La Francia ha scelto il suo Matteo Renzi (e già sappiamo che fine farà)
di FEDERICO DEZZANI
Il secondo turno delle presidenziali francesi non ha regalato l’attesa rivoluzione politica: con il 66% delle preferenze, l’ex-banchiere Rothschild, Emmanuel Macron, ha conquistato l’Eliseo. Alla base della sconfitta di Marine Le Pen c’è un’affluenza che, sebbene in calo, è rimasta comunque sopra il 75% e, soprattutto, la tenuta del “fronte repubblicano” in ossequio alle vecchie logiche della Quinta Repubblica. Con il 39enne Emmmanuel Macron, rottamatore, liberale, europeista, la Francia rivive la stessa esperienza politica che l’Italia ha sperimentato con Matteo Renzi: il tentativo di somministrare dosi di liberismo/austerità ad un’economia stagnante, ucciderà politicamente “l’ultima speranza delle élite francesi” in un triennio scarso. Sempre che il contesto economico non travolga lui, e la moneta unica, molto prima.
Il vecchio “fronte repubblicano” ha regalato la vittoria alla banca Rothschild
La dissoluzione dell’Unione Europea è come un pendolo che oscilla tra due estremità: la fine politica ed il collasso economico. Subentrato il settimo di eurocrisi, erano elevate le probabilità che il pendolo avesse acquisito sufficiente slancio per toccare un estremità, quella politica, grazie alla marea montante dei populismi. Il pendolo, però, si è fermato a pochi centimetri dalla meta ed ora ha ripreso a viaggiare verso la disgregazione della UE per cause economiche/finanziarie. Il potenziale rivoluzionario del 2017, la sua capacità di imprimere una frattura definitiva agli assetti occidentali consolidatisi negli ultimi 70 anni, era in gran parte legato all’esito delle presidenziali francesi: sfumata quest’occasione, non resta che affidarsi all’inevitabile deflagrazione dell’eurozona che seguirà ad un rialzo dei tassi della BCE (2018-2019?), ad una recessione globale (già in nuce1), o all’acuirsi della crisi economica/politica/sociale in Italia.
Il secondo turno delle presidenziali francesi non ha, infatti, regalato l’esito sorprendente che, sebbene statisticamente improbabile, era matematicamente possibile: la candidata anti-europeista Marine Le Pen ha perso il ballottaggio del 7 maggio ed è stata sconfitta dal “centrista” Emmanuel Macron in maniera chiara ed inequivocabile, incassando un secco 34-66%. Si può tranquillamente affermare che le ragioni dell’insuccesso lepenista siano le stesse per cui il nostro scenario (affluenza al 67% e vittoria del FN col 51%) è andato in fumo: il vecchio “fronte repubblicano”, l’unione di tutti i partiti per sbarrare la strada alla destra, ha retto ancora una volta, prendendo il sopravvento sull’impostazione “sovranismo versus mondialismo”, “nazione versus élite globalista”, “classe media versus 1%”, che Marine Le Pen ha adottato con buoni risultati (ha pur sempre raddoppiato i voti raccolti dal padre nel 2002), senza però sfondare.
L’astensione tra il primo ed il secondo turno è scesa solo marginalmente, pur toccando il record dal 1969 (dal 77% al 75%), e molti elettori che al primo turno si erano espressi per il centro-destra di François Fillon e la “France insoumise” del populista rosso Jean-Luc Mélenchon hanno raccolto l’appello al “barrage républicain”, votando Macron oppure scheda bianca (12%, record assoluto). Pochissimi hanno rotto gli schemi, affidandosi al Front National. Stabilire con esattezza come sia avvenuto il “travaso” di voti è impossibile, ma è ipotizzabile che solo il 15% dei voti di Fillon sia andato al FN e nessuno sia provenuto da Mélenchon, i cui elettori hanno quasi certamente preferito ripiegare sulla scheda bianca (presumibilmente con una percentuale del 35%). Il FN ha così incamerato solo i voti del sovranista Nicolas Dupont-Aignan ed una manciata di voti in uscita dal centro-destra: troppo poco per lambire anche soltanto la soglia del 40%.
Il datato, ma sempre funzionante, “fronte repubblicano”, la cui tenuta è stata sottostimata sia da noi che probabilmente dalla stessa Le Pen, è stato quindi abilmente sfruttato all’oligarchia finanziaria per raggiungere il proprio obiettivo: superato lo scoglio del primo turno, è stato facile espugnare l’Eliseo appellandosi alla classica “minaccia fascista” rappresentata dal FN. La parte complessa dell’operazione è stata conquistare il ballottaggio del 7 maggio ed ha richiesto, non a caso, il maggior sforzo:
- si è obbligato François Hollande a non presentarsi per un secondo mandato;
- si è frantumata la sinistra (che unita avrebbe conquistato il secondo turno), scindendola tra socialisti di Hamon e “France Insoumise” di Mélenchon;
- si è lanciato il partito “En Marche!”, scegliendo come candidato Emmanuel Macron, 39enne ex-banchiere Rothschild, già ministro socialista dell’economia sotto la presidenza Hollande. La neonata formazione si è affermata nel volgere di pochi mesi (novembre 2016-aprile 2017), grazie alla martellante opera dei media francesi e della politica internazionale, nonché all’illimitata disponibilità di risorse finanziarie;
- si è affossato il principale ostacolo che separava Macron dal ballottaggio con il FN, il candidato repubblicano François Fillon, con uno spietato scandalo mediatico-giudiziario;
- si è lambita Marine Le Pen con le inchieste della magistratura, così da indebolirla ma da consentirle comunque l’accesso al ballottaggio: ad attenderla c’era, infatti, il candidato della banca Rothschild ed il “fronte repubblicano” pronto a scattare come una tagliola.
Emmanuel Macron è stato però cosi fulmineo nella sua avanzata da lasciarsi alle spalle pericolosi vuoti, primo tra tutti il radicamento quasi nullo del partito “En Marche!” sul territorio: è quindi probabile che le imminenti elezioni legislative obbligheranno il candidato “centrista” ad imbarcare spezzoni del partito socialista e del centro-destra per formare l’esecutivo, creando così un’inusuale Grande Coalizione in un sistema, quello francese, concepito per ruotare attorno all’Eliseo come in una monarchia. È l’ennesimo sintomo di un’architettura politica che, dopo le disastrose esperienze di Nicolas Sarkozy e François Hollande, si sta velocemente deteriorando, divorata da un lenta ma costante azione delle forze centrifughe e della crisi economica. Si noti come, su un corpo elettorale di 47 milioni di persone, Macron ha raccolto al ballottaggio 19 milioni di voti: solo quattro aventi diritto su dieci, hanno scelto al ballottaggio di affidarsi al nuovo presidente della Repubblica.
Ma è soprattutto il compito affidato a Macron dall’oligarchia euro-atlantica a lasciare presagire una veloce “rottura dell’incantesimo”: il più giovane presidente della V Repubblica, il suo sorriso accattivante, il “nuovismo” del partito, la retorica à la Tony Blair o à la Barack Obama, non sono altro che zucchero per addolcire l’amara pillola delle “riforme strutturali”. Sono le politiche neoliberiste di cui l’Esagono ha disperatamente bisogno per svalutare il costo del lavoro e deprimere i consumi interni, così da rimanere agganciato al regime a cambi fisso detto “euro”. La Francia ereditata da Macron è la stessa, infatti, che ha visto il debito pubblico esplodere a partire dall’introduzione dell’euro (supererà il 100% del PIL sotto il primo anno della nuova presidenza), la bilancia commerciale sprofondare in un cronico disavanzo, la disoccupazione raggiungere la cifra record di sei milioni di persone. I primi tentativi di somministrare un po’ di “liberismo” alla società francese (vedi legge El-Khromi) sfociarono in prolungate ed accese tensioni sociali, soffocate dall’establishment ricorrendo alla classica strategia della tensione a base di bombe ed attentati. È facilmente prevedibile che gli “sforzi riformatori” di Macron (contratti aziendali, tagli del personale pubblico, austerità di bilancio, giro di vite sulle pensioni, etc. etc.) si tradurranno in analoghe proteste, allungando parallelamente la lunga scia degli “attentati islamici”.
Riuscirà l’ex-Rothschild nell’immane impresa di “modernizzare” la Francia secondo i criteri della Troikaoppure, come il suo predecessore François Hollande, è destinato a sprofondare nei consensi entro la fine del terzo anno di presidenza? Stimare in 1.000 giorni il lasso di tempo necessario perché Macron bruci tutto il suo capitale politico sembrerebbe ragionevole: è la stessa durata politica di un l’altro enfant prodige cullato dall’oligarchia euro-atlantica. Matteo Renzi.
Perché è Macron che deve guardare a Renzi e non l’opposto…
Durante la campagna elettorale francese e nelle ore successiva alla vittoria di Emmanuel Macron, i media nostrani hanno tessuto paragoni, molto innocenti, tra il candidato di “En Marche!” e l’ex-premier Matteo Renzi. Utilizziamo l’aggettivo “innocente” perché, ovviamente, ci si è guardati dall’evidenziare le incredibili analogie tra le carriere di due 39enni che, con stucchevole celerità, hanno scalato (o addirittura fondato) un partito, per poi essere catapultati nella stanza dei bottoni saltando a piè pari il classico cursus honomurumdella politica. Entrambi sponsorizzati da una grande banca d’affari (la Rothschild per Macron e la JP Morgan per Renzi), entrambi aiutati da scandali giudiziari (il Penelopegate che affossa Fillon e “l’affare stadio” che spiana la strada di Renzi verso il Comune di Firenze), entrambi benedetti da Washington e dal “luogotenente” Angela Merkel, entrambi incensati dal milieu intellettuale-mediatico, entrambi aiutati dalla “fortuna” nella loro conquista del potere (la scissione tra socialisti e France Insoumise nel caso Macron, la defenestrazione tutta extra-parlamentare di Enrico Letta nel caso di Renzi).
No, non era interesse dei media soffermarsi su questi curiosi, ma scomodi, particolari: la loro volontà è era piuttosto evidenziare come entrambi incarnino il rinnovamento, la modernità, l’europeismo, l’apertura agli ideali liberali. Soprattutto, si è tentato in Italia di sfruttare la vittoria di Emmanuel Macron per rilanciare Renzi, quasi che l’ex-premier potesse ricevere in dono dal nuovo inquilino dell’Eliseo una seconda vita politica. L’Espresso di Carlo De Debenetti è arrivato addirittura a scrivere lo scorso 5 aprile: “La nuova sfida di Renzi: diventare Macron. L’ex premier guarda al candidato centrista francese. Perché una sua vittoria avrebbe effetti anche in Italia. E gli lancerebbe la volata verso la riconquista di partito e governo2”. Viviamo, si sa, un’epoca in cui cadono le illusioni sulla democraticità delle nostre istituzioni, un’epoca di massiccia e costante guerra psicologica, un’epoca in cui la razionalità è una merce sempre più rara. Sono tempi in cui si potrebbe leggere sul giornale: “la nuova sfida della frittata: diventare uovo”.
Già. Non c’è alcun dubbio che la narrazione dei media su Macron e Renzi sia deliberatamente invertita dal punto di vista cronologico. Non è l’ex-premier italiano che può diventare Macron (perché il momento magico che quest’ultimo ora vive, Renzi lo ebbe nella lontana primavera del 2014), quanto piuttosto è il nuovo presidente francese ad essere probabilmente ossessionato dal triste epilogo dell’ex-presidente del Consiglio. L’Italia, infatti, si colloca rispetto alla Francia un passo in avanti in termini di crisi economica/politica: l’esperienza del giovane “rottamatore” appartiene non al nostro presente, ma al nostro passato, ed è stata brutalmente archiviata il 4 dicembre scorso con la bocciatura del referendum costituzionale.
Sono bastati mille giorni (Job Acts, privatizzazioni, inasprimenti fiscali, immigrazione incontrollata, disoccupazione a due cifre, stagnazione economica) perché l’indice di gradimento di Renzi scivolasse sotto il 30% e gli italiani decidessero di sbarazzarsi di lui, ricordando l’infausta promessa “se perdo il referendum, lascio la politica3”. Constata l’identità tra l’agenda di Renzi e quella di Macron, è facile prevedere che lo stesso tempo sia sufficiente per annichilire politicamente l’ex-Rothschild: data la maggiore dose di “mercato” che Macron deve introdurre in Francia, l’assenza di un saldo partito di riferimento e la bellicosità della società francese, è addirittura ipotizzabile che l’enfant prodige della politica francese entri in crisi addirittura nel secondo anno di presidenza.
Il Financial Times a suo tempo descrisse Renzi come “the last hope for the italian élite”: noi possiamo senza alcun indugio descrivere Macron come “l’ultima speranza dell’establishment francese”. Dopo il quinquennio dell’ex-Rothschild, non ci sarà più nessuna presidenza socialista, né centrista, né repubblicana: sarà l’ora delle forze anti-sistema, che si chiamino Front National o con un altro nome, che a guidarle sia ancora Marine Le Pen od un’altra figura.
Tutto rimandato al 2022, quindi? Bisogna attendere le prossime presidenziali francesi perché il continente possa finalmente liberarsi dalle catene di Bruxelles e di Francoforte? Fortunatamente (cinque anni non sono pochi nella vita di un uomo), no. Il pendolo, come dicevamo in apertura, ha ripreso il suo viaggio verso la dissoluzione economica dell’Unione Europea e, in ordine cronologico, sono tre le prossime tappe salienti:
- il precipitare della situazione italiana, complice anche la prossima instabilità politica;
- una nuova recessione globale che cova sotto le ceneri;
- il rialzo dei tassi da parte dalla FED e/o della BCE.
Ne parleremo nel prossimo articolo. Come direbbero in Francia: nous avons perdu une bataille, on gagnera la guerre!
1http://www.cnbc.com/2017/04/10/theres-more-than-60-chance-of-a-global-recession-within-the-next-18-months-economist-says.html
2http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/03/30/news/la-sfida-di-renzi-diventare-macron-1.298360
3http://www.ilgiornale.it/news/politica/quando-renzi-senato-disse-se-perdo-referendum-lascio-1298340.html
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