Contro il liberoscambismo (2a parte)
di SINISTRA RETE (Marco Veronese Passarella)
4. Reddito o lavoro?
Nell’ultimo decennio il dibattito italiano sulle necessità di revisione del sistema di previdenza sociale è ruotato attorno alla proposta di introduzione di un reddito minimo garantito ovvero di un reddito di base incondizionato (27).A destra dello schieramento politico, tale proposta è stata declinata prevalentemente in termini di sostituzione della molteplicità di sussidi elargiti dallo Stato (in forma di sussidi di disoccupazione, cassa integrazione guadagni, e così via) con un unico sussidio universale che consenta di superare le disparità di trattamento legate alla miriade di forme contrattuali introdotte a seguito dei provvedimenti di flessibilizzazione del mercato della forza-lavoro.
Intesa come contropartita alla riduzione del grado di protezione contrattuale dei lavoratori, la proposta di reddito minimo incontra oggi – almeno sulla carta – un consenso piuttosto ampio, anche (e forse soprattutto) negli ambienti della sinistra di governo. Essa costituisce il principale pilastro della cosiddetta flexicurity. Tale idea riecheggia, del resto, una vecchia suggestione di Milton Friedman, la celebre negative income tax (imposta negativa sul reddito o NIT), ossia un sussidio pari all’eventuale differenza tra una soglia minima di reddito imponibile stabilita per legge e il reddito effettivamente percepito in un certo nucleo familiare (28). A sinistra, soprattutto negli ambienti della sinistra radicale, la proposta di introduzione di un reddito di base incondizionato è, per contro, solitamente legata alla sua presunta natura di «salario sociale legato ad una contribuzione produttiva oggi non remunerata e non riconosciuta», quella dell’«intellettualità diffusa e [de] la dimensione cognitiva del lavoro» (Fumagalli e Vercellone 2013; cfr. anche Fumagalli 2013).
Essa muoverebbe, insomma, dalla presa d’atto che il regime di regolazione post-fordista è caratterizzato da una quota crescente di «tempo di lavoro necessario» – per utilizzare una categoria cara al pensiero marxista – che non viene contrattualmente sanzionata. Tale flusso di «lavoro» cognitivo sarebbe erogato al di fuori dei luoghi tradizionalmente deputati alla produzione di merci, nell’ambito, cioè, di forme molteplici di interazione sociale che si vorrebbero immediatamente produttive di valore e di plusvalore. L’erogazione di un reddito di base incondizionato varrebbe, perciò, a ristabilire una corrispondenza tra contributo produttivo dei fattori della produzione e quota di prodotto sociale loro spettante (29).
Lasciando da parte le ragioni che lo motivano, e concentrandosi sui suoi effetti potenziali, l’introduzione di un reddito di base incondizionato in un contesto di elevata flessibilità del mercato della forza-lavoro, di estrema debolezza delle organizzazioni dei lavoratori e di fragilità finanziaria degli Stati, solleva tre ordini di perplessità: due di natura economico-politica, e una di natura filosofico-sociale. Il primo ordine di perplessità concerne le possibilità di copertura finanziaria di tale provvedimento, dati anche i vincoli derivanti dall’adozione della valuta unica e dai trattati internazionali sottoscritti dallo Stato italiano.
Da un calcolo preliminare dei costi ad esso associati sembrerebbe di poter concludere che l’estensione di un reddito di base incondizionato, ove tale reddito fosse rilevante, sarebbe incompatibile con un livello di pressione fiscale socialmente accettabile (30).In tal senso, più che fungere da elemento di ricomposizione della forza-lavoro, tale misura rischierebbe di produrre un’ulteriore frattura tra lavoratori stabili (e per questo contribuenti netti), da un lato, e lavoratori precari, inattivi ed altri sussidiati (ossia i beneficiari netti del provvedimento), dall’altro. Si potrebbe, forse, argomentare che la sostenibilità finanziaria (e sociale) del reddito di base potrebbe, almeno in linea teorica, essere sempre conseguita all’interno di un paese dotato di piena sovranità valutaria, mediante politiche di monetizzazione della spesa pubblica contratta a tal fine. Tuttavia, la prospettiva di un’uscita dall’Euro non viene mai evocata dai promotori di tale provvedimento.
Un secondo ordine di perplessità rimanda al cosiddetto «effetto Speenhamland» (31).
Come segnalato da numerosi studiosi, sulla scorta del contributo di Karl Polanyi (1944), il rischio è che si crei una «dinamica per cui l’erogazione benintenzionata di un ‘sussidio’ che consente alle imprese di pagare retribuzioni più basse, nel tempo si trascina dietro al ribasso l’intera struttura dei salari, e finisce così col ritrasformare i lavoratori in mendicanti – tanto più quanto più la crisi morde» (Bellofiore 2012b). Lungi dal fungere da elemento di sostegno del potere contrattuale dei lavoratori, il reddito garantito o di base consentirebbe alle imprese di appropriarsi di quote crescenti di prodotto sociale netto, grazie ad una forza-lavoro atomizzata (per via dell’intermittenza lavorativa) e scarsamente incentivata alla rivendicazione salariale (per via della certezza di un minimo vitale). Proprio il caso tedesco é emblematico in tal senso.
Vi è, infine, una terza ragione di perplessità di ordine filosofico, peraltro gravida di conseguenze sociali. Lo scambio intermittenza lavorativa versus certezza dei flussi di reddito non fa i conti con la natura duale del lavoro salariato, che è sì «lavoro astratto», ossia attività produttrice di «valore (di scambio)» – e in quanto tale veicolo di alienazione e di sfruttamento – ma anche, al contempo, «lavoro concreto», ossia attività produttrice di «valori d’uso» – e in quanto tale elemento di definizione della propria identità individuale e sociale. Nel tempo, il combinato disposto di reddito garantito e precarietà lavorativa cristallizza i rapporti di produzione dati, elimina ogni residuo di «potere operaio» nella produzione, e dunque rafforza la divisione in classi della società capitalistica (32).
In altre parole, in assenza di un salario minimo e, ancor più, di un piano per la piena occupazione, la semplice erogazione di un sussidio monetario rischia di tradursi in degrado ed emarginazione sociale. Dai ghetti dei nativi australiani alle periferie berlinesi, gli esempi di come politiche di elargizioni monetarie possano produrre effetti socialmente regressivi non mancano. Di certo, tali politiche non paiono in grado, da sole, di prefigurare alcun rovesciamento nei rapporti sociali scaturiti dai processi di finanziarizzazione e globalizzazione che hanno investito le principali economie capitalistiche nell’ultimo trentennio, rischiando anzi di fungere da foglia di fico (o addirittura da amplificatori) di tali processi.
5. Per una ripresa della pianificazione pubblica
Esiste un’alternativa? La domanda è meno retorica di quanto possa sembrare. Gli attuali assetti politici internazionali, ed ancor più la condizione di estrema debolezza (sul piano ideologico, o dell’immaginario, non meno che su quello dei rapporti di forza) delle classi salariate, non sembrano lasciare troppi spazi a scenari di cambiamento radicale dell’esistente. Proprio l’acuirsi della crisi in cui l’Italia e la maggior parte dei paesi europei sono sprofondati nell’ultimo quinquennio potrebbe, però, dischiudere alcune possibilità di trasformazione. Al riguardo, comincia, sia pure lentamente, a farsi largo la consapevolezza che – accantonata la retorica facile (benché non priva di fondamento) sul malaffare e la corruzione della classe politica quali problemi endemici della vita pubblica italiana e sud-europea in genere – non via sia, in realtà, «spreco» maggiore che milioni di (giovani e meno giovani) lavoratori disoccupati o sotto-occupati.
Che, cioè, non sia un generico eccesso di spesa pubblica «improduttiva» a far problema, ma, al contrario, la carenza di domanda (autonoma) aggregata legata a doppio filo alle politiche di aggancio valutario in vista dell’adozione della valuta unica prima, ed alle misure di austerità poi. Se i paesi forti dell’Area Euro (essenzialmente, Germania e «satelliti») hanno potuto contare sul canale delle esportazioni nette per dare fiato alla domanda, l’Italia ha pagato doppiamente la politica di alti tassi di interesse perseguita a partire dai primi anni ottanta, anche in seguito al «divorzio» tra Banca Centrale e Tesoro (33). Adottata al fine di sostenere il rapporto di cambio con il Marco e le altre valute forti, tale politica non soltanto ha inciso negativamente sulla competitività delle merci italiane (e dunque sulle esportazioni nette), ma ha disincentivato l’investimento privato proprio mentre rendeva quello pubblico assai più gravoso, per via della crescita del servizio sul debito.
Le privatizzazioni degli anni novanta, ufficialmente adottate allo scopo di abbattere il debito pubblico ed entrare nell’area della valuta unica, hanno ulteriormente indebolito la struttura produttiva italiana. D’altra parte, gli effetti depressivi delle politiche di austerità adottate nell’ultimo quinquennio nell’Area Euro sono ormai ampiamente documentati34.In questo contesto, il breve periodo di stabilità economica e di relativa solidità finanziaria registrato all’indomani del lancio della valuta unica deve essere riguardato più come un’eccezione che come la regola. Incidentalmente, esso è altresì la controprova del fatto che l’andamento del debito pubblico (in rapporto a PIL) è determinato dall’andamento del tasso reale di interesse sui titoli (nonché dal tasso di crescita del PIL), e non viceversa (35).
Ecco perché commentatori assai autorevoli da tempo invocano, per i paesi-membri dell’Area Euro, la cessazione delle politiche di austerità, in favore di politiche di stimolo fiscale opportunamente «supportate» dalla banca centrale attraverso misure di stabilizzazione dei rendimenti sui titoli di Stato (36). In caso contrario, il rischio è quello della desertificazione produttiva di intere aree del Sud Europa, Italia compresa, ovvero di una deflagrazione incontrollata dell’unione valutaria.
Il riconoscimento del ruolo della spesa pubblica quale surrogato necessario della spesa privata carente e del ruolo della politica monetaria quale fattore chiave nella determinazione degli spazi di agibilità finanziaria rappresentano, di certo, due passi avanti rispetto all’improbabile dottrina dell’«austerità espansiva» (37). Deve però essere chiaro che l’adozione di politiche fiscali attive e di politiche monetarie accomodanti, benché necessaria, non sarebbe sufficiente a fronteggiare la grave crisi in cui versa l’economia italiana, nel contesto più ampio della crisi delle economie avanzate.
A certe condizioni, essa potrebbe, anzi, rivelarsi un boomerang. Anzitutto, in assenza di una piena sovranità valutaria e di barriere alla circolazione dei capitali, si materializzerebbe immediatamente il rischio di un peggioramento repentino del conto corrente della bilancia dei pagamenti che alimenterebbe l’attività di speculazione contro i titoli del debito pubblico italiano. Ciò spingerebbe inesorabilmente il paese verso un’uscita «forzata» dall’area della valuta unica, inverando e premiando le scommesse ribassiste degli investitori.
In questo scenario, le classi dirigenti sarebbero portate a spingere ulteriormente sul pedale dell’austerità e della riduzione delle garanzie contrattuali dei lavoratori salariati, al fine di contenere gli effetti inflazionistici e sostenere la bilancia commerciale (magari in cambio di promesse circa un sistema di copertura universalista da adottarsi a tempesta passata) (38). La caduta dei valori di mercato delle attività nazionali legata all’iniziale probabile sovra-deprezzamento della valuta rispetto alle valute delle economie forti aprirebbe poi la strada ad un processo ancor più accentuato di acquisizioni estere di imprese italiane, con un ulteriore pregiudizio per i livelli (e le condizioni) occupazionali.
L’introduzione di vincoli stringenti alla circolazione dei capitali deve dunque essere riguardata come la precondizione di ogni forma di intervento attivo dello Stato italiano. Senza l’introduzione di tali vincoli, nessuna strada alternativa alle politiche di «rigore» di bilancio sarebbe sostenibile a lungo. Sennonché, tale posizione si scontra frontalmente con il testo dei Trattati europei che escludono sia la possibilità di finanziamento dei disavanzi del settore pubblico tramite la Banca Centrale Europea, sia l’adozione (a livello nazionale o europeo) di controlli sui movimenti di capitali. Ancora una volta, in assenza di un mutamento radicale negli assetti istituzionali europei, quella di un’uscita – sia pure stavolta «pilotata» e non subita – dalla valuta unica si rivela ben più che una mera ipotesi di scuola (39).
Ma uscire per fare che? Dato il ritardo tecnologico accumulato dal nostro paese nei confronti delle altre economie avanzate, un semplice intervento di sostegno alla domanda non sarebbe comunque sufficiente a riportare stabilmente l’economia italiana su un sentiero di crescita sostenuta e duratura. Decenni di stagnazione economica hanno, infatti, reso il settore industriale italiano cronicamente dipendente dai mercati esteri non soltanto per gli approvvigionamenti energetici, ma anche per l’importazione di tecnologia (cfr. Lucarelli et al. 2013). In tale contesto, l’affidamento esclusivo della ripresa economica alle forze del mercato non farebbe che accentuare gli squilibri esteri, favorendo l’acquisizione di ciò che rimane del sistema produttivo e bancario italiano (40).
L’allontanamento dei centri decisionali dal paese andrebbe di pari passo con l’allontanamento delle possibilità di cambiamento radicale dei rapporti sociali esistenti. La via di uscita dalla crisi non può, dunque, che passare per una più vasta area di intervento del settore pubblico. Questo dovrebbe intervenire non solo e non tanto come acquirente-finanziatore di ultima istanza del settore privato, ossia con interventi dal lato della domanda, ma anche e soprattutto come produttore e occupatore di prima istanza, vale a dire con interventi dal lato dell’offerta. Lo Stato italiano dovrebbe, cioè, impegnarsi direttamente nella produzione di quei beni di base in cui maggiori sono i «fallimenti del mercato» e che devono, anche in un contesto capitalistico, essere sottratti alla logica dell’accumulazione privata (41). Dall’infrastrutturazione (a basso impatto ambientale) del territorio all’edilizia pubblica, dallo sfruttamento di nuove fonti energetiche alla ricerca di base e applicata, fino al controllo diretto di alcune industrie strategiche (inclusi i settori bancario e assicurativo) gli esempi sono innumerevoli.
Si tratta, in altri termini, di riprendere, ripensare ed ampliare, quell’insieme di strumenti di programmazione e di pianificazione economica che consentirono al paese di imboccare la strada del cosiddetto «miracolo economico», lasciandosi alle spalle le macerie del secondo conflitto mondiale. Sono gli stessi strumenti che, in anni più recenti, hanno consentito ad alcune economie emergenti di affrancarsi dalle necessità di ricorso ai prestiti elargiti dal Fondo Monetario e dalla conseguente agenda di riforme. L’obiettivo immediato dovrebbe essere quello della «piena e buona occupazione», ossia dell’azzeramento tendenziale del tasso di disoccupazione involontaria, favorito anche tramite politiche di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. Nel medio periodo, ciò dovrebbe poi tradursi in una crescente «socializzazione dell’investimento» che riservi alle istituzioni democratiche il controllo sul volume e soprattutto sulla composizione della produzione annuale.
Si noti che l’aumento del prodotto netto (corrente, ma anche potenziale, per via della riduzione dell’isteresi negativa legata alla disoccupazione) dell’economia che deriverebbe dalla messa all’opera dei lavoratori e degli altri fattori inoccupati, fornirebbe ex post (parte de) le risorse necessarie alla propria copertura finanziaria (42).Quanto al settore delle imprese, esse potrebbero contare su un flusso di domanda (dipendente e autonoma) elevata e stabile, nonché su un accesso più agevole al credito bancario, il che varrebbe a compensarle (almeno parzialmente) per l’inevitabile riduzione degli spazi di iniziativa privata e della quota reale di reddito nazionale da esse appropriato.
L’idea di un «piano per il lavoro» come perno di un nuovo sistema di welfare e di relazioni sociali é, del resto, una proposta che va oltre le necessità nazionali contingenti. Giova ricordare che la funzione storica «capitalistica» dello stato sociale, nell’ambito delle economie di mercato, é stata anzitutto quella di contribuire a smussare le asperità del ciclo economico. Assieme al sistema di produzione fordista, all’organizzazione di lavoro taylorista, al sistema di «repressione finanziaria» (separazione bancaria più controlli sui movimenti di capitali) e soprattutto al «keynesismo reale» del secondo dopoguerra, esso ha fornito per oltre mezzo secolo il complesso di vincoli istituzionali (e organizzativi) entro cui le autorità di governo (e le imprese manifatturiere) hanno costretto la dinamica capitalistica. In assenza di tali ceilings and floors («soffitti e pavimenti», come venivano definiti da economisti critici come Hyman Minsky e Michał Kalecki) l’andamento delle principali variabili economiche manifesterebbe prima o poi dinamiche esplosive, ovvero potrebbe stabilizzarsi in corrispondenza di equilibri socialmente sub-ottimali.
L’instabilità scaturita dalla rimozione parziale di quei vincoli in alcuni dei paesi avanzati negli ultimi due decenni – con l’ormai noto corredo di bolle finanziarie, boom immobiliari e crescita trainata dai consumi (propri o altrui), seguiti da squilibri esteri, crisi borsistiche, fallimenti bancari e deflazioni da debiti – sembra confermare alla lettera tale interpretazione. Ecco perché, se ripensamento delle forme del welfare state deve esserci, questo deve avvenire nell’ambito di un più generale ripensamento delle forme dell’intervento dello Stato in economia e del perimetro della sfera pubblica.
Un ripensamento che, giova ricordarlo, non può limitarsi alla mera riproposizione delle ricette keynesiane degli anni sessanta (almeno ove queste ultime vengano intese unicamente come politiche di sostegno alla domanda mediante la spesa pubblica), né può essere affidato soltanto a provvedimenti di ridistribuzione monetaria. Esso deve, invece, investire direttamente il tema dello Stato (ossia della collettività associata) come perno del sistema economico e come garante della piena occupazione, nonché del rispetto dei vincoli di tenuta sociale e di sostenibilità ambientale. Il fine è ambizioso: quello di costruire un’alternativa nel sistema economico dato come prefigurazione possibile di un’alternativa di sistema.
Sennonché, anche a voler ignorare i problemi di antropologia politica che una tale proposta-suggestione presenta, esistono due vincoli con cui essa si dovrebbe misurare concretamente: uno, più generale, di ordine «interno»; ed un secondo fattore, specificamente nazionale, di ordine «esterno». Anzitutto, esiste una incompatibilità «politica» tra il potere esercitato sul mercato dal sistema delle imprese (intese come strumento di appropriazione di quote di prodotto sociale netto da parte della classe economicamente e socialmente egemone) e il pieno impiego della forza-lavoro.
Come spiegato da Michał Kalecki (1943), in un articolo in cui vengono lucidamente prefigurate le ragioni reali del naufragio delle politiche keynesiane del dopoguerra, «in un regime di continuo pieno impiego il licenziamento cesserebbe di agire come misura disciplinare. […] si accrescerebbe la sicurezza di sé e la coscienza di classe dei lavoratori. Gli scioperi per un salario più alto e il miglioramento delle condizioni di lavoro sarebbero fonti di tensione politica. È vero – aggiunge subito dopo – che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego, rispetto al loro livello medio sotto il laissez faire. […] Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L’istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è “sana” dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale». L’adozione e soprattutto il mantenimento di misure di pieno impiego sono, dunque, legati a doppio filo ad uno spostamento duraturo nei rapporti di forza tra classi sociali a favore dei salariati.
In secondo luogo, come è stato già menzionato, dati gli attuali scenari internazionali, nonché i testi dei Trattati Europei, l’estensione della sfera di intervento pubblico appena tratteggiata comporta una messa in discussione della permanenza italiana all’interno dell’unione valutaria e dello stesso mercato comune. Va da sé che una politica coordinata di intervento pubblico guidata dai paesi forti dell’Area Euro sarebbe, in linea teorica, la soluzione più auspicabile (o di first best, per usare un linguaggio caro all’economia del benessere) per i lavoratori ed anche per la maggior parte delle imprese dell’Area (43). Essa garantirebbe, ad un tempo, il riassorbimento graduale degli squilibri nelle bilance dei pagamenti dei paesi-membri ed un rilancio della domanda interna europea, uniti ad un processo di democratizzazione delle decisioni di produzione e di scambio.
Una politica volta al pieno impiego avrebbe, inoltre, il vantaggio di disinnescare il conflitto potenziale tra lavoratori nativi e lavoratori provenienti dagli altri paesi-membri (ovvero da altre aeree del pianeta), rafforzando il senso di appartenenza ad un comune «modello europeo». Se una tale consapevolezza condivisa tardasse, però, a farsi strada, la via dell’uscita dalla valuta unica potrebbe divenire obbligata. Come accennato, essa implicherebbe una rimessa in discussione dello stesso mercato comune, benché naturalmente le sue possibilità di successo sarebbero tanto più elevate in quanto fosse accompagnata da un nuovo accordo con gli altri paesi della periferia europea e con la stessa Francia (44). L’impatto concreto dello sganciamento valutario sulle condizioni materiali delle classi lavoratrici italiane (ed anche sulla tenuta del sistema delle imprese) dipenderebbe, in modo inverso, dalla loro capacità di imporre nell’agenda politica una rimessa in discussione dei dogmi liberoscambisti.
6. Conclusioni
L’obiettivo principale di questo contributo era, anzitutto, quello di muovere una critica radicale all’accettazione passiva, a tratti apologetica, dei processi di finanziarizzazione e di globalizzazione capitalistica dell’ultimo trentennio, nonché della dottrina liberoscambista che ne costituisce la sovrastruttura ideologica. A tal fine, si è mostrato che la liberalizzazione dei movimenti di capitale, realizzata progressivamente a partire dalla fine degli anni settanta, deve essere considerata il fattore-chiave dei cambiamenti intervenuti nella struttura economico-sociale italiana ed europea nell’ultimo trentennio.
Si è quindi argomentato che i processi di «riforma» del settore pubblico hanno seguito due direttrici principali: da un lato, la ri-regolamentazione de-politicizzante delle istituzioni preposte al governo dell’economia; e, dall’altro, l’uso esclusivo della politica monetaria quale strumento di intervento pubblico. Al riguardo, si è, inoltre, mostrato come tale mutamento goda del sostengo teorico del paradigma economico dominante, il cosiddetto «Nuovo Consenso». Sul piano del welfare, ciò sembra tradursi in una sostituzione del vecchio stato sociale con forme di copertura universalistiche, intese quali contropartita alla integrale flessibilizzazione del mercato del lavoro. Muovendo da un diverso paradigma teorico, espressione di un punto di vista di classe antitetico a quello dominante, si è cercato, infine, di tratteggiare un’alternativa possibile alla logica della flexecurity, comunque declinata.
Tale alternativa non può che passare per un profondo ripensamento del ruolo dello Stato in economia e della dimensione della sfera pubblica, sulla scorta di una sintesi possibile tra la tradizione di pensiero radicale- marxista e quella riformista-Keynesiana. Ancora una volta, ci troviamo di fronte all’alternativa tra socialismo, inteso come pianificazione democratica delle relazioni economiche e liberazione del tempo sociale, oppure barbarie, intesa come ulteriore intensificazione dei processi di sfruttamento capitalistico del lavoro vivo. Oggi, come un secolo fa, ciò richiede di rimettere a tema il rimosso: la presa del potere, il rapporto con lo Stato, e persino la spinosa questione della sovranità nazionale. La Storia potrebbe ricominciare proprio laddove era stata interrotta.
Online at https://mpra.ub.uni-muenchen.de/60350/
MPRA Paper No. 60350, posted 3. December 2014 22:41 UTC
* Lecturer in economics presso la Business School dell’Università di Leeds, Regno Unito. Email:
m.passarella@leeds.ac.uk. Web: www.marcopassarella.it
Una versione preliminare di questo scritto é stata presentata al seminario “Welfare o barbarie”, organizzato dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara, sede di Rovigo, 22 giugno 2013. La versione definitiva é stata pubblicata dalla rivista Ragion Pratica, 2014, Vol. 42, No. 1, con il titolo di “Welfare, mercato e piano: critica del paradigma liberoscambista”. Sono grato ad Hervé Baron, Marco Boffo e Stefano Lucarelli per i suggerimenti e le osservazioni critiche. Voglio, inoltre, ringraziare Marica Grego per i suoi commenti preziosi. Ovviamente, nessuno degli studiosi citati è responsabile per eventuali errori o imprecisioni presenti nello scritto, né per le tesi da me sostenute.
Note
27. Non é questa la sede per una disamina approdondita circa i diversi significati attribuiti a ciascuna definizione dai rispetti promotori. Sinteticamente, la principale differenza tra il reddito di base incondizionato (o di cittadinanza o basic income) e il reddito minimo garantito é che il primo, a differenza del secondo, é universale e illimitato nel tempo. Per contro, il reddito minimo garantito si configura come una forma di sostegno per chi é temporaneamente disoccupato, é vincolato all’accettazione da parte del beneficiario di eventuali proposte di lavoro, e puó essere erogato anche a chi percepisca un reddito da lavoro inferiore ad una soglia minima.
28. Cfr. Friedman 1962. Tale proposta è stata successivamente rielaborata da Lampman 1969, e da Tobin et al. 1967.
29. Così come il salario remunera il fattore «forza-lavoro» e l’interesse (o profitto) remunera il fattore «capitale», il reddito di base remunererebbe il fattore «cooperazione sociale» (incluso il «lavoro cognitivo»). Un corollario nascosto è che viene con ciò implicitamente accantonata l’idea classico- marxiana che il lavoro sia l’unica fonte del (valore del) prodotto sociale netto, e dunque del sovrappiù, giacché diversamente la richiesta di un salario sociale tornerebbe ad assumere unicamente la valenza di intervento redistributivo, cosa che viene esplicitamente negata dai suoi promotori. Si noti, in secondo luogo, che l’idea di fissare l’entità del reddito di base come quota di qualche altra variabile distributiva oggettivamente misurabile (si vedano, ad esempio, Fumagalli e Vercellone 2013, che parlano di 60% del reddito minimo), di nuovo sembrerebbe ricondurre le ragioni della sua rivendicazione nell’alveo dei provvedimenti di welfare tradizionalmente intesi. Analoghe considerazioni valgono nel caso in cui tale misura sia ricardianamente invocata in risposta alla «disoccupazione tecnologica» generata dalla modificazione della struttura produttiva delle economie avanzate (cfr. Gattei 2013).
30. Un tentativo di quantificazione è stato fatto, tra gli altri, da uno dei maggiori promotori del reddito di base, Fumagalli (2012). In particolare, il costo complessivo per lo Stato italiano andrebbe dai 20 miliardi di euro necessari per garantire un reddito annuale di 7.200 euro (pari ai 600 euro mensili che definiscono la cosiddetta «soglia di povertà») ai circa 45 miliardi per un reddito annuale di 10.000 euro (in forma di sussidi e integrazione al reddito per circa il 21% della popolazione). Il costo al netto dei sussidi di disoccupazione e della cassa integrazione si aggirerebbe, invece, attorno a 5 miliardi e 26 miliardi di euro, rispettivamente. Si tratta di cifre ragguardevoli, ma teoricamente sostenibili mediante un programma di spesa in deficit. Sennonché, nell’ambito dei vincoli sul disavanzo pubblico imposti dai Trattati europei, il finanziamento di tale misura finirebbe per pesare sulla fiscalità generale fino a tre punti percentuali di PIL in termini lordi (o, comunque, oltre un punto e mezzo al netto delle voci di spesa eventualmente ridefinite in termini di reddito di base). Dato l’elevato livello di pressione fiscale italiana sui redditi da lavoro e d’impresa, non appare una strada facilmente percorribile.
31. Dal nome del distretto inglese in cui, il 6 maggio 1795, venne adottato un sistema di sussidi a favore dei lavoratori poveri delle campagne. Tali sussidi comportavano l’integrazione del salario fino al raggiungimento di un livello prefissato, dipendente dal nucleo familiare e dal prezzo del pane.
32. Una critica non dissimile al reddito di base è stata avanzata da Lunghini (1995), nonché, più di recente, da Bellanca e Baron (2013). La riduzione del lavoro a «disutilità» è, del resto, uno dei pilastri del pensiero economico dominante. Per una critica di tale prospettiva, si veda, tra gli altri, Spencer (2013).
33. In estrema sintesi, a partire dal 1981 la Banca d’Italia si svincolava dall’obbligo, vigente dal 1975, di acquistare (mediante emissione di base monetaria) i titoli di Stato non collocati dal Tesoro italiano presso il settore privato. Il tasso di interesse pagato dallo Stato italiano sui titoli cessava, dunque, di essere politicamente fissato per essere determinato dalle dinamiche di mercato.
34. Dall’inizio della crisi ad oggi l’Italia ha perso quasi nove punti di PIL (calcolato a prezzi costanti), a fronte di una crescita di oltre quattro punti percentuali della Germania. Non è andata molto meglio alle altre due maggiori economie dell’Area Euro. Se la Francia ha fatto registrare una crescita media nulla a partire dal 2007, la Spagna ha perso sei punti di PIL. Nello stesso periodo, la Grecia ha registrato una caduta di quasi ventitré punti (fonte: Eurostat 2013). L’entità degli effetti depressivi delle politiche di austerità è, del resto, confermata dalle nuove stime sui cosiddetti «moltiplicatori» del reddito fornite dal Fondo Monetario Internazionale (cfr. FMI 2012). Proprio la sottovalutazione di tali effetti ha condotto, di recente, alla clamorosa autocritica del capo economista del Fondo, Olivier Blanchard (contenuta in Blanchard e Leigh 2013).
35. Il rapporto debito/PIL italiano si è, infatti, ridotto pressoché costantemente dal 1995 al 2008. Su questo punto, si rinvia nuovamente alla nota 6.
36. Dalle dure prese di posizione dei premi Nobel per l’economia Paul Krugman e Joseph Stiglitz, agli allarmi lanciati da firme prestigiose del giornalismo economico internazionale, come Wolfgang Muchau e Martin Wolf, fino al «monito degli economisti» pubblicato sul Financial Times il 23 settembre 2013, gli appelli (inascoltati) per la cessazione delle politiche di austerità in Europa non sono mancati.
37. La tesi dell’austerità espansiva è stata originariamente proposta da Giavazzi e Pagano (1990). Si noti, peraltro, che, in ambienti governativi, il vero fine delle misure di austerità non è mai stato quello di rilanciare la crescita, ma, al contrario, quello di abbattere i redditi e dunque le importazioni di merci, sostenendo al contempo le esportazioni (grazie al contenimento della domanda di lavoro delle imprese e dunque delle rivendicazioni salariali) e quindi il saldo delle partite correnti.
38. La discussione circa l’entità dei possibili effetti inflazionistici di uno sganciamento valutario dall’Euro rimanda inevitabilmente al 1992, quando l’Italia fu costretta ad abbandonare il Sistema Monetario Europeo. Al riguardo, occorre sfatare due miti speculari e simmetrici, ma egualmente perniciosi. Da un lato, negli anni successivi all’uscita non si registrò alcuna fiammata inflazionistica. Al contrario, il tasso di inflazione si ridusse nel 1993. Dall’altro, i casi recenti di sganciamento valutario, incluso quello italiano, sono sempre stati accompagnati da una riduzione del salario reale e soprattutto della quota salari sul PIL. Ciò significa che «l’effetto di un’eventuale deflagrazione della moneta unica europea sui rapporti tra le classi sociali non è univocamente determinabile. […] l’uscita da un regime di cambio fisso può avere un impatto negativo o meno sul potere d’acquisto dei lavoratori e sulla distribuzione del reddito nazionale a seconda che esistano meccanismi istituzionali […] in grado di agganciare i salari alla dinamica dei prezzi e della produttività» (Brancaccio 2013). D’altra parte, la possibilità di evitare fire sales (ossia un’ondata di acquisizioni estere a buon mercato) sulle attività del paese, favorite dalla fase iniziale di instabilità valutaria, si lega necessariamente ad una messa in discussione, almeno parziale, delle regole del mercato unico europeo.
39. Naturalmente, un piano d’uscita dalla valuta unica dovrebbe includere, tra le altre misure, un sistema di controllo sui prezzi di beni e servizi essenziali, meccanismi di indicizzazione dei redditi da lavoro, un piano di salvataggio/nazionalizzazione del settore bancario e assicurativo, e un piano energetico per ridurre la dipendenza delle produzioni nazionali dagli idrocarburi. D’altra parte, in assenza di una fonte di domanda esterna, i benefici prodotti dall’uscita dall’Euro sarebbero legati più al recupero, almeno parziale, della sovranità monetaria e fiscale, che all’effetto dell’eventuale svalutazione della nuova moneta nazionale (rispetto alle valute forti) sulle esportazioni nette.
40. Si noti che le insolvenze delle imprese italiane sono cresciute del 47% dall’inizio della crisi del 2007, a fronte di una riduzione del 13% delle imprese tedesche (fonte: Credit Reform 2013).
41. A chi obiettasse che l’intervento dello Stato si lega inesorabilmente a fenomeni di malagestione e di clientelismo, occorre far notare che: i. tali fenomeni sono certamente possibili in presenza di politiche di sostegno alla domanda, ma risultano fortemente ridimensionati proprio nel caso di politiche di produzione diretta di beni e servizi (si pensi, a titolo di esempio, all’annosa questione dell’assegnazione degli appalti); ii. proprio guardando al caso italiano, emerge una correlazione positiva (e non negativa) tra tali fenomeni e le politiche di austerità. D’altra parte, come ben evidenziato da Mazzucato (2011), l’esperienza storica dimostra che le economie di successo sono quelle in cui lo Stato gioca un ruolo attivo nell’investimemento e nello sviluppo di nuove tecnologie, laddove cioè assume la veste di «imprenditore collettivo».
42. È questo uno degli aspetti che rende un piano per il pieno impiego uno strumento più razionale e socialmente avanzato di un sussidio universale. Il primo agisce direttamente su volume e composizione del prodotto sociale netto e dunque anche sulla quota-salari reale, nonché sul livello (e la composizione) del gettito fiscale. Il secondo si limita, invece, a ridistribuire parte della quota-salari (data) dai lavoratori stabili ai precari-disoccupati-sussidiati, con un effetto solo indiretto (tramite il moltiplicatore del reddito) sul prodotto sociale netto e solo sul suo volume.
43. In linea teorica, essa potrebbe, inoltre, essere affiancata dall’adozione di una valuta comune, in sostituzione dell’attuale valuta unica. Si tratta, in sintesi, di una valuta utilizzata esclusivamente nei regolamenti tra banche centrali dei paesi-membri nell’ambito di un sistema di cambi fissi, ma aggiustabili. Il peso del riequilibrio dei conti esteri potrebbe, in tal caso, essere fatto gravare sia sui paesi che accumulano deficit nelle partite correnti che su quelli che accumulano surplus, sulla scia del cosiddetto Bancor proposto da Keynes alla conferenza di Bretton Woods nel 1944. Si noti che a tale posizione si è ispirato di recente il governatore della banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan (2009), per formulare la propria proposta di riforma del sistema monetario internazionale.
44. Il caso francese è di difficile decifrazione. Da un lato, la Francia presenta squilibri delle partite correnti, e più in generale problemi economico-strutturali, molto simili a quelli italiani e delle altre economie periferiche. Dall’altro, la Francia aspira tutt’ora a ricoprire un ruolo egemonico in Europa. Ciò si traduce in una politica aggressiva di acquisizioni estere, che assimila la posizione della Francia a quella degli altri paesi «core» dell’Area Euro.
fShare
Bibliografia
BCE (2011), The European Central Bank, the Eurosystem, the European System of Central Banks, Francoforte: Banca Centrale Europea, gennaio 2011.
Bellanca, N. e Baron, H. (2013), «Il problema del tempo libero nell’ambito della civiltà del capitale», DISEI – Università degli Studi di Firenze, Working Paper Series – Economics, 16.
Bellofiore, R. (2012a), La crisi globale. L’Europa, l’Euro, la Sinistra, Trieste: Asterios Editore.
Bellofiore, R. (2012b), «Potrebbe andare peggio, potrebbe piovere», Inchiesta, 22 aprile 2012.
Bellofiore, R. e Halevi, J. (2010), «La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica», Critica Marxista, 3-4, on-line.
Blanchard, O. e Giavazzi, F. (2002), «Current Account Deficits in the Euro Area: The End of the Feldstein-Horioka Puzzle?», Brooking Papers on Economic Activity, 2: 147-209.
Blanchard, O. e Leigh, D. (2013), «Growth forecast errors and fiscal multipliers», IMF Working Paper, 13/1.
Brancaccio, E. (2012), La crisi del pensiero unico, seconda edizione, Milano: Franco Angeli.
Brancaccio, E. (2013), «Uscire dall’euro? C’è modo e modo», estratto da Alternative per il socialismo, 27, luglio-agosto 2013.
Brancaccio, E. e Fontana, G. (2013) «Solvency rule versus Taylor rule», Cambridge Journal of Economics, 37(1): 17-33.
Brancaccio, E. e Passarella [Veronese], M. (2012), L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, Milano: Il Saggiatore.
Burgio, A. e Cavallaro, L. (2002) «Attualità di un Discorso», Introduzione a Marx (1848), op. cit.
CE (2007), Employment in Europe, Bruxelles: Commissione Europea.
De Cecco, M. e Maronta, F. (2013), «Berlino, Roma e i dolori del giovani Euro», Limes, 4/13.
FMI (2012), «Coping with High Debt and Sluggish Growth», World Economic Outlook, Washington: Fondo Monetario Internazionale, ottobre 2012.
Fontana, G. e Passarella Veronese, M. (2014), ‘Aggregate Demand, Money and Finance within the New Consensus Macroeconomics: a Critical Appraisal’, FESSUD Project: Working Paper Series, in uscita.
Friedman, M. (1962), Capitalism and freedom, Chicago: University of Chicago Press. Fumagalli, A. (2013), Lavoro male comune, Milano: Bruno Mondadori.
Fumagalli, A. (2012), «Relazione sulla sostenibilità, costo e finanziamento di un reddito di base incondizionato in Italia», Quaderni di San Precario, Bin-Italia.
Fumagalli, A. e Vercellone, C. (2013), «Un reddito di base come reddito primario», in Gnesutta, C. (a cura di), Come minimo. Un reddito di base per la piena occupazione, Roma: Sbilanciamoci.info, pp. 111-15.
Galbraith, J.K. (2012), Inequality and instability, Oxford: Oxford University Press.
Gallino, L. (2012), «La mano visibile del mercato», MicroMega online, 25 ottobre 2012.
Gattei, G. (2013), «Prospettive economiche per i nostri (pro)nipoti?», in Gnesutta, C. (a cura di), Come minimo. Un reddito di base per la piena occupazione, Roma: Sbilanciamoci.info, pp. 36-39.
Giavazzi, F. e Pagano, M. (1990), «Can severe fiscal contractions be expansionary? Ta- les of two small European countries», in Blanchard O. e Fisher S. (a cura di), NBER Macroeconomics Annual, Vol. 5, Boston: MIT Press.
Graziani, A. (1975), Crisi e ristrutturazione nell’economia italiana, Torino: Einaudi.
Graziani, A. (1989), L’economia italiana dal 1945 a oggi, 3.a Ediz., Bologna: Il Mulino.
Krugman, P. (2008), «Trade and Wages, Reconsidered», lavoro presentato al Meeting of the Brookings Panel on Economic Activity, febbraio 2008.
Krugman, P. (2012), «European Crisis Realities», The New York Times, 25 febbraio 2012.
Lampman, R. J. (1969), «Expanding the American system of transfers to do more for the poor», Wisconsin Law Review, 2.
Lavoie, M. (2006) «A Post-Keynesian amendment to the New Consensus on monetary policy», Metroeconomica, 57(2): 165-192.
Lucarelli, S., Palma, D. e Romano, R. (2013), «Quando gli investimenti rappresentano un vincolo. Contributo alla discussione sulla crisi italiana nella crisi internazionale», Moneta e Credito, 66(262): 167-203.
Lunghini, G. (1995), L’età dello spreco, Torino: Bollati Boringhieri.
Luxemburg, R. (1915), Juniusbroschüre (tr. it. «La crisi della socialdemocrazia», in
Scritti politici, Roma: Editori Riuniti, 1970).
Major, A. (20012) «Neoliberalism and the new international financial architecture», Re- view of International Political Economy, 19(4): 536-561.
Marx, K. (1848), Discorso sul libero scambio, Roma: Derive Approdi, 2002. Mazzucato, M. (2011), The Entrepreneurial State, Londra: Demos.
Passarella Veronese, M. (2014a), «Financial Integration in the European Union: an Analysis of the ECB’s role», FESSUD Project: Working Paper Series, 4.
Passarella Veronese, M. (2014b), Financial integration, in Rochon L.-P. e Rossi, S. (a cura di), Encyclopedia on Central Banking, Northampton, Edward Elgar, in uscita.
Passarella Veronese, M. (2014c), «The process of financial integration of EU econo- mies», FESSUD Project: Working Paper Series, in uscita.
Polanyi, K. (1944), La grande trasformazione, Torino: Einaudi, 2000. Rodrik, D. (2011), La globalizzazione intelligente, Roma-Bari: Laterza.
S24O (2013), «La rivoluzione copernicana della BCE», Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2013.
Screpanti, E. e Zamagni, S. (2000), Profilo di storia del pensiero economico, Roma: Carocci.
Spencer, D. (2013), «To reduce work’s importance to a feeling of pain is to miss the fundamental role of work in the fulfilment of our needs both as consumers and pro- ducers», Blog della London School of Economics and Political Science, 1 agosto 2013.
Tobin, J., Pechman, J. A. e Mieszkowski, P. M. (1967), «Is a negative income tax prac- tical?», Yale Law Journal, 77: 1-27.
Xiaochuan, Z. (2008), «Reform the international monetary system», Bank of Interna- tional Settlements: Central Banker’s Speeches, 23 marzo 2009.
Williamson, J. (1990), «What Washington Means by Policy Reform», Peterson Institute for International Economics: Speeches and Papers, novembre 2002 [Pubblicato orig- inariamente in Williamson, J. (a cura di), Latin American Adjustment: How Much Has Happened?, Washington: Institute for International Economics, 1989].
Commenti recenti