Contro il libero-scambismo (1a parte)
di SINISTRA RETE (Marco Veronese Passarella)
1. Introduzione
Il quesito sollevato dal titolo del seminario, Welfare o barbarie, evoca la drammatica alternativa posta da Rosa Luxemburg, sulla scorta di Friedrich Engels, esattamente un secolo fa: «la società Borghese si trova di fronte ad un dilemma, o transizione al socialismo o regressione nella barbarie» (Luxemburg 1915). Si noti che quell’«o» assumeva, per Luxemburg, un valore di disgiunzione esclusiva. Esprimeva, cioè, un’opposizione netta: socialismo oppure barbarie.
Come è noto, di lì a poco una parte del mondo scelse il primo, con «l’assalto al cielo» delle classi lavoratrici russe – e sia pure tra le mille contraddizioni denunciate proprio da Luxemburg nel suo intenso scambio epistolare con Lenin e gli altri dirigenti socialisti dell’epoca. L’altra parte del mondo «civilizzato» piombò, invece, nella barbarie dei conflitti coloniali e dei campi di concentramento, delle deportazioni di massa e, infine, dello sterminio nucleare. Una barbarie che – troppo spesso viene dimenticato – fu preceduta da un periodo di straordinaria apertura dei mercati, ossia di intensificazione negli scambi di merci e nei flussi di capitale transnazionali. Il che stride con la tesi liberal-positivista allora in gran voga, e tuttora dominante, dei commerci quale veicolo di pace internazionale e di prosperità economica (1).
In effetti, la stagione di grande apertura dei mercati che precedette la prima guerra mondiale non avrebbe conosciuto eguali fino alla seconda ondata di globalizzazione capitalistica sperimentata dalle maggiori economie mondiali in seguito all’implosione del blocco socialista – a partire, cioè, dai primi anni novanta. Sennonché, a dispetto delle asserite proprietà salvifiche delle forze della concorrenza e delle leggi naturali del mercato, la crescente integrazione delle economie mondiali è sembrata dischiudere, ancora una volta, gravi rischi per le conquiste economiche e sociali strappate, nel corso del secondo dopoguerra, dal movimento operaio e dalle sue organizzazioni rappresentative nei paesi di prima industrializzazione.
D’altra parte, l’ascesa economica recente dei giganti asiatici e sudamericani non appare in grado, almeno al momento, di legarsi stabilmente alla prospettiva di un avanzamento generalizzato nei rapporti sociali a favore dei salariati e delle classi lavoratrici in genere, di surrogare, cioè, il katéchon sovietico (2). Sono già qui enunciate in nuce due tesi fondamentali, che costituiranno il leitmotiv di questo breve saggio. La prima tesi è che è che la contrapposizione welfare oppure barbarie sia storicamente legata a doppio filo al grado di mondializzazione del capitale, ossia ai processi di apertura dei mercati regionali e nazionali ai flussi internazionali di capitali e di merci. La seconda tesi – che è poi un corollario – è che non sia tanto, o soltanto, la soluzione di quella contrapposizione a favore del secondo termine (la barbarie connessa al possibile azzeramento di ogni forma di prestazione sociale) a far problema.
È una posizione, questa, che pure sembrerebbe emergere dall’osservazione di quanto accaduto nelle economie avanzate nell’ultimo trentennio, dove il sistema statuale di previdenza sociale è stato progressivamente smantellato (ancorché in modo asimmetrico e parziale) a colpi di privatizzazioni prima, e di misure di austerità poi. Piuttosto, la sensazione è che si stia assistendo al progressivo tramutarsi della congiunzione «o» in una copulativa positiva, «e»: welfare e barbarie. Non azzeramento delle prestazioni di welfare, insomma, ma loro profonda ridefinizione in termini, ad un tempo, «universalistici» e «minimalisti», sulla base dei rapporti sociali emersi dalla crisi di valorizzazione degli anni settanta e dai conseguenti processi di ristrutturazione produttiva degli anni ottanta e novanta.
Il welfare come sussidio residuale atto a colmare la differenza tra redditi da lavoro salariato precario e soglia minima di sussistenza: questa sembra essere, per le classi lavoratrici italiane (ed europee), la fosca prospettiva che si para all’orizzonte. Si tratta di una prospettiva, per la verità, non nuova, dato che rimanda agli albori del processo di industrializzazione. Di fronte a questo scenario, si ritiene necessario, anzitutto, avanzare una critica radicale all’accettazione incondizionata, a tratti apologetica, delle dinamiche di mondializzazione capitalistica e dell’agenda neoliberista e liberoscambista che ne costituisce la sovrastruttura ideologica (3).
Tale atteggiamento ha curiosamente caratterizzato, in Italia, gli intellettuali e le organizzazioni eredi del movimento operaio novecentesco ancor più delle forze conservatrici. Si tratta, in secondo luogo, di prospettare una diversa forma di organizzazione economica e sociale che recuperi ed aggiorni lo strumento della pianificazione economica quale alternativa alle dinamiche caotiche del mercato e, al contempo, quale prefigurazione di una società altra. A tal fine, il resto dell’articolo è strutturato come segue. Nel paragrafo 2 si mostra che la liberalizzazione dei movimenti di capitale, cominciata alla fine degli anni settanta e portata a compimento nel corso dei due decenni successivi, deve essere considerata il fattore-chiave dei cambiamenti intervenuti nella struttura economico-sociale italiana ed europea nell’ultimo trentennio.
Il paragrafo 3 è incentrato sui processi di «riforma» del sistema di welfare state e più in generale del ruolo dello Stato in economia. Tali processi sembrano seguire due direttrici principali: la ri-regolamentazione de- politicizzante delle istituzioni preposte al governo dell’economia, e l’uso pressoché esclusivo della politica monetaria quale strumento di intervento pubblico. Tale mutamento è, peraltro, in linea con il paradigma di teoria economica oggi dominante nel mondo accademico, il cosiddetto «Nuovo Consenso», il cui assunto di base è che, nel lungo periodo, i livelli di reddito, di occupazione e di produzione tendano a stabilizzarsi in corrispondenza di un livello naturale, esogenamente dato.
Si tratta di un paradigma teorico che assume una valenza particolare nel caso dell’Area Euro, il cui modello di sviluppo export-led, implica un’enfasi particolare sul controllo delle dinamiche dei prezzi. Come si cercherà di argomentare nel corso del paragrafo 4, sul piano del welfare ciò si traduce in una sostituzione del «vecchio» stato sociale con forme di copertura universalistiche, introdotte come contropartita alla flessibilizzazione del mercato del lavoro. Benché tale sirena tenti anche le formazioni della sinistra radicale, mentre è pressoché unanimemente accettata dalle forze di governo, l’introduzione di forme di reddito garantito presenta aspetti problematici, sia sul piano della sostenibilità finanziaria, che su quello della «progressività» sociale.
Nel paragrafo 5 si tenterà, perciò, di tratteggiare un’alternativa possibile alla logica della flexecurity, comunque declinata. Tale alternativa non può che passare per un profondo ripensamento del ruolo dello Stato in economia e della dimensione della sfera pubblica. Seguiranno alcune brevi considerazioni finali.
2. Critica del paradigma liberoscambista
Le turbolenze finanziarie e la recessione (divenuta vera a propria depressione) economica che hanno investito il nostro paese nell’ultimo quinquennio hanno radici molto antiche. Queste ultime sono sia di natura interna (4), che di ordine esterno. Concentrandosi sulle cause esterne, e in particolare sulle ragioni della crisi che ha colpito l’Area Euro nell’ultimo quinquennio, se ne possono isolare tre: cause finanziarie, cause politico-istituzionali e cause economico-strutturali. Le prime hanno certamente agito da detonatore, o causa ultima, della crisi.
La fuga di capitali verso lidi sicuri innescata nel settembre 2008 dal collasso finanziario Lehman Brothers si è, infatti, immediatamente riverberata sui titoli di Stato dei paesi finanziariamente più fragili dell’Area Euro. D’altra parte, la caduta del valore di mercato di quei titoli, e la conseguente crescita dei rendimenti sul debito dei paesi emittenti, è stata resa possibile dalla malcelata reticenza – e, comunque, dal ritardo – con cui la Banca Centrale Europea è intervenuta per bloccare le dinamiche speculative in atto (5).Civettando con Aristotele, si potrebbe, dunque, guardare al contesto istituzionale europeo, e in particolare alla Banca Centrale Europea, come al motore immobile della crisi, almeno nella sua fase iniziale.
In assenza di barriere monetarie, un’ondata di speculazione ribassista si è così abbattuta sui paesi che più si erano indebitati verso l’estero a causa della minore competitività delle loro produzioni nazionali, tradottasi nel tempo in esposizione crescente dei lori sistemi bancari. Ma se la speculazione finanziaria ha agito da innesco, in un contesto di vuoto istituzionale, sono stati gli squilibri di parte corrente delle bilance dei pagamenti (i disavanzi commerciali, ma anche le altre voci di conto corrente) degli Stati-Membri dell’Area Euro a fungere da combustibile o causa prima della crisi. Non pare, infatti, un caso che i paesi interessati dalla fuga di capitali avessero in comune non tanto un elevato livello di debito (né di deficit) pubblico, quanto un’esposizione debitoria crescente verso l’estero (6).
Quest’ultima non è che la risultante del differenziale permanente di competitività tra le produzioni dei paesi «periferici» e quelle dei paesi «centrali», in un contesto di rigido ancoraggio valutario, di politiche deflattive adottate dai paesi del centro e di piena libertà di movimento dei capitali all’interno dei confini europei (7). Proprio la liberalizzazione dei movimenti di capitale – ad avviso di chi scrive – deve essere considerata il fattore chiave, il prius, dei cambiamenti intervenuti nella struttura economico-sociale italiana ed europea nell’ultimo trentennio. È stata, infatti, la crescente minaccia di delocalizzazione delle produzioni uno dei principali fattori di erosione delle basi del potere contrattuale delle classi lavoratrici e delle loro organizzazioni rappresentative in Europa.
Così come, d’altra parte, il dumping fiscale è (stato) certamente uno degli elementi di pressione per una riduzione/ridefinizione delle prestazioni di welfare fornite dal settore pubblico (per via della riduzione del gettito associata, ceteris paribus, al taglio delle aliquote sui redditi da capitale e d’impresa). Ancora, la guerra tra capitali a differente base nazionale acuitasi dopo lo scoppio della crisi europea è sembrata trovare un possibile terreno di ricomposizione, ancorché temporanea e parziale, proprio nelle politiche di compressione del salario diretto, indiretto e differito adottate tanto nei paesi del centro quanto in quelli della periferia europea. Eppure, non soltanto la rimozione dei vincoli legali alla circolazione dei capitali non ha incontrato la resistenza dei partiti e delle organizzazioni sindacali eredi del movimento operaio novecentesco, ma è piuttosto vero il contrario (8).
Con rare eccezioni, proprio quei soggetti hanno accolto la rimozione delle barriere nazionali ai movimenti di capitale con particolare benevolenza, quasi che tale dismissione materializzasse d’incanto le vecchie aspirazioni illuministiche di fratellanza universale. Tale fraintendimento (frutto di un internazionalismo malinteso e paradossale) vanta, peraltro, radici nobili, anzi nobilissime. Queste affondano nel Discorso sul libero scambio dato alle stampe da Karl Marx nel gennaio del 1848. Com’è noto, in quel pamphlet Marx si schierava a favore dell’abolizione (avvenuta del giugno 1846) dei dazi sul grano introdotti dalle Corn Laws inglesi al termine delle guerre napoleoniche.
La ragione di tale presa di posizione (provocatoria e antitetica a quella prevalente nei partiti socialisti dell’epoca) è che la libera circolazione dei capitali e delle merci, proprio per il suo carattere distruttivo, avrebbe consentito il pieno disvelarsi della contraddizione capitale-lavoro, ponendo così le condizioni per la rivoluzione delle classi salariate. Naturalmente, di qui ad accettare acriticamente, o addirittura a sostenere attivamente, i processi di smantellamento dei controlli sui movimenti di capitale, e le connesse dinamiche di finanziarizzazione dell’economia, il passo avrebbe dovuto essere tutt’altro che breve.
Il giovane Marx si schierava a favore delle politiche liberoscambiste per il loro carico di «distruzione creatrice» – per dirla con Joseph Schumpeter – non certo perché fosse persuaso dall’equazione liberale «libera concorrenza uguale progresso sociale». (9) Eppure, nei fatti, è quest’ultima interpretazione quella che ha finito per prevalere tra gli eredi del movimento operaio, convertitisi frettolosamente al credo liberoscambista in seguito dell’implosione del blocco socialista. È così accaduto che la libera circolazione delle merci, della forza-lavoro e persino dei capitali siano assurti al rango di veri e propri dogmi delle formazioni della sinistra post-socialista, sia pure con rilevanti differenze nazionali.
Si noti che la ragione di tale favore per il libero scambio andrebbe ricercata nella pace sociale, nella prosperità economica e nell’estensione della sfera dei diritti civili e politici che esso sarebbe in grado di assicurare. Vi sarebbe, in altri termini, una stretta correlazione tra apertura dei mercati e democrazia politica, e tra questa e benessere economico, misurato in termini di più equa distribuzione della ricchezza e di maggiori opportunità individuali e dunque sociali.
Eppure gli studi più recenti condotti sull’evidenza empirica disponibile smentiscono platealmente tale correlazione e i nessi causali da essa sottesi (10).Nei fatti, l’apertura indiscriminata dei mercati nazionali alla penetrazione di capitali esteri si è accompagnata, tanto nei paesi cosiddetti «in via di sviluppo» quanto in quelli di prima industrializzazione, ad un aumento vertiginoso delle disparità sociali, ad una compressione delle garanzie democratiche, e – ciò che qui più interessa – ad una riduzione del sistema di protezione dei lavoratori salariati e ad una profonda ridefinizione del sistema di assistenza sociale.
Non pare, peraltro, che ciò sia stato compensato da un aumento del potenziale produttivo, stanti gli esangui tassi di crescita registrati dalle principali economie europee (e in particolare da quella italiana) sin dalla rimozione delle barriere nazionali sulle attività finanziarie (avvenuta con il Single Market Act dell’Unione Europea, approvato nel 1986 ed entrato in vigore sei anni dopo) (11).
Né un diverso effetto hanno sortito le «riforme» imposte, tra la metà degli anni settanta e la fine dei novanta, dal governo statunitense e dal Fondo Monetario Internazionale alle economie in difficoltà, dietro il ricatto del taglio dei finanziamenti accordati dal Fondo. Al punto che gli stessi colossi asiatici e sudamericani emergenti sono riusciti ad imporsi nell’ultimo quindicennio soltanto nella misura in cui hanno rigettato le politiche liberoscambiste dettate dall’agenda del cosiddetto Washington Consensus (12).
3. Teoria macroeconomica dominante e stato sociale
Nei paragrafi precedenti si è parlato di «ridefinizione», e non di «azzeramento», del sistema di welfare. Non è un caso. Ciò che i processi di globalizzazione capitalistica e che le politiche economiche messe in campo per governare tali processi prefigurano – in particolare nella loro declinazione social-liberista – è non la fine Stato in economia, ma una rivoluzione copernicana nelle forme del suo intervento. Tale ridefinizione ha finora seguito due direttrici principali: anzitutto, la deregolamentazione dei mercati, soprattutto dei mercati finanziari, ma ancor più la ri-regolamentazione de-politicizzante delle istituzioni preposte al governo dell’economia (13);
in secondo luogo, quale complemento della prima, lo spostamento netto del baricentro dell’intervento dello Stato in economia dalla politica fiscale alla politica monetaria. Se nei paesi anglosassoni, Stati Uniti in testa, ciò si è tradotto nel paradossale «keynesismo finanziario» che ha dominato la scena degli anni novanta e della prima metà dei duemila (14),nello stesso periodo le economie emergenti e l’Europa continentale sono cresciute al traino della domanda di merci proveniente dai primi, grazie al canale delle esportazioni.
Il modello «neo- mercantilista» di sviluppo seguito dalle principali economie dell’Area Euro – e dalla Germania su tutti – sembra, peraltro, il più in linea con il paradigma di teoria economica oggi dominante nel mondo accademico. Tale paradigma è stato messo a punto tra la fine degli anni ottanta e lo scadere del decennio successivo e, benché variamente denominato (15),è stato ben presto ribattezzato – per la sua natura di sintesi tra la modellistica monetarista dei primi anni ottanta e il «keynesismo bastardo» dominante fino alla metà degli anni settanta, ma anche per la sua pervasività – come Nuovo Consenso in macroeconomia (d’ora in poi, NCM).
L’assioma di base del NCM è che, nel lungo periodo, il flusso di ricchezza prodotto all’interno di un dato sistema economico tenda a stabilizzarsi in un intorno del proprio livello naturale16.Quest’ultimo sarebbe definito unicamente dalla tecnologia disponibile, dalla scarsità di risorse (e cioè dalla disponibilità di capitale e forza-lavoro), e dal sistema di preferenze dei consumatori. Nel breve periodo sono possibili scostamenti delle grandezze reali (prodotto nazionale, reddito, occupazione) dai loro livelli naturali a causa di shock stocastici (ossia di eventi inattesi), come, ad esempio, un provvedimento di politica economica non sistematico (e dunque non previsto dagli operatori privati), ma nel lungo periodo esse torneranno ad assestarsi al loro valore naturale.
Più in dettaglio, il modello dominante è composto da tre equazioni che legano tra loro le tre variabili macroeconomiche fondamentali, ossia il prodotto nazionale, il tasso di inflazione e il saggio di interesse. Nell’ordine: (i) il prodotto nazionale (o, meglio, lo scostamento del suo livello corrente da quello naturale) dipende negativamente dal saggio di interesse reale (al netto, cioè, dell’inflazione) (17);
(ii) il tasso di inflazione è funzione positiva del prodotto nazionale (o, meglio, del suo scostamento dal livello naturale)18.Dalla (i) e dalla (ii) segue, come sillogismo, che l’inflazione dipende dal saggio di interesse reale. In particolare, se ci si fermasse a queste sole due equazioni, si avrebbe inflazione crescente ogniqualvolta il volume corrente del prodotto nazionale fosse superiore al suo volume naturale, e cioè ogniqualvolta il saggio di interesse reale fosse inferiore ad una certa percentuale, detta “tasso di interesse naturale” (19).Compito delle autorità di politica monetaria è, dunque, quello di fissare scientificamente il saggio di interesse di riferimento in corrispondenza di quella percentuale.
Quest’ultima dipenderà positivamente dal tasso di inflazione corrente e atteso (20),nonché dallo scostamento del prodotto nazionale dal suo livello naturale (21).In tale contesto, la politica monetaria – l’equazione (iii) del sistema – diviene lo strumento di intervento privilegiato delle autorità pubbliche. Infatti, se il volume naturale del prodotto nazionale e dunque il livello naturale di occupazione sono dati, alla politica fiscale spetta appena il ruolo ancillare di stabilizzazione del ciclo economico, e soltanto nei limiti imposti dal rispetto del pareggio di bilancio.
Ne consegue, ancora, che la politica monetaria deve essere isolata dai governi e delegata ad istituzioni indipendenti, dato che i primi potrebbero essere tentati di utilizzarla per scopi elettorali. Infatti, nel breve periodo una politica monetaria «lassista» o una politica fiscale espansiva finanziata mediante creazione di base monetaria potrebbero spingere temporaneamente il prodotto nazionale (e dunque il livello di occupazione) al di sopra del suo livello naturale, favorendo il rinnovo del consenso accordato dagli elettori alle forze di governo. L’unico effetto di lungo periodo sarebbe, però, una destabilizzazione delle aspettative inflazionistiche, accompagnata da maggiori tassi di interesse e – è questa una sorta di «equazione nascosta» del modello del NCM – da un minor benessere sociale (22).
Come anticipato, tale modello teorico assume una valenza particolare nel caso dell’Area Euro. Quest’ultima è stata costruita ad immagine e somiglianza dell’economia dominante, quella tedesca, la cui crescita è da sempre affidata al traino delle esportazioni nette. A partire dal secondo dopoguerra, queste hanno infatti rimpiazzato la spesa militare come fonte di domanda autonoma per l’industria tedesca. Non è, in effetti, un caso che il punto di forza dell’export tedesco sia rappresentato dal settore dei beni di investimento, frutto della riconversione della vecchia industria bellica.
D’altra parte, i mercati dei paesi del Sud Europa hanno sostituito le steppe russe o l’Appennino tosco-emiliano quale terreno di scontro e di estensione della propria area d’influenza23.Sennonché, il maggior nemico di tale modello è la crescita dei prezzi o, meglio, un divario inflazionistico positivo con i principali concorrenti. Maggiore inflazione (sia essa dovuta alla dinamica dei salari unitari, ovvero a quella della produttività del lavoro) si traduce, infatti, in una minore competitività delle produzioni nazionali rispetto a quelle dei rivali esteri24.Ecco perché da sempre le autorità tedesche avversano ogni tipo di provvedimento che possa determinare un allentamento delle politiche di controllo dei prezzi25.È questa, nei fatti, l’equazione nascosta che si aggiunge al modello (i)-(ii)-(iii) applicato all’Area Euro a guida tedesca26.
Sul piano del welfare, ciò si traduce non nella scomparsa tout court del modello europeo-continentale di stato sociale, ma in un rovesciamento delle sue finalità e della sua natura, in funzione dell’attuale fase di ridefinizione della catena transazionale del valore. Ancora una volta il modello di riferimento è quello tedesco delle cosiddette riforme Hartz (o Agenda 2010), ossia dei quattro pacchetti di riforme del mercato del lavoro volute dal governo socialdemocratico di Gerhard Schröder ed entrate in vigore tra il 2003 e il 2005. In estrema sintesi, si tratta di una copertura di welfare universalista introdotta come contropartita ad una massiccia deregolamentazione-flessibilizzazione dei contratti di lavoro salariato.
Ne è derivata, in Germania, una crescita nulla dei salari nominali e addirittura una sensibile contrazione del salario reale percepito da vaste fasce di lavoratori nell’ultimo decennio. Nei fatti, ciò ha consentito alle imprese tedesche di scaricare il costo della manodopera sullo Stato (al quale la riforma costa circa trenta miliardi di euro l’anno), nonché di espungere definitivamente la forza-lavoro dal governo delle decisioni di produzione (con l’eccezione di una piccola «aristocrazia» sindacale attiva, per lo più, all’interno di pochi colossi industriali).
In effetti, mini-job, midi-job ed altre forme contrattuali flessibili (per lo più non coperte dai contratti collettivi ed esenti dalle imposte), accoppiate ad una miriade di sussidi (reddito minimo, contribuito per l’affitto, assegni familiari, ecc.), hanno trasformato la Germania nel paese con il maggior numero di lavoratori a basso salario: una percentuale del 22%, contro i pochi punti percentuali di Francia e paesi scandinavi, e una media dell’Area Euro di 14-15% (fonte: Eurostat 2013; cfr. anche Gallino 2012). De te fabula narratur, dunque?
Le recenti proposte di modifica in chiave universalista del (ben più asfittico) sistema di welfare italiano sembrerebbero confermare tale ipotesi, se non fosse che la situazione italiana (come quella degli altri paesi periferici dell’Area Euro) si presenta assai più drammatica sul piano delle possibilità di copertura, vista la dimensione del servizio annuale sul debito pubblico.
Note
1.Come è stato osservato, sembrava, per contro, che tutte le profezie marxiane si stessero inverando: dall’immiserimento relativo delle classi lavoratrici, al conflitto crescente tra salariati e classi proprietarie; dalla caduta generalizzata del saggio di profitto all’aumento dell’instabilità economica e finanziaria; dalla centralizzazione e concentrazione dei capitali, alle tensioni crescenti tra Stati-Nazione per l’estensione delle rispettive aree di influenza politica ed economica (cfr. Screpanti e Zamagni 2000).
2.Come dovrebbe essere chiaro, l’articolo muove da una visione pre-analitica o, meglio, da un punto di vista di classe, ben definito: quello del lavoro salariato. Viene con ciò rigettata la pretesa, avanzata e condivisa dalla maggior parte della comunità accademica degli economisti, di considerare l’economics una scienza astorica, priva di una dimensione valoriale e di connotazioni socio-politiche (o wertfrei, per usare un’espressione cara alla tradizione di pensiero «austriaca»). L’economia dominante viene qui, anzi, riguardata come la forma privilegiata di auto-rappresentazione della classe sociale egemone, i cui interessi particolari (i.e. l’estensione-intensificazione massima dei rapporti capitalistici di produzione e di scambio) vengono assunti e rappresentati come interesse generale. Specularmente, il pensiero economico «critico» (nelle sue numerose declinazioni: marxiano, sraffiano, post-keynesiano e kaleckiano, per citare solo le correnti più note) viene recuperato e reinterpretato come tentativo di disvelamento della natura apologetica delle categorie dell’economico (ossia come «critica dell’economia politica») e, al contempo, come analisi critica del reale. Si tratta di un approccio che rovescia le premesse teoriche da cui muove il pensiero dominante, a partire dalla visione di un mondo privo di conflitto sociale, popolato da individui identici e sovrani, assimilati a consumatori perfettamente razionali ed infinitamente preveggenti. Un mondo in cui la moneta è appena un «velo» posto sulle grandezze reali e l’attività di produzione e di scambio è vincolata soltanto dalla tecnologia e dal fondo di risorse disponibili. Si noti, al riguardo, che è possibile ricondurre, almeno in prima approssimazione, l’insieme dei filoni critici al cosiddetto «paradigma della riproduzione», contrapposto al «paradigma della scarsità» che sottende il pensiero economico dominante e le politiche liberoscambiste (su questo punto, si rinvia a Brancaccio 2012, nonché a Brancaccio e Passarella 2012).
3.L’utilizzo delle etichette «liberista» o «neoliberista» per denominare l’intero arco di posizioni che hanno dominato la politica economica dell’ultimo ventennio nei paesi avanzati è, a rigor di termini, improprio. Anzitutto, nessun governo ha mai applicato ricette liberiste tout court. La sinistra si è, infatti, caratterizzata per una posizione che è stata efficacemente ribattezzata «social-liberismo» (cfr. Bellofiore e Halevi, 2010). In estrema sintesi: liberalizzazioni dei mercati dei beni e dei servizi accoppiate a regolamentazioni, al fine di smussare le imperfezioni della concorrenza, più riduzione dei disavanzi pubblici, al fine di «liberare» risorse da destinare a crescita e redistribuzione dei redditi. D’altro canto, i governi conservatori si sono caratterizzati per una posizione ancor meno «liberista». In effetti, la deregolamentazione del mercato del lavoro e i tagli al welfare sono spesso stati associati con la tutela dei monopoli e un uso pragmatico, talvolta spregiudicato, delle finanze pubbliche (soprattutto attraverso la riduzione della pressione fiscale sui redditi più elevati e sui grandi patrimoni). È questa seconda posizione che dovrebbe essere definita propriamente «neo-liberista». Tuttavia, per ragioni di comodità espositiva, nel resto dell’articolo mi atterrò alla pratica, prevalente in letteratura, di denotare con l’espressione di «politiche neoliberiste» entrambe le opzioni.
4.L’economia italiana rallenta già a partire dalla metà degli anni sessanta, con un’ulteriore flessione a seguito delle turbolenze valutario-finanziarie legate alla fine di Bretton Woods, delle due crisi petrolifere degli anni settanta, e soprattutto degli «impegni» presi in vista dell’entrata nello SME prima e dell’adozione della valuta unica poi (cfr. Graziani 1975, 1989).
5. Il recente cambio di rotta impresso da Mario Draghi e dal board della BCE (cfr. S24O 2013; si veda anche Passarella Veronese 2014a) se, da un lato, ha temporaneamente stabilizzato i mercati dei titoli di Stato dei paesi periferici, dall’altro, non prefigura ancora per l’istituto di Francoforte quel ruolo di «prestatore di ultima istanza» del settore pubblico che varrebbe a rompere il ricatto dei mercati finanziari. Piuttosto, proprio l’uso condizionale delle operazioni di acquisto dei titoli di Stato dei paesi «periferici» è valso a rimarcare il ruolo politico della BCE quale arbitro del conflitto tra capitali europei a differente base nazionale. Su questo punto, si rinvia a Brancaccio e Fontana (2013).
6.Si pensi a Spagna e all’Irlanda che, alle soglie della crisi del 2007, potevano vantare debiti pubblici risibili (pari al 38% e al 25% del PIL, rispettivamente). Anche l’Italia, che pure aveva accumulato un debito pubblico assai elevato, ne aveva visto ridurre il peso proprio negli anni precedenti la crisi (dal 121.8% del 1994 al 103.6% del 2007). Si noti che sempre l’Italia è, tra i paesi dell’Area Euro, quello in cui il debito è cresciuto meno dallo scoppio della crisi: +27% dal 2007 al 2012, contro il +34% registrato dalla virtuosa Germania nello stesso periodo (fonti: Eurostat 2013; FMI 2013). Per contro, il disavanzo delle partite correnti di Irlanda, Portogallo, Spagna e Grecia (e, in misura diversa, Italia) verso i paesi del centro è cresciuto costantemente fino allo scoppio della crisi.
7.Per una ricostruzione puntuale delle ragioni della crisi delle economie «periferiche» dell’Area Euro, a partire dalle specificità italiane, si rinvia a Brancaccio e Passarella 2012.
8.Si noti che tali vincoli (introdotti soprattutto in seguito agli accodi di Bretton Woods) avevano garantito la stabilità finanziaria del dopoguerra.
9.Si vedano, al riguardo, Burgio e Cavallaro (2002).
10.Si rinvia, tra gli altri, a Galbraith (2012), Rodrik (2011), Krugman (2008) e CE (2007).
11.Si noti che, in base alla teoria economica dominante, le politiche liberoscambiste consentirebbero una più efficiente allocazione delle risorse. In particolare, esse permetterebbero ai capitali di affluire dalle regioni economicamente più avanzate (in cui i risparmi sono più abbondanti) verso le regioni meno avanzate (in cui i capitali sono più scarsi e dunque il loro rendimento è più elevato), producendo, attraverso la crescita degli investimenti produttivi, una tendenziale convergenza dei livelli di competitività delle seconde a quelli delle prime. È su questa base Blanchard e Giavazzi (2002), tra gli altri, hanno argomentato che gli squilibri esteri interni all’Area Euro andavano interpretati come un segno di integrazione crescente delle economie dell’area. La crisi cosiddetta «dei debiti sovrani», in cui i flussi di capitale dal centro alla periferia hanno agito da elemento di amplificazione delle divergenze reali tra paesi-membri, è soltanto l’ultima delle clamorose smentite ricevute da tale teoria. Sui problemi connessi ai processi di integrazione finanziaria, si rinvia a Passarella Veronese 2014b,c.
12.Il termine Washington Consensus viene solitamente associato alla deregolamentazione dei mercati finanziari (ossia alla riduzione dei controlli sulle attività bancarie e sui movimenti internazionali di capitali) e alle politiche di apertura dei mercati di beni e servizi prescritte da Williamson (1990). Benché tale interpretazione sia contestata dal suo autore, il «decalogo» di Williamson ha costituito la base teorica delle ricette liberoscambiste richieste dal Fondo Monetario Internazionale e dal governo statunitense ai governi delle economie in via di sviluppo nel corso degli anni novanta.
13.Non dovrebbe, a questo punto, sfuggire il rapporto di gemellanza siamese intercorrente tra apertura dei mercati (intesa soprattutto come rimozione dei controlli sui movimenti dei capitali) e finanziarizzazione dell’economia, essendo quest’ultima legata a doppio filo all’accelerazione nel processo di concentrazione di capitale resa possibile dalla prima. In merito all’interpretazione del paradigma dominante in termini di ri-regolamentazione de-politicizzante, si rinvia a Major (2012).
14.Un «keynesismo privatizzato», come è stato icasticamente definito da Bellofiore (2012a), in cui la crescita economica era trainata dalla domanda privata per consumi a debito. Questi ultimi, a loro volta, erano drogati dal boom dei mercati delle attività finanziarie e immobiliari, il cui valore di mercato veniva sapientemente pilotato dalla banca centrale attraverso la fissazione del tasso di interesse di riferimento e tramite strumenti monetari non-convenzionali.
15.I suoi promotori vengono talvolta definiti come Nuovo-Keynesiani (per via del ruolo assegnato alla rigidità di prezzi e salari, anche se tale rigidità è un tratto distintivo più degli interpreti neoclassici di Keynes che di Keynes stesso), talaltra come Neo-Wickselliani (per il ruolo assegnato allo scostamento del tasso di interesse effettivo dal suo livello «naturale» quale causa del ciclo economico).
16.Il lungo periodo, detto talvolta anche «medio periodo», è quella dimensione logico-temporale in cui le aspettative inflazionistiche di tutti gli agenti economici sono pienamente realizzate. Si, tratta a ben vedere, appena di un caso di scuola o, meglio, di un’ipotesi teorica, che non trova mai riscontro nel «mondo reale». Sulle implicazioni di tale ipotesi nell’ambito del modello economico dominante, nonché per una critica di tale modello, si rinvia a Fontana e Passarella Veronese (2014).
17.Intuitivamente, la ragione è che maggiore è il costo reale del denaro, minore saranno gli investimenti, i consumi a credito e le esportazioni nette (per via dell’apprezzamento della valuta determinato dal maggior tasso di interesse). In realtà, da un punto di vista formale, tale relazione viene derivata tramite un processo di massimizzazione vincolata della funzione di utilità che sottende le scelte intertemporali di consumo/risparmio di un agente-consumatore rappresentativo.
18.Si tratta di una particolare declinazione della cosiddetta curva di Phillips, una regolarità empirica che metteva originariamente in relazione il tasso di variazione dei salari monetari (o dei prezzi) con il tasso di disoccupazione. Nella versione del NCM, le due variabili considerate sono la variazione del tasso di inflazione e l’output gap, ossia lo scostamento della produzione corrente dal suo livello naturale. Intuitivamente, quanto maggiore è tale scostamento, tanto maggiori saranno (in via temporanea) l’occupazione e il potere contrattuale dei lavoratori e dunque (in via permanente) la crescita dei salari nominali e dei prezzi.
19.Naturalmente, nel caso contrario si assisterebbe ad una spirale deflazionistica.
20.O, meglio, dal suo scostamento rispetto all’obiettivo inflazionistico della banca centrale. Si noti, al riguardo, che nell’ambito dell’Area Euro il tasso di inflazione obiettivo è il 2%. Più precisamente, la Banca Centrale Europea si impegna a garantire un tasso di inflazione – definito come l’incremento annuale nell’indice dei prezzi al consumo, HICP – «inferiore ma vicino al 2%» (cfr. ECB 2011).
21.È questa la cosiddetta regola di Taylor, ossia la regola che le banche centrali devono seguire per la fissazione del tasso di interesse di riferimento sul mercato monetario unsecured (ossia senza garanzie collaterali). Si noti che la (i) e la (iii), prese congiuntamente, forniscono una relazione negativa tra quantità prodotta e variazione dei prezzi che può essere interpretata come la curva di domanda aggregata del sistema. L’equazione (ii) può, invece, essere interpretata come la curva di offerta aggregata dell’economia. Per un’introduzione al modello del Nuovo Consenso, si rinvia a Fontana e Passarella Veronese (2014). Per una rilettura critica della regola del banchiere centrale si rinvia, invece, a Brancaccio e Fontana (2013).
22.Di equazione nascosta ha parlato esplicitamente Lavoie (2006).
23.Pochi dati valgono a chiarire questo punto. Il peso delle esportazioni tedesche é superiore al 50% del PIL del paese. Dal 2007 la Germania registra un avanzo delle partite correnti gigantesco, nell’ordine del 6% del PIL. Nel 2012, il surplus nominale delle partite correnti tedesche ha superato quello della Cina. Col che dovrebbe risultare chiaro che quello tedesco è un modello intrinsecamente «non-cooperativo». Esso non può prestarsi, per sua stessa natura, a fungere da traino di una più ampia area commerciale e valutaria, essendo specificamente progettato per drenare risorse monetarie dalle altre economie. Per un approfondimento di questo aspetto, si rinvia al bel saggio divulgativo di De Cecco e Maronta (2013).
24.Si noti, al riguardo, che ciò che conta (in termini di competitività relativa) sono non già i livelli assoluti di produttività del lavoro e dei salari nominali, ma la loro variazione nel tempo.
25.Per contro, merita appena di essere richiamato il clamoroso falso storico dell’iper-inflazione tedesca degli anni Venti quale elemento precursore del nazismo. L’inflazione tornò, infatti, sotto controllo già nel 1924, mentre l’ascesa di Hitler fu favorita dalla disoccupazione generata dai pesanti provvedimenti deflazionistici adottati dal governo tedesco nei primi anni Trenta.
26.Si noti che, a dispetto delle sue riconosciute falle previsionali, quel modello costituisce la base per le previsioni di lungo periodo effettuate dai ricercatori della Banca Centrale Europea. Le previsioni di breve termine sono, invece, affidate a più tradizionali modelli econometrici.
27.Non é questa la sede per una disamina approdondita circa i diversi significati attribuiti a ciascuna definizione dai rispetti promotori. Sinteticamente, la principale differenza tra il reddito di base incondizionato (o di cittadinanza o basic income) e il reddito minimo garantito é che il primo, a differenza del secondo, é universale e illimitato nel tempo. Per contro, il reddito minimo garantito si configura come una forma di sostegno per chi é temporaneamente disoccupato, é vincolato all’accettazione da parte del beneficiario di eventuali proposte di lavoro, e puó essere erogato anche a chi percepisca un reddito da lavoro inferiore ad una soglia minima.
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Fonte: https://www.sinistrainrete.info
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