Riletture, la crisi politica: Crouch, Rosanvallon, Urbinati (1a parte)
di SINISTRA RETE (Alessandro Visalli)
Riprendere in mano qualche vecchio testo può essere utile, a questo fine rileggeremo alcuni libri usciti tra il 2000 ed il 2014 sulla crisi politica che le democrazie occidentali stanno affrontando sotto la spinta di fattori economici, sociali e tecnologici. Sono coinvolti in questa crisi tutti i fattori di stabilità politica che faticosamente erano stati costruiti nel corso dei due secoli che seguono alla fine dell’ancien régime: le relazioni sociali, il discorso pubblico, i valori centrali, i partiti, le forme della politica, le forme dell’azione pubblica, le istituzioni.
Probabilmente alla radice di questa trasformazione non è solo l’economia, con la prevalenza del sogno neoliberale (incubo per la maggioranza delle persone non dotate di robuste dotazioni di capitali), ma anche una profonda disintermediazione nella stessa costruzione del discorso, pubblico e privato, e quindi della capacità e possibilità di accesso alla formazione della verità.
Si tratta di un tema difficile e cruciale, sul quale bisognerà ritornare.
Quel che si può dire con sufficiente sicurezza è che intorno al punto di svolta della rottura del sogno neoliberale che si è manifestato nella crisi del 2008, giungono a maturazione e sotto molti profili accelerano tendenze che avevano trovato forma da tempo nell’ambiente imposto dalle ‘riforme’ avviate negli anni ottanta e dalla piega imperiale che il mondo prende nei novanta.
Tra queste la crisi della politica. Ovvero la crisi politica di una democrazia ormai incapace di svolgere la propria funzione di ottenere giustizia per i più deboli. Per coloro che lo sono per la propria posizione nel sistema globale dei rapporti produttivi e per l’accesso alle risorse che questi consentono (‘risorse’ non solo economiche, ma anche sociali, culturali, e, appunto, politiche).
La svolta che si manifesta negli anni ottanta, e prende velocità nel corso dei trionfali anni novanta, ma manifesta tutto il suo effetto solo nel nuovo millennio, è essenzialmente orientata a proteggere i profitti; vede il mondo dal punto di vista di chi questi profitti ottiene. Ovvero di chi dispone del denaro nella forma del capitale (poco o tanto) e ‘compra’ lavoro. Il lavoro è inquadrato essenzialmente come una merce come ogni altra, della quale fare economia, da ridurre al suo minor prezzo. Dimenticando, tra le altre cose, che è il lavoro che consente di comprare le altre merci, di dare il loro valore. Lo sguardo miope del capitale scava sotto le proprie fondamenta.
Per fare ciò l’obiettivo, tanto primario quanto poco evidente, è contenere i salari, cioè:
– Garantire costantemente un’alta e crescente disoccupazione,
– Assicurarsi che il mondo del lavoro sia adeguatamente frammentato,
– Garantire rapporti di lavoro dominati.
Ma per ottenere questo contenimento, questa deflazione salariale, è indispensabile prima neutralizzare gli strumenti di autodifesa, quindi mettere sotto pressione la società politica: ovvero mettere sotto attacco la democrazia.
A questo fine si affermano, nel contesto dell’egemonia neoliberale, alcune idee potenti:
– Che la tecnica (e la ‘società civile’) debba avere sempre il sopravvento sulla politica,
– Che il governo sia più importante della rappresentanza.
Ma queste due idee, nel contesto dell’assetto neoimperiale della mondializzazione finanziaria, hanno conseguenze:
– Cresce il ‘vuoto’ tra il politico e la frammentata moltitudine sempre più debole e sempre meno consapevole di sé,
– Si manifestano forme reattive, di assedio delle istituzioni, dalle quali ci si sente abbandonati. ‘Sorveglianza’, ‘interdizione’, ‘giudizio’. Sorge una tendenza irresistibile ad una contropolitica spesso militante,
– Si sviluppano tensioni individualiste, un ‘si salvi chi può’. I movimenti più forti sono di ‘self-help’, al massimo piccole comunità difensive coordinate faccia-a-faccia, ma senza visione e tanto meno progetto.
L’insieme di tutto ciò viene chiamato ‘post-democratico’ da un tempestivo libro del 2003 di Colin Crouch anticipato da un articolo nel 2000: “Postdemocrazia ”.
L’atto di accusa del politologo inglese è rivolto alla crescente influenza delle lobby economiche e più in generale delle élite sulla politica, in particolare sul New Labour di Blair. La distinzione centrale è tra ‘democrazia’ e ‘liberalismo’. Durante la “fase keynesiana” la democrazia è attivazione ed impegno di organizzazioni rivolte al progetto di una società più coesa e comunitaria. Nella quale la volontà e i corsi di azione si formino in comune, nella dialettica tra spinte dal basso e formazione della decisione sulla base di input politici, cioè di visione generale, progetto, cultura. Altrimenti non differirebbe dalle forme di organizzazione sociale di prossimità tra consanguinei e paesani tipiche di società meno strutturate e tradizionali. La democrazia dei moderni è universalista.
Allora anche le campagne di pressione, i momenti di “self-help”, le lobby, tipiche di quelle che chiama “società liberali forti”, non coincidono con la democrazia. Crouch pone l’attenzione su questa distinzione e questo equivoco: Robert Putnam, nel suo fortunato “La tradizione civica nelle regioni italiane ” esprime bene questo slittamento, viene enfatizzata l’attività ‘spontanea’ esterna alla sfera istituzionale, scordando le relazioni con questa. E soprattutto la relazione di questo proliferare di movimenti di cooperazione e mutualismo, o dell’associazionismo più o meno disconnesso e plurale, con il ritiro del welfare state. Ovvero con l’aprirsi di un vuoto al centro del rapporto tra pubblico e privato.
Movimenti che comportano un allontanamento dalla politica, scrive, “non possono essere citati come indicatori dello stato di salute della democrazia, un concetto politico per definizione” (p.22). Democrazia e società liberale non sono concetti coincidenti, la prima presuppone una certa eguaglianza, e la reale capacità di influire sui risultati. Mentre il liberalismo richiede la massima libertà di azione per gli agenti, indipendentemente dalla loro forza e dal grado di ineguaglianza che vige nella società. La democrazia, con il suo ideale di attivazione del meno avvantaggiato, può tendere a limitare la libertà del più forte, implica un certo grado di protezione, ovvero di “norme e limitazioni”.
Un ottimo esempio sono le regole per impedire che il potere economico si traduca in potere politico. Una delle rivendicazioni del “movimento cartista”, nell’ottocento, era il compenso per gli eletti, proprio per consentire anche ai poveri di candidarsi (era anche uno dei punti dirimenti dello scontro tra Pericle e gli ottimati nell’Atene democratica).
Dunque, messa in sintesi: “il mondo dei gruppi di interesse, dei movimenti e delle lobby appartiene al campo politico liberale piuttosto che a quello democratico, un campo in cui poche regole governano le modalità per esercitare un’azione politica” (p.23).
E’ una “postdemocrazia” quella forma politica in cui si inizia ad andare “oltre” l’idea del governo del popolo, ed in una certa misura anche oltre lo stesso governo. In questa parabola discendente abbiamo:
– perdita di prestigio e di deferenza del governo,
– mutazioni profonde nell’approccio alla politica da parte dei mass media,
– una posizione “subalterna e scomoda” del mondo politico, che tende ad imitare i metodi del mondo dello spettacolo e della commercializzazione dei beni.
Si affermano, con sempre minore pudore, tecniche di manipolazione dell’opinione, controllo dei media, rarefazione dei programmi e delle culture politiche (che tendono ad assomigliarsi), organizzazioni politiche sempre più rarefatte, leggere, vaghe, personalizzazione.
Come sottolineerà nei suoi contributi successivi Crouch identifica nell’azienda globale l’attore chiave. Questa ha, nelle condizioni della globalizzazione finanziaria, il potere di mettere sotto pressione, e ricattare, la politica locale. L’effetto principale è lo spostamento della pressione fiscale dalle aziende ai cittadini, e l’elusione sempre più pronunciata delle aziende realmente globali.
Questo meccanismo apre lo spazio di una ‘crisi fiscale dello Stato’ i cui primi segni si vedono negli anni settanta, ma che si aggrava costantemente, costringendo a ridurre le prestazioni assistenziali e il welfare. In quanto forma di reddito indiretto, anche questo contribuisce allo scopo di indebolire il lavoratore nei confronti del capitale.
Ma contribuisce anche all’affermazione di una classe di intellettuali globali, più o meno imposti, sponsorizzati, incoraggiati, dal circuito delle grandi aziende multinazionali, e portatori della loro mentalità ed interessi. Espressione di una nuova classe dominante che attraversa e si colloca nelle barriere porose tra Stato e imprese globali e per Crouch “rappresenta il fattore centrale di crisi della democrazia” (p.60).
Contemporaneamente i partiti tradizionali hanno perso la propria base sociale, il processo di terziarizzazione del lavoro, causato dall’incremento di produttività ed automazione, e dalla mondializzazione della produzione, insieme all’incremento di istruzione media, ha comportato la perdita di orientamenti stabili e prevedibili. Si registrano posizioni molto disperse, e frammentate.
I partiti hanno reagito cercando di diventare “per tutti”. Ma “un partito senza base è nel vuoto”, e il vuoto viene sempre riempito. Hanno provveduto le aziende globali. Il partito post-democratico non ha allora più la classica forma organizzativa a cerchi concentrici, dalla direzione politica nazionale, alle rappresentanze parlamentari, quelle regionali e locali, la base dei militanti; tende ormai ad avere un cerchio di dirigenti, circondato da una cerchia di consulenti e lobby, una sorta di ellisse. Staccati troviamo, quindi, i militanti di base che servivano per le raccolte fondi e dei voti. In entrambe le funzioni essi sono sostituiti dall’ellisse dei lobbisti e delle aziende di riferimento (ormai la raccolta voti si fa più tramite i media ed in televisione e per quello servono molti più soldi). In conseguenza di queste trasformazioni Crouch vede “una elitè interna che si autoriproduce, lontana dalla sua base del movimento di massa, ma ben inserita in mezzo ad un certo numero di grandi aziende che in cambio finanzieranno l’appalto di sondaggi di opinione, consulenze esterne e raccolte voti, a patto di essere ben viste dal partito quando questo sarà al governo” (C, .p 84). L’esempio portato è Forza Italia.
Dopo questa potente, anche se un poco schematica, lettura ritorna sul tema aperto Pierre Rosanvallon. Lo studioso francese scrive una trilogia che è un punto ineludibile di riferimento per le osservazioni fenomenologiche sull’evoluzione della democrazia. Anche se le posizioni politiche dell’autore sono inclini alla svolta governista, lo studio è ampio e argomentato.
In “La politica nell’età della sfiducia”, che è del 2006, avvia l’ambizioso programma di “pensare la democrazia ripercorrendo il filo della sua storia”, in quanto essa stessa non è altro che una storia. Un processo di costante esplorazione, sperimentazione, autoelaborazione. Dunque oggi la democrazia sta evolvendo verso forme di “controdemocrazia”. Ovvero di sorveglianza, interdizione e giudizio come forme dell’interazione tra una società che si sente esterna ed il politico.
Una “società decentrata”, come mostrava anche Crouch, esprime verso il potere istituzionale una forma di pressione che non vuole affatto operare, non intende sostituire un progetto ad un altro. Si limita a sorvegliare ed interdire. Alla forma moderna della “rappresentanza” oppone una “controrappresentanza”. Questa nuova forma riabilita la sfiducia come pungolo.
Diversamente da Crouch, però, Rosanvallon tende a leggere questa situazione come “indice di vitalità della democrazia” (p.302).
In sintesi :
– che cosa la democrazia è sempre stata? È sempre stata “promessa e problema”, ha sempre avuto tensioni interne tra le prese di parola degli esclusi e degli osservatori e le azioni;
– Che cosa è oggi? Oggi si vede, in stato avanzato, la dissociazione tra “legittimità” e “fiducia”; quindi la perdita di speranza, l’erosione del capitale politico di fiducia, la presa della “forma politica e sociale” di internet; dunque la prevalenza della <<democrazia del rifiuto>>, il diffuso senso di impotenza ed atrofia; la facilità alla formazione di “coalizioni negative” e della <<democrazia dell’imputazione>>;
– Che cosa era prima? Nel trentennio “felice”, la dinamica era strutturata dalla lotta di classe e da una divisione della sovranità di fatto secondo un principio di “doppia legittimità”, che riconosceva un luogo sistematico alle organizzazioni ed istanze dei lavoratori, ad una opposizione organizzata e visibile, ad attori con una identità stabile;
– Quali meccanismi sono all’opera? Essenzialmente ci troviamo davanti una <<democrazia della sorveglianza>>, in cui le figure essenziali diventano “vegliare”, “denunciare”, “verificare”; gli attori centrali diventano le “organizzazioni reattive”, le “autorità” e le “istanze di valutazione e loro tecnostrutture”; le legittimità sono quella “sociale procedurale”, “sostanziale”, e da “imparzialità”;
– Cosa potrebbe diventare la democrazia? Il rischio è che queste dinamiche scivolino, per via di estremizzazione, nel populismo, cioè nella rappresentazione illusoria e consolatoria di un “popolo”, puro ed unitario, contrapposto ad un “potere”, interamente corrotto.
– Cosa deve diventare? Occorre incorporare queste istanze positive, e questa energia dinamica, in un nuovo processo di istituzionalizzazione e di politicizzazione.
La “fiducia” è dunque quella istituzione necessaria che sta venendo a mancare. La “sfiducia” ha sempre fatto parte necessaria della dinamica istituita dalla democrazia, che costantemente viene meno alle sue promesse e deve essere richiamata. Ma per questo il problema di ogni democrazia è sempre stato di istituire, o lasciar crescere, tutto un intreccio di pratiche, verifiche, contropoteri e istituzioni la cui funzione è di organizzare la sfiducia. Queste pratiche vanno allora comprese come “facenti politicamente sistema”.
A questo punto Rosanvallon introduce la stessa distinzione che incardina il discorso di Crouch di pochi anni prima: ci sono due strade diverse della sfiducia. Quella “democratica” e quella “liberale”.
È la direzione verso la quale è orientata la sorveglianza, il giudizio e la critica a differenziarle:
– per la sfiducia liberale bisogna prevenire l’eccessiva concentrazione dei poteri, e proteggere l’individuo.
– Per la sfiducia democratica sorvegliare il potere perché resti fedele al bene comune.
Le due sfiducie sono armate le une verso le altre.
La complessità del discorso di Rosanvallon deriva da questa diversità che tiene insieme nel suo concetto di più alta astrazione. La “contro democrazia”, in entrambe le forme, non è “il contrario della democrazia, è piuttosto una forma di democrazia che controlla l’altra, la democrazia dei poteri indiretti disseminati nel corpo sociale, la democrazia della sfiducia organizzata di fronte alla democrazia della legittimità elettorale” (R, p. 17). È, insomma, una sorta di <<contrafforte>>, una vera “forma politica”.
La tassonomia che propone al termine è quindi di tre forme politiche di contropotere, e tre “popoli”:
– La vigilanza, dunque il ‘popolo controllore’.
– L’interdizione, dunque il ‘popolo veto’.
– Il giudizio, dunque il ‘popolo giudice’.
La forma democratica contemporanea è dunque attiva, espressiva, coinvolgente. Ma rischia di essere reattiva, rivolta solo al controllo, all’umiliazione, una ‘contropolitica’ disinteressata all’azione trasformativa. Che non cerca di comprendere, leggere le cose e le relazioni, di fare progetti.
Non si tratta, però, di una passività; è più che altro una ‘democrazia diretta regressiva’, una sorta di “consenso per difetto”, un “doloroso e impotente restringimento” (R. p. 174). Sicuramente anche una teatralizzazione, una centralità del momento dell’accusa, dell’invettiva, dell’imputazione.
Cambia anche l’atteggiamento individuale, “è la percezione stessa della radicalità ad avere cambiato natura. Essa ormai ha abbandonato la prospettiva di un grande avvenire, immaginandosi invece con le modalità di una voce morale inflessibilmente preposta a stigmatizzare i potenti o a risvegliare i dormienti” (R., p. 239). Non si può dire ci manchino gli esempi di questo abbandono di obiettivi politici in favore di scopi morali o pratici.
Tutto ciò provoca indirettamente una certa atrofia, paralisi del campo politico, un sentimento di impotenza e di paura; che non è naturalmente l’ambiente ottimale per agire e decidere in modo rapido ed efficiente. Del resto l’obiettivo di questi ‘contro movimenti’ non è conquistare il potere, ma precisamente “contenerlo ed inibirlo”. In qualche modo paralizzarlo.
Due anni dopo Rosanvallon torna, ed ora siamo nel 2008, sul tema con il volume sulla “Legittimità democratica”. Si tratta di un testo orientato, come dal programma generale dell’autore, ed anche più del primo, a mostrate la successione storica dei concetti di legittimità che si intrecciano nel corso delle dinamiche politiche occidentali. Il punto di partenza è la sovranità e legittimità illuminista, il “popolo” come unità della nazione fonda un momento maggioritario che istituisce il potere ed è fonte della legittimità. Ma la frattura che la pratica politica concreta introduce in questo concetto, con la crescita del pluralismo introdotto dalla società di massa (ed in particolare con l’irrompere delle masse popolari e lavoratrici), e quindi la “politica di parte”, induce una prima trasformazione e l’introduzione di un diverso concetto di legittimità a fianco dell’originario. Il terzo momento di svolta si ha negli anni ottanta.
L’esito è una sorta di sovranità del “posto vuoto”, e la prevalenza della “democrazia indiretta” (ovvero della democrazia schermata da “agenzie indipendenti”). Quella che Crouch chiama “postdemocrazia”.
L’ampia ed affascinante ricostruzione di Rosanvallon muove dalla idealizzazione della sovranità come blocco unico, contrapposta al potere del sovrano tradizionale. La volontà deve essere “generale”, in opposizione a quella particolare dei privilegi. Ma questa opposizione “generale-particolare” contiene le sue linee di frattura. Da una parte, con Seyes, la rottura con l’antico ideale dell’unanimità (dato che la volontà generale si forma intorno al principio di maggioranza), dato che l’uomo illuminista vede tutti “liberi ed eguali”, dall’altra la creazione di fazioni e di “partiti” è vista come una patologia.
Questa contraddizione esplode quando la piena affermazione del suffragio universale determina l’irrompere sull’agone politico di forze eterogenee e di conflitti più irriducibili. Allora, siamo negli anni venti del novecento, si parla di “crisi della democrazia”. A questa ‘crisi’ (di controllo da parte delle élite) si risponde con la reazione amministrativa. Tra il 1880 ed il 1920 si afferma la centralità di sempre più potenti macchine amministrative e dei relativi ceti. Sotto il profilo della ricerca condotta nel testo si afferma una nuova forma di legittimità: l’interesse generale è un servizio tecnico che deve essere protetto (dal “concorso”) e deve essere esercitato con “disinteresse”. Il funzionario tecnico risale ad una forma di legittimità democratica che nasce dalla duplice fonte del disinteresse e della razionalità.
A questo stadio ci sono due tecniche di legittimazione che si contendono lo spazio politico: il concorso e l’elezione. E quindi una dialettica tra due generi di servizio pubblico: il funzionario ed il politico.
Quel che succede al momento in cui viene meno il progetto politico trasformativo (con il riflusso della tensione socialista) e si registra la piena affermazione dell’individuo (con il consumismo), è che il “mondo economico” guadagna la centralità. È per Rosanvallon lo spirito del capitalismo che “astrattizza” il mondo e isola ogni individuo.
A partire dagli anni ottanta tre nuove forme di legittimità prendono il centro della scena:
– La legittimità di imparzialità, articolata intorno alle “autorità indipendenti”;
– La legittimità di riflessività, articolata dalle “corti costituzionali”;
– La legittimità di prossimità, che esprime la direttezza.
Le prime nascono già nel 1887 in USA per sottrarre alle influenze politiche la regolazione di alcuni settori delicati e ad alto contenuto tecnico. L’imparzialità, che le organizza è il frutto di quattro elementi:
– la sottrazione alle pressioni politiche e l’indipendenza rispetto all’esecutivo;
– la qualità derivante dall’imparzialità;
– la possibilità di attivare politiche di lunga durata, sottratte al calendario elettorale e al mutevole consenso;
– la razionalità e coerenza presunte.
L’idea è di essere schermate dalle pressioni (cosa che rappresenta sempre il punto debole e delicato) ed avere meno democrazia per godere di più “diritto”.
La seconda figura della legittimazione è ancora più antica, è la “sovranità complessa” di Condorcet, in cui i “principi” fondamentali sono tenuti fermi dalla “costituzionalizzazione” per sottrarli appunto alla forma democratica ed ai suoi ondeggiamenti di parte.
Negli anni ottanta interviene il “costituzionalismo economico”, proposto da Prescott nel 2004 espressamente rivolto a neutralizzare il governo democratico ed impedire che i governi, influenzati dal potere sociale e non da quello economico, prendano “decisioni circostanziali” (legati alle scadenze ed al consenso) in contrasto con l’interesse generale a medio termine. Questo interesse generale è incarnato dal discorso scientifico della scienza economica. Dunque il “governo a mezzo di regole” (di cui Maastricht è un esempio perfetto) deve prevalere sul governo “discrezionale”. Questo genere di “costituzionalismo” è proposto da McKenzie e Buchanan già negli anni ottanta e promosso energicamente da think thank neoliberali come la Heritage Foundation.
La terza forma di legittimità che prende il centro in questo periodo è la “legittimità di prossimità”, e per Rosanvallon essa trova forma in una accresciuta attenzione alle particolarità ed alle individualità, e radicamento teorico nel vasto dibattito degli anni novanta sul “riconoscimento” (Rosanvallon cita Charles Taylor, Axel Honneth, p. 235) che articola una nuova forma di generalità: la discesa nella generalità a partire dalle particolarità concrete (e dalle loro forme narrative). Il “riconoscimento” è riletto come “nuovo fenomeno sociale totale” (Caillè, p. 236) nell’epoca dell’individualità (ed in quella del rischio).
Si tenta (qui anche Habermas e Durkheim) una particolare desostanzializzazione della democrazia senza però arrivare alla desocializzazione perseguita dal modello liberista. Sono le teorie deliberative della democrazia (p. 281) che tentano una mutazione del rapporto con la politica ponendo enfasi sull’interazione come attivatore di prossimità e fonte di legittimità.
Gioverebbe a questo punto dare un occhio ad un libro di Giuseppe Berta che esce quasi contemporaneamente, nel 2009, “Eclisse della socialdemocrazia” in cui lo storico torinese osserva la svolta condotta a partire dalla recezione della lezione Thatcheriana e pone alcune cruciali domande alla cultura della socialdemocrazia ormai persa: ‘chi si deve adattare a chi?’ E’ la società, per come è fatta, e per gli interessi e valori che esprime, a doversi adattare al capitalismo (piegandosi alle sue priorità) o non è quest’ultimo a dover essere adattato alle esigenze ed agli imperativi sociali prioritari?
In altri termini: esiste un punto di vista, una presa di distanza, dalla quale si possa giudicare l’esistente e valutarne la legittimità? Esiste una “tavola dei valori” che sia caratteristica della socialdemocrazia, dei “principi” che siano definiti ante gli interessi ed i valori della forma sociale e di potere storica che chiamiamo capitalismo? O meglio, della forma che esso ha preso nella contemporaneità? Qualcosa che “sia prima”, e dunque consenta un giudizio?
Nel 1949 Schumpeter credeva che l’ordine capitalista stesse per tramontare in quanto il suo ethos era in contrasto con “la ricerca della sicurezza e dell’uguaglianza” e la regolazione che ne conseguiva.
Quaranta anni dopo il New Labour rovescia i termini, bisogna sostenere il business ed adattarsi allo spirito del capitalismo. In particolare, come ebbe a dire Gordon Brown nel 2007: cogliere le opportunità della globalizzazione, che è un processo essenzialmente benefico del quale bisogna prendere la guida. Per Brown, secondo Berta, la globalizzazione è una sorta di cornice naturale, una leva che va utilizzata fino in fondo perché è la condizione della produzione della ricchezza. In sostanza l’economia è una sorta di macchina che necessita per sua natura di una continua accelerazione. Ne segue che lo scopo del governo è favorirla. La cosa più importante è che non si possono avere dubbi, indulgere a pensieri sulla natura della globalizzazione o la sua direzione di marcia. In qualche modo se non si sta al passo con le condizioni in cui si svolge il processo economico, se non si interpretano i bisogni di cambiamento, prima e meglio delle altre nazioni, si soggiace.
Nel discorso non si trova parola sulle ineguaglianze, ma solo sul pacchetto di opportunità che vanno offerte, come una merce in vetrina, al singolo cittadino-elettore.
Il testo analizza le proposte politiche di quel contesto, quella della SpD nel 2008, quella di Obama. Ci sono toni in parte diversi, più sensibili ai costi sociali pagati dalla parte più debole, ma Si tratta, alla fine, anche qui, di una vetrina; manca ormai la base cui riferire un’istanza di cambiamento politico, a causa della fortissima terziarizzazione e delle caratteristiche di riproduzione dell’individualità e dell’azione nelle condizioni delle aziende di servizio e commerciali che prevalgono in modo schiacciante nella contemporaneità.
Ciò a cui ci si candida è una gestione modernizzatrice dell’economia. Ma facendo così le socialdemocrazie si trovano senza parole e senza occhi di fronte all’ineguaglianza che esplode. Sia a quella tra gruppi sia a quella tra territori.
Sostenere il business, lo vedeva molto chiaramente Schumpeter, significa lasciar andare lo spirito animale, selvaggio, rivolto al più forte. Ovvero rendere sempre più forte e sempre più debole, allargare la divaricazione. Nelle condizioni dello “spazio dei flussi” della globalizzazione ciò significa disancorarsi.
Quando la crisi, mordendo, allarga queste riflessioni critiche e porta allo scoperto la vanità dello spot pubblicitario (termine ricordato da Raghuram Rajan nel 2010 nel suo bel “Terremoti finanziari”) escono alcuni testi tra i quali si possono ricordare l’ultimo della trilogia di Rosanvallon, due libri di Crouch e l’atto di accusa di Berta alle oligarchie, ma anche la ricca riflessione di Nadia Urbinati.
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