’eccezionalismo americano, il Manifest Destiny. Il quale può essere perseguito tramite una strategia egemonica e il soft power, associato a un’ideologia pseudo-universalistica che sfrutta la retorica della democrazia sovranazionale, dei diritti umani, ecc. ecc. Ma che può essere perseguito anche tramite strategie diverse, nelle quali la rinuncia alla retorica universalistica in nome di un esplicito approccio particolaristico non comporta minori pericoli per la pace nel mondo e per la giustizia internazionale.
Leggo ad esempio che molti sono impressionati dalle “confessioni” di Trump e vi leggono l’avvio di un processo di revisione della storia degli Stati Uniti, i quali ammetterebbero finalmente le loro colpe imperialiste per voltare pagina. Mi spiace per chi crede alle favole ma non è affatto così. Nell’ideologia dominante, il crimine colonialista viene di solito imbellettato con fiumi di retorica al fine di apparire sempre e comunque buoni (universalismo, Wilson, Fukuyama); ma in determinate fasi storiche lo stesso crimine può essere rivendicato in maniera cinica e sprezzante (particolarismo, Spengler, Huntington) Noi siamo esattamente in una di queste fasi.
Certamente molti a sinistra sono rimasti impressionati dalla simpatia di Trump verso la Russia di Putin, come se la Russia di Putin fosse l’URSS. Abbiamo qui una dimostrazione di quanta confusione e frustrazione ci siano in giro: la politica è ridotta a tifo e, privi di un progetto autonomo e sensato, non siamo più in grado di guardare dialetticamente la realtà senza identificarci con questo o con quel campione, senza distinguere ciò che è positivo da ciò che è negativo. Personalmente ritengo che la Russia svolga un positivo ruolo geopolitico e che sia un pilastro imprescindibile di un futuribile ordine multipolare e della pace nel mondo. Tuttavia, pur essendomi trovato il più delle volte dalla parte di Putin, non ci penso minimamente a identificarmi con lui e lo sostengo solo nella misura in cui le sue scelte vanno nella direzione di un programma oggettivamente progressista.
La cosa più importante è però questa. Trump non mette in discussione la globalizzazione nella misura in cui coincide con il progetto imperialista americano per il XXI secolo. Prende semplicemente atto delle sue defaillances, dei contraccolpi indesiderati, e la ridefinisce su basi bilaterali al fine di rafforzarla in chiave americana. In particolare, intende porre rimedio ad alcune spiacevoli conseguenze della diffusione degli accordi commerciali e cioè, come si diceva prima, all’ascesa della Cina e di alcuni altri paesi. Consapevole del rischio di overstretching del proprio Impero (Paul Kennedy), Trump vuole fare la pace a Est per fare la guerra a Ovest, o viceversa a seconda del punto di vista geografico. Vuole cioè congelare i conflitti con la Russia per aprire il vero fronte, quello contro la Cina, il vero avversario strategico del XXI secolo.
Voglio vederli, i populisti italiani “oltre destra e sinistra” che sono convinti di controllare ora il Cremlino come la Casa Bianca, cosa faranno quando le frizioni con la Cina diventeranno più calde. È facile auspicare un asse eurasiatico o pan-populista con i russi, che sono bianchi. Voglio proprio vederli mantenere lo stesso equilibrio e la stessa voglia di multipolarismo quando i nemici dell’Occidente diventeranno i musi gialli, ovvero i sottouomini asiatici già massacrati al tempo del colonialismo europeo in Cina, i quali oltretutto si schierano oggi per il libero commercio. Per fortuna, come attesta la telefonata a Xi a proposito del principio “Una sola Cina”, Trump sembra aver trovato consiglieri più saggi e realisti di quanto lui stesso non sia.
In sintesi, non ci vuole molto a capire che Trump si sta semplicemente sbarazzando di ogni artificio morale e che critica la Nato perchè vuole mano ancor più libera e pretende che gli alleati ci mettano più soldi. Cosi come non ci vuole molto per capire che Marine Le Pen attacca la UE per ragioni molto diverse da quelle che sono sempre state e dovrebbero ancora essere le preoccupazioni della sinistra. Il problema non è allora, come si sente dire, che una cosa rimane valida anche se a dirla è uno di destra: il problema è che si possono volere cose apparentemente simili per ragioni molto diverse e che le ragioni per cui si vuole una cosa non sono secondarie. Non è che per andare contro “sinistra” neoliberale o postmoderna uno è costretto a diventare di destra: è sufficiente ragionare in maniera dialettica e non binaria e rimanere coerentemente di sinistra.
Do per scontato che in queste condizioni ogni ipotesi di “Fronte Ampio”, praticabile in teoria durante le fasi di ascesa e quando il movimento cresce, significhi consegnarsi mani e piedi a queste destre, che sono largamente egemoni. E vada respinta perché è un suicidio deliberato. Lo dico pensando a chi lancia campagne per l’uscita dall’UE o dalla Nato pensando di fare propaganda all’assemblea nazionale della Lega Nord, o pescando nel bacino dei sovranisti.
Un articolo del tutto illogico. Da una parte l’Azzarà riconosce l’impotenza della sinistra e il trionfo della destra; questo significa: oggi non c’è più contrasto destra-sinistra per estinzione della sinistra, dunque destra e sinistra sono categorie senza più rilevanza politica. Azzarà non riesce a capirlo e da questo errore è indotto a un secondo errore: negare che in quella che gli sembra la destra trionfante ci sia contrasto – ma così diventa incapace di leggere l’attuale scontro politico tra oligarchia globalista e resto delle società. Restando schiavo della propaganda globalista da cui si vorrebbe indenne, Azzarà parla di uno scontro tra globalismo e POPULISMO; è un grave errore: lo scontro è tra globalismo e SOVRANISMO. E su questo terreno la sinistra, che per faziosità egli interpreta come una categoria eterna, è un ferrovecchio. Abbiamo scoperto che sul piano politico l’eliminazione dello Stato comporta la fine della democrazia e il passaggio di ogni potere alle oligarchie economiche e finanziarie; che sul piano economico comporta la rovina della classe operaia e del ceto medio messi in concorrenza con la manodopera a costo minimo dei paesi poveri. La domanda è dunque: sono possibili democrazia e dignità dei lavoratori senza sovranità politica ed economica degli Stati? Com’è posta la sinistra eterna rispetto alla questione della sovranità? Sa dare una risposta politicamente efficace? No, perché essa ha sempre concepito lo Stato come mero strumento delle classi dominanti, perché gli ha negato ogni universalismo. Così quando le oligarchie liquidavano l’economia mista la sinistra tutta intera ha dato una mano. Proprio questo antico errore continua ad operare in Azzarà quando appiattisce il contrasto odierno, anziché a quello tra falso universalismo globalista e universalismo autentico dello Stato, a quello tra universalismo e particolarismo. L’errore è letale dal punto di vista politico, perché rende difficile quella coalizione sovranista che sola può battere le oligarchie globali.