Casa Bianca sotto assedio. Tutto quello che c’è da sapere
di LOOKOUT NEWS (Alfredo Mantici)
Le accuse al presidente, il rischio impeachment, il ruolo della Russia, la campagna mediatica sospetta, il ruolo dell’FBI. Il maggio di fuoco di Donald Trump
Ormai gli avvenimenti si susseguono a un ritmo frenetico. La Casa Bianca di Donald Trump comincia a tremare seriamente sotto i colpi di una campagna mediatica basata su informazioni fatte trapelare con cura dagli ambienti più sensibili di un’amministrazione che, lungi dal servire il presidente, sta facendo di tutto per affossarlo.
Lo schema è semplice: una fonte che preferisce «mantenere l’anonimato» contatta un cronista del New York Times o del Washington Post (i due giornali vengono riforniti di notizie riservate a giorni alterni, con equilibrio rigoroso) e lo aggiorna su tutti i retroscena segreti dell’attività di Trump e dei suoi collaboratori.
In poche ore, la notizia viene amplificata in modo martellante dalla CNN e, di riflesso, dai media di tutto il mondo. Appena l’eco della prima rivelazione accenna a calmarsi e magari ad attenuarsi sotto il profilo politico, no problem: arriva la seconda ondata di notizie riservate, i “leaks” che stanno corrodendo le fondamenta della presidenza degli Stati Uniti.
Il “caso Lavrov”
Ripercorriamo gli ultimi giorni. Il 15 maggio, il Washington Post pubblica la notizia “bomba” sulla presunta rivelazione d’informazioni top secret da parte di Donald Trump alla Russia, durante l’incontro con il ministro degli Esteri Serghiei Lavrov e con l’ambasciatore di Mosca a Washington, Serghiei Kisliak.
In particolare, il presidente avrebbe bruciato una fonte del Mossad israeliano parlando con Lavrov della sicurezza aerea messa a repentaglio dall’intenzione dell’ISIS di utilizzare computer portatili per collocare ordigni miniaturizzati a bordo di aerei di linea. La notizia suscita un coro assordante di reazioni giornalistiche e un fiume di riflessioni preoccupate sul fatto che il presidente possa aver messo in pericolo la sicurezza degli Stati Uniti, rivelando a una potenza “nemica” informazioni segrete.
(L’incontro tra Trump, Lavrov e Kisliak alla Casa Bianca)
S’ipotizza che, per colpa di Trump, i servizi segreti alleati dell’intelligence americana cesseranno di collaborare con gli Stati Uniti nella lotta anti-terrorismo. Mentre il Cremlino liquida lo scoop come un insieme di «sciocchezze senza senso», Israele e la Gran Bretagna deludono le aspettative di chi era certo della fine della collaborazione informativa con gli Stati Uniti, quando sia Benjamin Netanyhau che Theresa May si affrettano a dichiarare che i legami tra i rispettivi servizi e quelli di Washington restano saldi.
Dopo ventiquattrore di riflessione e polemiche velenose, si scopre che Trump, anche se avesse rivelato segreti a Lavrov, non avrebbe commesso alcun reato in quanto secondo la costituzione degli Stati Uniti egli è il «comandante in capo» e, come tale, detiene il diritto di usare le informazioni segrete secondo il suo insindacabile giudizio.
Con mossa ironica, Vladimir Putin il 17 maggio – durante la conferenza stampa congiunta con il premier italiano Gentiloni a margine dell’incontro bilaterale Italia-Russia di Sochi – comunica ai giornalisti di essere disposto a fornire al Congresso copia dei verbali dell’incontro tra Lavrov e Trump da cui si potrebbe chiaramente evincere, a suo parere, che il presidente americano non ha rivelato alcun segreto.
Il “caso Comey”
Mentre le polemiche sul “caso Lavrov” cominciano a perdere mordente, il fuoco viene sapientemente ravvivato il 16 maggio. Questa volta, per par condicio, le fonti anonime si rivolgono al New York Times. Alcuni stretti collaboratori di James Comey – l’ex direttore dell’FBI silurato da Trump agli inizi di maggio – rivelano (sempre anonimamente) che dalla lettura di un memorandum steso dall’ex direttore ai primi di febbraio dopo un incontro con Trump alla Casa Bianca, si evince che il presidente avrebbe tentato di «ostruire il corso della giustizia» facendo pressioni sull’FBI affinché interrompesse le indagini sui possibili contatti con la Russia del suo ex consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Flynn.
(Michael Flynn, ex consigliere per la sicurezza nazionale)
In realtà, stando a quanto riportato dalle stesse fonti anonime dell’FBI, Trump avrebbe espresso solo «la speranza» che il direttore lasciasse «cadere la cosa» («I hope you can let this go») in quanto Flynn era «un brav’uomo». Questa battuta è stata generalmente interpretata da commentatori e parlamentari democratici come espressione di un comportamento criminale da parte di un presidente che, avendo tentato di ostacolare la giustizia, deve essere messo sotto procedura di impeachment e rispedito rapidamente nella Trump Tower di New York, dopo aver vinto in modo costituzionalmente legittimo le elezioni dell’8 novembre 2016.
(L’ex direttore dell’FBI James Comey)
Le parole riportate dalle fonti anonime e rilanciate con clamore dal New York Times contraddicono però quelle dell’attuale direttore facente funzioni dell’FBI, Andrew Mc Cabe, che solo una settimana fa, deponendo sotto giuramento di fronte a una commissione parlamentare, ha dichiarato in riferimento all’indagine sui possibili rapporti tra membri dell’amministrazione e diplomatici di Mosca, che «non c’è stato alcun tentativo, fino a questo momento, di ostacolare la nostra inchiesta. Per dirla in modo semplice, non c’è modo di bloccare il lavoro degli uomini e delle donne dell’FBI in difesa della Costituzione degli Stati Uniti».
La questione “impeachment”
Una dichiarazione ufficiale fatta sotto giuramento che, tuttavia, è immediatamente sparita sotto il tappeto dei media di fronte alle peraltro datate (perché risalenti allo scorso febbraio) «rivelazioni» degli anonimi agenti dell’FBI. Nonostante questo, sulla stampa liberal si sono fatti subito paragoni con il caso Watergate, trascurando il fatto che Richard Nixon nel 1972 si rese realmente responsabile di un «comportamento criminale» quando autorizzò un gruppo di esiliati cubani al comando di un ex agente della CIA a penetrare illegalmente nei locali dell’albergo che ha poi dato il nome alla scandalo, dov’era il comitato elettorale democratico, per piazzare delle microspie.
Ora, di fronte a questo e agli altri reati compiuti dall’allora presidente Nixon, costretto nel 1974 alle dimissioni dopo una serie d’inchieste penali e congressuali che avrebbero portato inevitabilmente al suo impeachment, le accuse a Trump (che, comunque, tra gaffe e tweet fa di tutto per farsi del male da solo) appaiono assolutamente veniali. Eppure, quella metà dell’America che non riesce ad accettare il risultato delle elezioni di novembre, grazie anche a una campagna stampa alimentata dal sabotaggio, spinge verso una fine anticipata della presidenza Trump costi quel che costi.
(L’ex direttore dell’FBI Robert Mueller, incaricato di investigare sul Russiagate)
Si potrebbe dire che la situazione è “grave ma non seria”, se non fosse che i costi si cominciano a sentire visto che per la prima volta dall’insediamento della nuova amministrazione, Wall Street registra una brusca caduta che ha trascinato il dollaro ai minimi. Secondo gli analisti finanziari, la sfiducia degli investitori non è collegata tanto alle rivelazioni e agli scoop contro Trump, quanto alla sensazione che il presidente, messo sotto pressione dalla stampa e dal Congresso grazie alle manovre di membri infedeli delle istituzioni, possa non essere in condizione di fare le riforme economiche promesse.
Intanto, il vice ministro della Giustizia, Rod J. Rothenstein, ha annunciato la nomina dell’ex direttore dell’FBI Robert Mueller alla carica di Procuratore Speciale, e lo ha incaricato di investigare sul Russiagate. Una buona notizia che forse rimetterà l’inchiesta nelle mani giuste, togliendola all’azione esclusiva dei media, decisi a dimostrare il loro potere abbattendo un presidente regolarmente eletto, con l’aiuto costante di talpe che stanno corrodendo le basi della democrazia americana.
Fonte: http://www.lookoutnews.it/trump-russiagate-cose-da-sapere/
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