Globalisti contro sovranisti. Un conflitto tutto interno alle classi dominanti (2a parte)
di SINISTRA RETE
Paolo di Lella intervista Stefano G. Azzarà.
Ancora sul fenomeno cosiddetto “populista”. Dopo le interviste, pubblicate sui numeri di dicembre e gennaio, a Fulvio Scaglione, Carlo Formenti, Marcello Foa e Giulietto Chiesa, questo mese, in esclusiva per i nostri lettori, affrontiamo lo stesso tema con Stefano Azzarà, docente di Filosofia moderna presso l’Università di Urbino e autore del volume “Democrazia cercasi”.
Paolo di Lella: La critica della globalizzazione capitalista è stata sempre una prerogativa della sinistra, per lo meno fino a quando si è conclusa l’esperienza del Social Forum. Oggi siamo al punto che personalità autorevoli della sinistra storica iniziano a tifare per Trump e a invocare la discesa in campo di un “uomo forte”…
Azzarà: Non sono d’accordo su questa premessa. Non c’è bisogno di tornare a Marx ed Engels e al Manifesto, con la sua elegia della globalizzazione (che si contrapponeva all’atteggiamento di molti socialisti piccolo-borghesi o nostalgici del feudalesimo). In realtà la critica della globalizzazione è stata sin dalla prima metà del XX secolo un argomento della destra europea, la quale nella tendenza alla globalizzazione descritta come spinta verso lo Stato Mondiale o l’Impero ha individuato una messa in discussione del primato europeo e della storicità differenziata e stratificata dell’Europa, culla della civiltà in contrapposizione alla barbarie dei sottouomini delle colonie in rivolta ma anche all’”artificiale” rappresentato dagli Stati Uniti o dalla Russia bolscevica. Penso a Heidegger e Schmitt in primo luogo. Dopo la Seconda guerra mondiale e ancora negli anni Ottanta e Novanta, la critica dell’estrema destra di ispirazione neonazista al “mondialismo” è esplicita. È in quell’ambiente che vanno rintracciati i prodromi dell’attuale rivolta “populistica” di ispirazione eurasiatista, ad esempio.
Nei Social Forum io all’epoca ho visto un’altra cosa, invece. Non ho mai visto nessun “No Global’. Ho visto invece da un lato tantissimi ‘Sì Global’, ovvero tantissimi fautori di una globalizzazione ancora più spinta. Che pretendevano una totale liberalizzazione dei movimenti delle persone e della circolazione delle idee, criticando le restrizioni dovute alla direzione capitalistica della globalizzazione stessa da parte delle Corporations. Era una posizione nella quale c’era qualcosa di buono, perché si teneva ferma l’esigenza della costruzione del genere e si sviluppava una critica della sua amministrazione capitalistica. Tuttavia era anche una posizione ingenua, perché la globalizzazione del genere deve comunque avere a che fare con il commercio internazionale e la liberalizzazione degli scambi.
Mentre invece – e qui entra in gioco la seconda componente, quella luddista – i Social Forum pretendevano di coniugarla con la negazione dello sviluppo delle forze produttive, con la decrescita, con la piccola produzione locale e artigianale. E con la negazione del ruolo dello Stato nazionale come degli organismi sovranazionali e regionali, immaginando una rete di produttori indipendenti in armoniosa cooperazione, secondo un sogno anarco-proudhoniano di esodo.
In questo modo, per questa ingenuità, è stata completamente mancata la questione di una reale democratizzazione degli organismi sovranazionali, che a sua volta si sarebbe potuta porre però solo a partire da un riconoscimento del ruolo ancora persistente degli Stati nazione. Tutto ciò ha lasciato un vuoto spaventoso, che la critica della globalizzazione da destra ha provveduto a riempire. È qualcosa di simile a quanto è accaduto nella Germania di Weimar. Quando la sinistra ha sottovalutato clamorosamente la questione nazionale, rispetto alla quale era la più titolata a intervenire, lasciando campo aperto alle destre.
All’epoca, Karl Radek fu uno dei pochi comunisti che negli anni Venti compresero la lezione leninista sul nesso tra questione nazionale e questione sociale. Proprio la scarsa ricezione della sua linea, in un contesto politico e ideologico ancora fortemente influenzato dal luxemburghismo, spalancò le porte all’egemonia dell’estrema destra sulla piccola borghesia tedesca. La situazione oggi è completamente diversa, ovviamente, perché anche se avessimo le migliori posizioni soggettive manco esistiamo. Però le sue parole possono essere ancora di utile orientamento. Ma quando Radek parla dei tedeschi come di un «popolo che fa parte della famiglia dei popoli che lottano per la propria liberazione» e esalta la «libertà di tutti coloro che lavorano e soffrono in Germania», troviamo formule decisive per distinguere l’internazionalismo universalista e il mondialismo anti-imperialistico del leninismo dal mero sovranismo piccolo-borghese come dal cosmopolitismo astratto.
Sono parole pronunciate da Radek tre anni dopo aver stroncato la frazione cosiddetta “na-zional-bolscevica” di Amburgo (esecrata da Lenin nell’Estremismo), gli equivalenti di quei rozzo-bruni che oggi vorrebbero fare il “fronte comune anticapitalista oltre destra e sinistra”. Ieri come oggi, nella contestazione dei processi di globalizzazione le destre fanno certamente leva sulle contraddizioni e i disagi sociali che essi provocano, ma lo fanno con l’obietttivo chiarissimo di una contestazione della costruzione del genere umano e della riaffermazione del primato bianco e euro-occidentale. In queste aree politiche comincia già adesso a farsi strada una rivendicazione aperta del diritto dell’Europa alla ricolonizzazione del mondo, a partire dall’Africa. Per il momento c’è ancora qualche remora ad affrontare questo tabu. Ma se il linguaggio razziale non è praticabile, esso viene metaforizzato nel senso delle differenze culturali.
Di fronte a questa ripresa delle destre, la sinistra è impotente perché assente. La sinistra non ha ancora smaltito la sconfitta di sistema della fine della Guerra Fredda, sebbene in molti casi non voglia ammetterlo. Percepisce vagamente gli errori commessi in questi decenni ma ormai è troppo tardi. Ed ecco che di fronte a certi argomenti “sociali” è esposta all’egemonia delle destre. Così come negli anni passati è stata completamente egemonizzata dalla narrazione neoliberale, oggi è succube della revanche piccolo borghese. L’attrazione verso Trump, o Putin, l’esigenza di un uomo forte che magicamente risolva ogni contraddizione e indichi la via giusta, è in questo senso la compensazione proiettiva di una impotenza acquisita, rispetto alla quale non sembra esserci via d’uscita. Del resto, questo atteggiamento codista è favorito da decenni di politica neobonapartista, la quale in Italia è stata sperimentata proprio a sinistra. Penso all’uso disinvolto del maggioritario, o al mito delle primarie e della leadership carismatica, tutte cose che chiamano in causa responsabilità precise dell’estrema sinistra.
Quali dovrebbero essere le parole d’ordine di una sinistra autonoma che si ponga l’obiettivo di recuperare il consenso popolare – il popolo della Rust Belt, per capirci – senza tuttavia cedere alle debolezze nostalgiche di un ritorno al protezionismo?
Il segreto della democrazia moderna è nell’unità conseguita dalle classi subalterne in un secolo e mezzo di storia. Ceti sociali dispersi e debolissimi nel XIX secolo, attraverso il conflitto sono riusciti ad affermare la propria dignità, tanto che il primo aspetto della lotta di classe consiste in una lotta per il riconoscimento della comune umanità. Ma i deboli possono difendersi dai forti e sconfiggerli solo se uniscono le proprie debolezze. La crisi della democrazia moderna, che è la crisi di un riequilibrio sociale avvenuto appunto nell’interesse dei più deboli (i più forti non hanno bisogno della democrazia), è di conseguenza proprio la frantumazione di quella unità. Una frantumazione che è avvenuta nel corso di due o tre decenni.
La prima cosa da fare perciò è capire dove siamo, capire che usciamo da una sconfitta storica e che alla fine degli anni Ottanta è iniziata una fase di resistenza e di ritirata strategica che durerà per decenni. Non c’è nessuna ragione di credere che il compito che abbiamo davanti – che è un compito obbligato e che consiste nel riunire ciò che è stato diviso, nel perseguire una nuova unità che, sola, può consentirci di difenderci – possa richiedere meno tempo di quanto non ne abbia già richiesto nell’epoca della costruzione del movimento operaio. In questo senso, dobbiamo ripercorrere oggi, in condizioni diverse, quanto è stato fatto dai nostri progenitori politici. E per far ciò dobbiamo prendere atto che siamo di fronte a un compito di lunga durata, il cui contenuto è la ricucitura del mondo del lavoro e di un’alleanza di ceti sociali attorno ad esso.
È un compito che richiederà 20 o 30 anni, sempre che partiamo subito, e che comporterà un massiccio lavoro culturale, sindacale e politico che sarà per un lungo tratto oscuro e misconosciuto. Ma se questa è la prospettiva che abbiamo di fronte, l’ultima cosa che dobbiamo fare è disperderci in quello che è ormai lo sport nazionale della sinistra in Italia: la preparazione delle liste elettorali. Finché la misurazione elettoralistica della nostra impotenza sarà l’ossessione pressoché unica della sinistra – e dunque finché due o tre generazioni non avranno passato la mano – non ci sarà tempo e non ci saranno energie sufficienti per occuparci di quello che è invece il compito principale ma che viene sempre rimandato.
Per il resto, si tratta di fare il mestiere della sinistra riscoprire la centralità del lavoro e riscoprire il fatto che le classi sociali esistono, che esse sono in conflitto perché alcune sono più forti e altre più deboli -altro che “popolo” indifferenziato nel quale tutte le vacche sono nere… – e sono la dimensione fondamentale dei processi in atto. Tutto il resto è importante, certamente, e anche le elezioni lo sono; ma nulla ha senso se non a partire da ciò, da questo preliminare lavoro di radicamento.
In che modo, ad esempio, mettersi tutti dietro a D’Alema dovrebbe modificare in senso progressivo i rapporti di forza nella società e dare finalmente un programma condiviso e sensato a chi sinora non è mai riuscito nemmeno a capire cosa vuole dalla vita, conciliando strategie che sono sempre state opposte nel nome del comune interesse al superamento del quorum? Lo abbiamo già fatto innumerevoli volte e ogni volta ci siamo divisi il giorno dopo: non funziona. Le camarille come quella di D’Alema e Vendola, da questo punto di vista, sono semmai proprio quegli incomprensibili marchingegni che spingono la sinistra dispersa a esprimere la propria frustrazione votando i grillini o astenendosi.
Mi chiedo: quale essere senziente, dopo aver ripetutamente verificato nel corso di 20 anni di merda che nei vigenti rapporti di forza un determinato percorso politico, magari sensato in altre epoche, non offre altro sbocco se non – di compromesso al ribasso in compromesso al ribasso -un ulteriore slittamento a destra, si ostina a ripetere il medesimo errore ad ogni nuovo baluginare delle elezioni, sbavando cupido al pensiero dello scranno e ratto rimuovendo ogni accenno di autocritica formulato dopo l’ultimo recentissimo fallimento, perché tanto “non c’è alternativa”? È anche a partire da questo contesto che va spiegato il successo del Movimento 5 Stelle.
Scorciatoie perciò non ce ne sono, con i baffi o senza. Se non facciamo i conti con la realtà e con noi stessi – Europa, migrazioni, capitale e lavoro, fisco e Welfare – nemmeno Togliatti redivivo potrebbe salvarci, altro che D’Alema. Non siamo più espressione di bisogni e interessi sociali reali. Un’epoca è finita per sempre. Finché non riusciremo ad esserlo, stiamo a casa che è meglio. La fiducia e il consenso si riguadagnano con un umile lavoro di ricucitura di lunga durata, non giocando a risiko a tavolino. Tutto ciò spiace assai, perchè dio sa quanto sarebbe necessario un processo di convergenza a sinistra. Ma un processo serio, programmatico e ancorato a dei referenti sociali reali, non questi trucchetti da ceto politico che riproduce se stesso.
Il problema a questo punto è un altro. Quasi 30 anni di maggioritario hanno devastato i partiti politici, che già non se la passavano particolarmente bene. Adesso abbiamo un accenno di proporzionale che non solo è virtuale (la spinta alle coalizioni crescerà in relazione all’altezza degli sbarramenti), ma è soprattutto privo di quelle forme fondamentali di auto-organizzazione e partecipazione delle classi sociali che sono indispensabili al suo funzionamento.
Tutte le forze politiche rimangono infatti sigle in franchising e comitati elettorali in perpetua competizione interna e privi di programma e autonomia. Nessuna di esse ha una proposta condivisa e sensata su ciascuna delle questioni fondamentali, dall’Europa alle migrazioni, dal rapporto capitale-lavoro all’ambiente. Ma non sarà possibile ricostruire un programma politico che aiuti la ricomposizione del mondo del lavoro se non ricostruiremo anche le forme della nostra organizzazione, se non ricostruiremo nel XXI secolo quel tessuto politico, sindacale, associativo e cooperativo che ha segnato la fortuna e la crescita del socialismo dal XIX.
Analogamente, come si esce dalla contrapposizione fanatica – anche questa interna alla sinistra – tra chi sostiene la funzione progressiva a-priori della moneta unica e chi invece vede in essa l’origine di tutti i mali?
Più leggo in giro più me ne convinco: né quelli che sono assolutamente certi che sarebbe meglio uscire dall’euro, né quelli che vogliono rimanere ad ogni costo – parlo degli esperti di queste faccende, non degli sprovveduti dei social network – hanno in realtà la piu pallida idea delle conseguenze dell’una e dell’altra scelta, sul breve, medio e lungo periodo. Per lo più sviluppano un ragionamento politico e ci costruiscono sopra un discorso, forti del fatto che comunque non dipende certamente da loro e nessuno gliene chiederà mai conto. È evidente che il nocciolo della questione è squisitamente politico, come del resto in tutti i ragionamenti relativi all’economia. Proprio per questo, bisognerebbe invece affrontare queste questioni in maniera lucida e non dogmatica, senza ridurre la politica a tifo e propaganda.
Penso che la questione del rapporto con i’UE e l’Euro sia paradigmatica dello stato di impotenza delle classi subalterne e persino della ‘‘tragicità” della loro condizione. Nel senso che esse si trovano letteralmente in un vicolo cieco. Sono in difficoltà sia in un caso che nell’altro e non esiste uno scenario che si presenti come immediatamente più favorevole, perché in entrambe le circostanze ciò che conta sono i rapporti di forza reali tra le classi e questi rapporti in nessun modo sarebbero messi in discussione dalla scelta di uscire come da quella di rimanere In quest’ultima alternativa, dunque, ciò che è in gioco è in primo luogo una resa dei conti tutta interna alle classi dominanti stesse.
È ormai a tutti chiaro ciò che del resto era già chiaro sin dall’inizio, ovvero che l’architettura di Maastricht non è neutrale ma politicamente orientata. L’Euro e l’attuale UE nascono con l’obiettivo esplicito di ridurre il costo del lavoro e ri-sottomettere le classi lavoratrici, consentendo una facile accumulazione di ricchezza alle classi proprietarie. In questo, l’Euro è stato un grande successo ed è evidente che lo scenario di una persistenza degli attuali assetti sia uno scenario di destra estrema tecnocratica. Uno scenario nel quale andremo incontro a ulteriori umiliazioni del lavoro, costretto a vendersi a un costo sempre più basso.
In questo senso, poiché nel giudizio storico-politico ciò che conta per capire se un processo sia progressivo o regressivo sono appunto i rapporti di forza, è del tutto fuori luogo l’analogia che alcuni sostenitori dell’UE fanno tra il processo di convergenza europea e quello che ha condotto agli Stati nazionali, in particolare alla formazione di quello italiano e di quello tedesco Perché in quei casi il processo finiva per metter capo a una costellazione progressiva, in quanto metteva almeno in parte in discussione l’Ancien Régime, doveva fare i conti con i residui di feudalesimo presenti in quei paesi, favoriva la diffusione dei principi liberali, facilitava l’unificazione delle classi subalterne e la loro lotta per aumentare i salari. La convergenza europea ottiene invece esattamente l’effetto programmatico opposto.
Mentre il superamento dell’anarchia e del particolarismo verso lo Stato nazionale era un processo progressivo, qui è avvenuto l’inverso e la UE, come ha dimostrato Vladimiro Giacché, è in contraddizione con quell’equilibrio relativo dei rapporti di forza definito dalla Costituzione italiana, la quale è a sua volta un vero e proprio monumento alla lotta delle classi subalterne in Italia. Lo Stato nazionale è stato storicamente il luogo nel quale la classi lavoratrici hanno accumulato la maggior quota di ricchezza e potere, è stato il luogo della democrazia moderna. Chi denuncia le posizioni dei difensori dello Stato nazionale come retrograde, antiprogressiste, ecc. ecc. dice solo sciocchezze perché non si pone nemmeno il problema di fare i conti con un bilancio dei rapporti di forza.
Magari quella situazione potesse essere ripristinata! Le ragioni per cui le posizioni euroscettiche lasciano perplessi, perciò, non hanno niente a che fare con la paura ridicola del “nazionalismo”, oltretutto in un paese che è una semicolonia e che da un sano nazionalismo – ovvero dall’internazionalismo – avrebbe tutto da guadagnare. Le ragioni sono altre. Anzitutto, infatti, già dentro la cornice nazionale i rapporti di forza “costituzionali” erano stati squilibrati in favore delle classi dominanti già molto prima dell’adesione all’Euro. È dalla metà degli anni Settanta che è iniziata la restaurazione borghese. Soprattutto, però, nelle condizioni attuali non ci sono dubbi sulla tragicità della situazione in cui ci troviamo se rimanere significa ancorarsi a destra, anche l’uscita avverrebbe a destra.
In questo senso possiamo misurare in tutta la sua portata la vera e propria catastrofe politica compiuta da Tsipras e dai suoi sostenitori, i quali sono una vera e propria iattura, un’ipoteca e una zavorra per chiunque voglia impegnarsi a ricostruire il campo progressista. Se fosse stato fatto il necessario e preliminare lavoro internazionale, ci sarebbe stata la possibilità di un’uscita da sinistra dall’Euro, che costituisse un modello e che ponesse le basi per una ridiscussione del processo di integrazione europea tramite un incastro, nel nome delle classi subalterne, tra il conflitto organizzato dal basso e una costellazione di Stati nazionali, la quale avrebbe potuto cercare le proprie sponde. Invece la sinistra, che per la sua cultura politica non è internazionalista ma è cosmopolita e succube dell’europeismo ideologico strumentale, ha avuto terrore e si è tirata indietro. È stata perduta così un’occasione storica. L’unico vero caso di uscita è stato infatti Brexit, e cioè una fuoriuscita che sin dall’inizio è stata ampiamente egemonizzata da destra.
Ecco allora che nel primo caso, Remain, abbiamo l’egemonia di una destra tecnocratica interessata a gestire nei propri interessi il libero scambio. Ma nel secondo, Exit, abbiamo l’egemonia di una destra populista protezionista a base piccolo borghese, che inevitabilmente scaricherebbe sul costo del lavoro i margini di svalutazione della eventuale Lira 2.0 nei confronti dell’Euro, in maniera analoga a quanto per ragioni diverse avviene oggi. Sia in un caso che nell’altro a rimetterci sarebbero i segmenti inferiori del mercato del lavoro.
C’è chi ritiene addirittura possibile un fronte ampio che guardi con favore a questo mondo della piccola borghesia in fibrillazione. Ma anche tra chi semplicemente ritiene che con un’Exit comunque si determinerebbero condizioni più favorevoli e la sinistra potrebbe giocarsi meglio le sue carte, a mio avviso sbaglia suonata: la sinistra sarebbe completamente fagocitata e ci vorrebbero comunque decenni per ricostruirla.
Ecco allora il punto decisivo: sia nel primo scenario che nel secondo, qualcosa impedisce alla sinistra di fare ciò che dovrebbe comunque fare per rientrare in sintonia con i propri ceti di riferimento? Sia in un caso che nell’altro, quel lavoro di ricucitura di cui parlavo prima andrebbe fatto comunque. Senza quel lavoro, infatti, sia che si rimanga sia, che si esca, prenderemo solo dolorose bastonate. Rispetto alla priorità di questo lavoro, allora, la decisione sul rimanere o uscire, che tra l’altro non spetta a noi, è del tutto secondaria. Essa, anzi, potrebbe essere presa con più facilità e con la coscienza tranquilla. Perché avremmo comunque fatto i compiti a casa e ci saremmo comunque messi nelle condizioni di resistere e combattere più efficacemente, nel primo come nel secondo scenario. Ancora una volta, invece, siamo di fronte al pensiero magico. All’idea che un coniglio dal cilindro – rimanere o uscire – possa miracolisticamente risolvere tutti i nostri problemi. E possa soprattutto evitarci la fatica di quel duro lavoro di lunga durata senza il quale è meglio andare a casa sin d’ora.
Biografia:
Ricercatore confermato presso l’Università di Urbino “Carlo Bo”, direttore scientifico della rivista “Materialismo storico” (della quale cura anche il blog www.materialismostorico.it), ha scritto numerose monografie e saggi pubblicati su riviste italiane e straniere, reperibili su Iris. Autore del volume “Democrazia cercasi”.
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