Song to Song. L’universo diviso di Terrence Malick
di LE PAROLE E LE COSE (Pietro Banchi)
Non solo i film come PIIGS ci raccontano alcune problematiche odierne.
Certamente i film documentario sono popolari perché hanno il vantaggio di collegare le questioni sistemiche alla nostra vita quotidiana. Ci aiutano a capire, ad esempio, come i trattati UE e l’introduzione dell’euro siano una causa della crescita esponenziale della disoccupazione e delll’indebitamento privato.
Il film d’atutore invece non è per tutti. In primo luogo perché deve piacere il cinema come mezzo artistico al di là dell’informazione utile che se ne possa ricavare. E sovente introduce a delle tematiche di carattere filosofico che hanno bisogno di una mediazione. Ma è in grado di collegare anch’esso le problematiche quotidiane che colpiscono una società descrivendone la degenerazione.
In questo secondo intento riesce ad esempio il film di Malik.
Non si pensi infatti che tutti i nostri problemi siano di carattere economico perché, viceversa, spesso hanno prima di tutto una radice ideologica e culturale.
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Tutte le filosofie moderne sono catene che legano e imprigionano; il cristianesimo è una spada che separa e rende liberi. Nessun altro filosofo permette a Dio di gioire della divisione dell’universo in anime viventi. Ma secondo l’ortodossia cristiana, questa separazione tra Dio e l’uomo è sacra, perché è eterna. Affinché un uomo possa amare Dio, è necessario che non ci sia solo un Dio da amare, ma che esista anche un uomo che lo ami. Tutte queste vaghe menti teosofiche per le quali l’universo è un immenso crogiolo, sono le stesse menti che fuggono istintivamente dalla parola dei nostri Vangeli, sconvolgente come un terremoto, secondo la quale il Figlio di Dio non è venuto per portare la pace, ma una spada affilata.”
Queste parole scritte da G. K. Chesterton in Ortodossia, uno delle più belle e radicali riflessioni sul nocciolo perturbante e non pacificato del cristianesimo, mostrano come la domanda sull’esistenza del cristianesimo non potrà mai andare verso un’idea di ri-congiunzione al cosmo, ma semmai come un’assunzione definitiva della sua separazione. Amare in senso cristiano non può voler dire riproporre l’Uno del senso, ma attraversarne fino in fondo la sua divisione, la sua differenza, l’abisso del non senso, anche nel caso questa divisione non riguardi l’uomo ma Dio stesso. L’Universo non sta insieme: è tagliato in due, è scisso, è inconsistente. E l’uomo ne è stato gettato fuori.
Non è particolarmente à la page pensare di portare al cinema oggi riflessioni di questo tipo sull’Universo, o sulla domanda di senso (o di non-senso) dell’uomo nel suo stare al mondo. Troppo forte l’ingiunzione al “racconto di storie”, troppo dominante l’idea di un cinema “minimo” che si deve limitare a guardare il mondo che ha davanti agli occhi, magari raccontando i margini del visivo come fa la gran parte della produzione indipendente di oggi seguendo i dettami dell’umanitarismo democratico.
L’idea di dare al cinema un compito speculativo (cioè di conoscere la realtà, prima ancora di rappresentarla come fa il tradizionale cinema di finzione) non può che provocare una fragorosa risata che è più o meno quello che sistematicamente accade ogni volta che raggiunge la distribuzione in sala un film di Terrence Malick (e se ancora riesce ad accadere il miracolo di riuscire a vedere questi film non è certo per le potenzialità commerciali del suo cinema, ma solo perché l’eccezionalità del suo status gli permette di usufruire di un cast stellare a prezzo del minimo sindacale).
La proverbiale ingenuità e naïveté dello sguardo di Malick – l’idea cioè di poter ricostruire un incanto con cui guardare il mondo – è letteralmente oscena per un cinismo cinematografico dominante che invece si compiace solo di non poter guardare le cose o che magari preferisce continuare a ripetere come lo sguardo sia sempre foriero di cattiva coscienza e immoralità, e dunque di colpa (Haneke, Von Trier, Siedl etc.). Malick invece non ha alcuna paura che il suo cinema adotti uno sguardo ingenuo e anzi, le reazioni sempre più scomposte dei suoi detrattori che ormai fanno a gara all’insulto più colorito ogni volta che esce un suo film, non fanno altro che mostrare a rovescio come sia proprio la naïveté la marca qualificante della sua filosofia del visivo.
Dopo che i suoi primi due film – Badlands del 1973 e Days of Heaven del 1978 – lo lanciarono come uno degli autori più importanti della New Hollywood, passarono addirittura vent’anni tra il suo secondo e il terzo film – The Thin Red Line del 1998. Negli ultimi 6 anni invece Terrence Malick ha fatto ben 5 film: pare non solo aver trovato una modalità produttiva che gli permetta di portare a termini i suoi progetti ma anche un dispositivo formale che ruota sempre attorno a un insieme ben definito di questioni.
Il suo lavoro procedente, Voyage of Time, presentato a Venezia poco più di sei mesi prima dell’uscita di Song to Song era una sorta di riflessione per immagini sulla vita e l’universo, l’Essere e la realtà, la ricerca di senso e la materia inerte della Terra con cui Malick aveva preso congedo temporaneamente da una forma cinematografica narrativa. In questo film il cinema era un modo per riuscire a guardare il dischiudersi di senso delle cose agli occhi dell’uomo e l’articolarsi delle relazioni tra noi – intesi come esseri umani localizzati in uno spazio e in un tempo definito – e un’entità così immensa e impossibile da oggettivare come è la totalità dell’universo.
Tuttavia il tentativo di mettere in forma d’immagine lo stupore dell’uomo nei confronti del senso delle cose è sempre a rischio di capovolgersi nel suo contrario: ovvero nella condanna a un’esistenza inautentica e generica persa nell’immediatezza di un materialismo deteriore dove l’essere umano non è più attraversato da alcuna domanda su se stesso e il mondo. L’avevamo già visto in Kinght of Cups nella rappresentazione del jet set losangelino ma in Song to Song lo si vede in modo ancora più chiaro, perché si esprime in una forma più astratta, più universale, dove i riferimenti alla scena musicale di Austin sono per lo più decorativi e marginali (cosa che non ha mancato di deludere quelli che forse avrebbero voluto vedere un documentario musicale).
“Volevo qualcosa di vero. Nulla sembrava vero” dice Faye, la protagonista interpretata da Rooney Mara all’inizio del film: l’ingiunzione all’esperienza immediata, al godimento, alla verità della sensazione corporea come unica forma di realtà. Si tratta di una delle grandi proposizioni ideologiche del contemporaneo, di un mondo che, come direbbe Badiou, pare essere formato solo da corpi e linguaggio. E l’idea secondo cui – sempre per usare le parole della protagonista – “qualunque esperienza [sia] meglio di nessuna esperienza” e dove “persino il dolore mi fa sentire viva”.
Song to Song ci mostra subito dall’inizio un gruppo di persone perse nell’inautentico, in una sorta di eterno presente dove l’unica cosa che conta è l’adesso (“The future is now” dice poco dopo Cook, il personaggio interpretato da Fassbender). In una bellissima sequenza iniziale, girata durante uno dei concerti all’aperto della celebre scena musicale di Austin, vediamo una serie di corpi che pogano al rallentatore: saltano uno sopra l’altro in una sorta di terreno indistinto dove violenza, piacere e dolore si mischiano l’uno nell’altro. È appunto il regno del corpo, dove conta solo la sensazione dell’immediato e dell’adesso.
Ma in questo mondo del generico e dell’indifferente dove tutto è intercambiabile, tutto è anche in deficit di identità. “Tu non sei chi credi di essere” viene detto a Faye, che si fa affascinare dal personaggio mefistofelico di Cook e dalla sua vita fatta solo di godimento pulsionale che le permette di recidere ogni legame (“volevo essere come lui”). Ma Malick vede questa dimensione inautentica soprattutto nella rappresentazione di una sessualità paranoica e ripetitiva dove i corpi femminili sono intercambiabili e vengono visti sempre “insieme” in scene di orge e di godimento spersonalizzante e anonimo.
Il sesso, che era sempre stato l’elemento mancante nei film di Malick – o per meglio dire era sempre stato rappresentato con un certo pudico imbarazzo come in To the Wonder – diviene qui il centro della scena. Il triangolo amoroso su cui si struttura il flebile, anche se un po’ più intellegibile del solito, plot – tra il manager discografico Cook e i due scrittori musicali Faye e BV (Ryan Gosling) – è caratterizzato per un deficit di identificazione: “ho sempre avuto paura di essere me stessa” dice Faye. Ma che cosa vuol dire essere se stessi in questo mondo dell’inautentico, del “si gode” senza individuazione? Che cosa vuol dire “essere se stessi” in questa Austin del godimento anonimo?
Malick non ha mai avuto un’idea semplice del dramma dell’esistenza, in un universo da cui – come direbbe Chesterton – l’uomo è stato mandato via: proprio perché l’aprirsi delle cose alla domanda di senso è sempre sul bordo di una caduta, non c’è alcuna garanzia di una propria redenzione. Una prostituta che dice di essere finita in una vita che non voleva fare per colpa della morte improvvisa del suo compagno, così come la fine tremenda del personaggio di Rhonda, interpretato da Natalie Portman, che muore suicida nonostante un’improvvisa conversione religiosa l’avesse portata fuori dalle grinfie di Cook, che la vede solo come uno strumento di godimento.
Anche nel regno dell’inautentico esistono dei momenti di verità che squarciano il piano dell’anonimo “si gode”. Uno di questi – e senz’altro il più importante insieme al sesso – è l’esperienza della morte: l’unica che può risvegliare dall’inganno dell’eterno presente nel quale si è immersi. E infatti è la visita a un padre infermo in fin di vita, ormai paralizzato a letto e completamente incapace di compiere anche i gesti quotidiani più semplici, che costituisce per BV l’occasione per ritrovare una domanda su se stesso e la propria esistenza.
Sebbene Song to Song rimanga forse il film dove Terrence Malick si confronta più direttamente con la possibilità della caduta e del negativo, non manca mai la possibilità di una redenzione. In uno dei film più tormentati e inquieti nella carriera del regista americano, quasi in ogni inquadratura vediamo sempre una luce che si staglia all’orizzonte: come se anche nelle vicende di più estremo abbruttimento, al colmo della caduta e della compulsione al godimento mortifero, vi sia sempre una via di fuga che indichi una possibilità di salvezza.
“Segui la luce, va dove c’è la luce” si dice in una scena, quasi a voler mostrare quello che in ogni caso è sotto i nostri occhi per l’interezza del film: lo sguardo incantato nei confronti del mondo non è un perdersi nell’immensità pre-individuale del cosmo – come una cattiva interpretazione new-age di Terrence Malick vorrebbe far credere – ma è una precisa missione etica.
O per meglio dire, un problema soggettivo che chiama a un gesto d’individuazione per il quale non esiste alcun destino certo e alcuna garanzia: essere un soggetto vuol dire comprendere il baratro infondato di una scelta e il fatto che il proprio posto nell’universo – come dice Chesterton – semplicemente non c’è. L’uomo ne è stato buttato irrimediabilmente fuori. Eppure è proprio questa la possibilità della sua salvezza.
Fonte:http://www.leparoleelecose.it/?p=27619
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