Perché ci serve l’Italia
di LUCIO CARACCIOLO (direttore di LIMES, rivista italiana di geopolitica)
1. L’Italia è un paese strategico che rifiuta di esserlo. Dopo più di un secolo e mezzo, il nostro Stato unitario resta un adolescente geopolitico. Puer aeternus, fragile e perennemente incompiuto, consegnato alle altrui scelte. Peter Pan della scena internazionale, in fuga da se stesso «perché ho sentito papà e mamma parlare di quello che sarei dovuto diventare quando fossi diventato uomo» 1. Anelante le irripetibili liturgie del tempo ordinato, quando gli assi cartesiani della guerra fredda ci assegnavano il posto a tavola, risparmiandoci di sceglierlo. O fantasticante armoniche Europe, in cui serenamente sciogliersi in fraternità con i vicini.
Fra l’essere e il non essere questo paese preferisce essere stato. Disposto a spezzarsi pur di non piegarsi alla necessità di partecipare allo strategico mercato della potenza sulla base dei propri interessi. Tutto, pur di non decidere.
Per paradosso, l’inconsistenza soggettiva moltiplica l’oggettiva importanza dell’Italia. Ci sono infatti tre modi di contare in geopolitica: perché sei una potenza; perché servi a una o più potenze; perché puoi danneggiare potenze rilevanti. Noi italiani abbiamo disastrosamente sperimentato, tra fine Ottocento e metà Novecento, l’impossibilità di aderire al primo archetipo. Nei successivi decenni bipolari abbiamo trasformato il nostro valore d’uso per gli Stati Uniti d’America in rendita geopolitica, in omaggio al paradigma secondo. Oggi siamo prezzati per la somma di ciò che residua di quella rendita e dei guasti che la nostra labilità statuale può provocare alle architetture euroatlantiche. Tertium datur: la potenza dell’impotenza.
Siamo mina vagante. In caso d’esplosione, l’onda d’urto non investirebbe solo il nostro intorno ma toccherebbe assetti ed equilibri globali. Ciò per la massa critica della Penisola, determinata dalla collocazione geografica, dalle dimensioni economiche e demografiche e, non ultimo, dall’ospitare il centro di una religione a vocazione universale. Tutto al netto di scelte strategiche che istintivamente schiviamo. Tanto che evitiamo di ammettere a noi stessi le responsabilità che ci derivano dalla nostra peculiarissima condizione.
Cinque fattori misurano il rilievo dell’Italia e l’impatto delle sue (s)fortune sui protagonisti del teatro mondiale. In ordine di importanza.
A) Qui si decide il futuro dell’euro. Siamo la quantità marginale che in caso di fallimento può determinare il collasso della «moneta unica». Fattore determinante dell’interesse tedesco, francese e degli altri eurosoci ai destini italiani. Ma anche della vigilanza americana, dati gli effetti che il crollo dell’Eurozona determinerebbe sulla geopolitica e sull’economia planetaria.
B) Attraverso lo Stivale filtrano i principali flussi migratori dalla giovane Africa alla vecchia Europa, che incidono sulla sicurezza, sulla stabilità, sull’identità stessa del nostro continente (carte a colori 1 e 2). Anche per questo a Berlino e dintorni siamo sorvegliati speciali.
C) In quanto piattaforma logistica nel Mediterraneo restiamo rilevanti per Washington, come testimonia la crescente presenza di truppe e di basi a stelle e strisce – depositi di bombe atomiche e centri di intelligence inclusi – pur dopo lo scadere della minaccia sovietica che inizialmente le legittimava (carta 1).
D) Siamo contemporaneamente utili a Mosca, nemico d’elezione dell’America, non fosse che per la nostra incomprimibile russofilia, insieme culturale e commerciale, trasversale alle ideologie politiche. Visti dal Cremlino, siamo quanto meno un simpatico granello di sabbia nel meccanismo atlantico (carta 2). Per la Casa Bianca, al converso, un socio da tener d’occhio, soprattutto in quanto ci ostentiamo spontaneamente fedeli né pretendiamo qualcosa in cambio di tanto amore. La geopolitica del dono è esclusiva specialità italiana. Non possiamo sorprenderci se altri – sbagliando – vi intravvedono ascendenze machiavelliche.
E) L’Italia è infine all’attenzione della Cina perché al centro del Mediterraneo, dunque titolare potenziale del primo attracco utile nei traffici marittimi Asia-Europa. Collocazione ideale nella trama delle nuove vie della seta, ovvero della «globalizzazione alla cinese», espressa oggi sotto specie commerciale, domani forse in veste compiutamente geopolitica (carta a colori 3). Tale vantaggio posizionale diventerebbe concreto se l’Italia scegliesse finalmente un porto gradito ai cinesi su cui imperniare gli scambi sino-europei, spostandone il baricentro verso sud. Ipotesi remota (vedi sindrome di Peter Pan).
Germania, Francia, Stati Uniti, Russia, Cina: il catalogo delle potenze cui interessiamo e sulle quali possiamo quindi influire è invidiabile. Ma per passare all’incasso nel mercato geopolitico occorre elevare il valore d’uso a valore di scambio. Ciò significa saper valutare il proprio patrimonio strategico, materiale e immateriale, in rapporto a come viene percepito dagli attori più potenti. E spenderne una quota per avanzare i propri interessi nel negoziato permanente che definisce le relazioni internazionali, specie dove la posta in gioco è più alta, i vincoli reciproci più cogenti – Eurozona e Nato. Operazioni che suppongono la capacità di definire il proprio punto di vista. Frutto a sua volta di quella maturità statuale da cui disperatamente fuggiamo. Senza quel pur minimo, variabile arco di alleanze, imperniate su interessi convergenti, necessario a reggere il confronto con paesi di dimensioni analoghe o perfino inferiori, ma capaci di associarne altri, a irrobustire la loro taglia.
Per varcare la linea d’ombra dobbiamo emanciparci dall’idea che il nostro interesse nazionale consista nel non averne, salvo aderire a quello, tra gli altrui, che ci pare prevalente. Gli archivi della Farnesina testimoniano della carenza di consegne strategiche ai nostri ambasciatori, talvolta surrogata con l’invito alla «Signoria Vostra» di orientarsi, in caso dubbio, sulle scelte delle «maggiori potenze» (leggi, a seconda dei contesti, Stati Uniti o principali partner europei). Vige da noi il curioso assioma per cui non possiamo permetterci di produrre strategia perché non siamo sufficientemente potenti. Vero il contrario: sono le grandi potenze a potersi concedere qualche distrazione, immergendosi in fasi di apnea progettuale governate con il pilota automatico. Noi, che non disponiamo delle loro risorse, siamo obbligati alla strategia. A pensare e ripensare il nostro posto nel mondo.
Altrimenti può accadere l’assurdo: l’impiego delle risorse nazionali contro gli interessi nazionali. È il caso delle missioni compiute dalle nostre Forze armate dopo la fine della guerra fredda nel nostro estero vicino, che abbiamo contribuito a destabilizzare per confermare gli americani nella certezza della nostra devozione. In cambio di nulla. Abbiamo bombardato la Jugoslavia – impianti Fiat compresi – e persino la Libia, contribuendo a fragilizzare Balcani e Nordafrica, ovvero le regioni che nei nostri stessi documenti ufficiali eleviamo a decisive per la sicurezza della Penisola. E abbiamo sparso migliaia di soldati per il mondo, dall’Oceano Indiano allo Hindukush, senza criterio che non fosse il presunto interesse alleato a saperci affidabili, perché noi stessi non ne eravamo troppo sicuri. Sempre gratis. O meglio a costo del contribuente e al prezzo della vita di alcuni dei nostri militari migliori.
La storia corre e non aspetta l’Italia. Attendere che mamma America o papà Germania decidano per noi significa rimetterci ai loro interessi, che spesso non coincidono e talvolta collidono con i nostri. Oppure, in alternativa, alla loro mancanza di attenzione, che ci abbandona alle conseguenze della nostra irresponsabilità. Nella migliore ipotesi, cederemmo così a potenze sperabilmente benevole la sovranità che l’articolo uno della costituzione repubblicana assegna in teoria al popolo italiano. Abdicheremmo alla nostra residua soggettività geopolitica proprio quando attorno a noi cadono le foglie di fico europee e atlantiche che mascheravano le strategie altrui. Mentre mamma e papà hanno ripreso a litigare di brutto.
Se Washington e Berlino divergono, il cielo sopra Roma si oscura. Non c’è più nulla di scontato né di automatico. Serve stabilire la nostra rotta. Coscienti dei rischi che corriamo in caso di fallimento. Ma possiamo farlo? O forse ne siamo impediti da qualche presunto destino?
2. Come ogni organismo non solo geopolitico, anche l’Italia è soprattutto ciò che fu. Nella sua autocoscienza i caratteri storici, strutturali, tendono a imporsi – al netto di guerre e rivoluzioni – sulle mutazioni impresse dalle contingenze. L’arte dello stratega consiste nel cogliere le scarse ma decisive opportunità che il peso del passato e l’incertezza del futuro ci lasciano nel tempo presente. La nostra riluttanza a farlo indica che l’Italia resta incompiuta.
L’essenza di una nazione è data dalla sua sensibilità all’indipendenza. Lo sguardo di lungo periodo conferma che il Belpaese non si è distinto né si distingue oggi per questo. Non riusciamo nemmeno a convenire sull’origine dell’Italia. L’oleografia nazionalista, attrezzata dal fascismo attorno all’asse della romanità, la poneva nella riforma territoriale d’età augustea – che riorganizzò la Penisola in undici regioni – a sua volta figlia del processo di integrazione romano-italica del II secolo avanti Cristo. Ma già Rosario Romeo stipulava che «postulare una continuità della successiva storia d’Italia con quella della romanità non può non apparire poco più che un espediente retorico» 2. Più cogente e attuale la bipartizione della Penisola sancita da Carlo Magno – eroe eponimo della corrente Europa comunitaria – a tracciarvi una faglia tuttora incomposta fra marche settentrionali intrinseche al cuore del continente e terre meridionali segnate da influssi orientali e mediterranei. Seguita in analogia dall’elevazione di Ottone I, fra il 951 e il 962, a re dei franchi e degli italici e, insieme, imperatore. A fissare quel nesso con l’ecumene germanico e con la Chiesa cattolica che esalterà la vocazione a un tempo universalistica e particolaristica del nostro paese. Così compromettendone la sostanza nazionale.
In questo ambiguo patrimonio germinano le radici dell’Italia risorgimentale, da cui discendiamo per linea diretta. Tra fine Settecento e metà Ottocento, i primi patrioti moderni non possono richiamarsi a un’entità geopolitica anteriore, né tantomeno invocare la convenienza geoeconomica di unificare Stati e staterelli peninsulari. L’idea d’Italia rinasce su basi squisitamente culturali. Romantiche. Per opera di un’élite anzitutto piemontese che mentre innalza a criterio identitario le frontiere «naturali» della Penisola e quelle linguistiche dell’italiano – idioma di una esigua minoranza della popolazione, quasi esclusivamente toscana – si esprime preferibilmente in francese. Il riferimento dell’Italia risorgimentale è il Rinascimento, dalle cui altezze era precipitato il nostro declino nel Sei-Settecento, che ci aveva disconnesso dalle aree del progresso. La rappresentazione delle trascorse glorie artistiche e letterarie legittima il nuovo Stato in quanto contenitore di una grande civiltà. In reazione all’anatema che lo sguardo nordico – tedesco, francese, olandese, inglese – aveva gettato negli ultimi due secoli sull’arretratezza della Penisola e sulla rozzezza dei suoi abitanti, misurata dai ricchi e colti protagonisti stranieri del «viaggio in Italia» rispetto alle grandezze di un passato tanto ammirevole quanto remoto.
Per i patrioti italiani si tratta di riscattare l’immagine del pittoresco «paese delle rovine», entità liminare fra Europa del progresso, attardato Oriente e Africa selvaggia. Stereotipo negativo accentuato dalla diffusione delle teorie proto-ambientalistiche del barone di Montesquieu, che nel suo Spirito delle leggi (1748) fa del clima un criterio di civiltà, attribuendo ogni virtù civile ai popoli del freddo, distinti dai pigri e servili meridionali, italiani inclusi. Ripreso financo dal Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (1824), spietata perlustrazione critica dei nostri vizi atavici – dall’asocialità al cinismo – che ci abbassano rispetto ai popoli del Nord, giacché «sembra che il tempo del Settentrione sia venuto» 3. L’eco di questa sentenza non cessa di tormentarci.
Di qui il complesso d’inferiorità verso le nazioni transalpine che da subito e per sempre attanaglia le classi dirigenti dell’Italia unita, specie le più vocalmente nazionalistiche. Sindrome tradotta nella tesi della permanente «anomalia italiana» rispetto alla superiore «norma europea». Anche questa frustrazione, a ben vedere, è di origine risorgimentale. Perché il progetto originario dei patrioti moderati non è di unificare l’Italia intera, ma di costituire «un nuovo grasso Belgio della pianura padana» 4 connesso alle nazioni settentrionali. Cavour vuole integrare il Nord Italia per connetterlo al Nord Europa. Per agganciare il suo vagone subalpino al convoglio della civiltà e del progresso, guidato dalle potenze nordiche. Questo regno va costruito per aggregazione attorno al Piemonte. Prima che Garibaldi costringesse Vittorio Emanuele ad annettersi il Meridione, l’unità d’Italia è concepita a Torino, noterà Luciano Cafagna, «come unificazione politica al di sopra della cosiddetta “linea gotica”» 5. Alla vista dei funzionari e militari piemontesi che vi si affacciano con piglio coloniale, il Sud è alieno. «Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile», scrive il 27 ottobre 1860 a Cavour il luogotenente generale delle province napoletane, Luigi Carlo Farini 6. Sentimento reso celebre in letteratura dal Gattopardo, quando il cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo, spedito in Sicilia per convincere il principe di Salina ad accettare il laticlavio nel Senato del Regno, si scopre straniero in terra di briganti: «L’iscrizione “Corso Vittorio Emanuele” che con i suoi caratteri azzurri su fondo bianco ornava la casa in sfacelo che gli stava di fronte, non bastava a convincerlo che si trovasse in un posto che dopo tutto era la sua stessa nazione». 7
Questo rapido scavo nella protostoria dell’Italia contemporanea ci permette di osservare la catena logico-geopolitica che limita l’orizzonte strategico nostrano e spinge a renderci provincia altrui. Come il Risorgimento, scartato il progetto settentrionale, unificando l’Italia per raggiungere l’Europa svela ai piemontesi un Mezzogiorno semisconosciuto, accentuando l’alterità fra Nord e Sud, così la Repubblica postfascista, decisa a completare la rincorsa alle virtù europee, scopre che partecipare dell’ambito comunitario non significa che le nazioni boreali intendano omologarla al loro canone. Percezione introiettata a tal punto che nel nostro politicamente corretto la famiglia europea che ci fregiamo di aver cofondato sessant’anni fa a Roma permane esterna (lo testimoniano «ce lo chiede l’Europa» ed espressioni affini). A conferma che la sfera semantica di coppie valoriali come «Europa» e «Italia», «Nord» e «Sud», cambia di molto a seconda di chi parla. Più tentiamo di avvicinare quei poli, più si respingono.
La divergenza geopolitica ed economica lungo l’asse Settentrione/Meridione è all’ordine del giorno sulla scala italiana come su quella europea. Vale la pena soffermarci su questo doppio scarto, perché vi troviamo squadernate le ragioni che ad oggi ci impediscono di fissare il nostro interesse nazionale.
3. «Una linea gotica, mentale, per me taglia a mezzo l’Italia. Ci vivo a cavallo. I dilemmi spirituali, dell’anima, si proiettano nella geografia. (…) Roma è il mio essere, Milano il mio dover essere. Sogno una terza città che le unisca (…)» 8. Nel 1948 annotava così il giovane Ottiero Ottieri, di nascita romano («sole, disordine»), milanese d’adozione («nebbia, precisione») 9. Sud e Nord: due universi polarizzati tra i quali l’olivettiano Ottieri si dilania, «sperando che non venga un giorno in cui mi spacco in due» 10. Quasi settant’anni dopo, la metafora intimista di un intellettuale irregolare conserva la sua pregnanza. La «terza città» resta sogno. Il dualismo che tormenta l’Italia si acuisce. Fino a mettere in crisi i più recenti paradigmi che distinguono Nord-Est e Nord-Ovest, o utilmente segnalano le dissonanze fra i diversi Sud, le cangianti peculiarità del Centro e delle trascurate aree interne.
Il solco che accentua la separatezza originaria tra Settentrione e Mezzogiorno è scavato in parallelo da percezioni antropologico-culturali e dinamiche socio-economiche, nell’impotenza della politica – futile, afasica – e nella fragilità del contesto istituzionale, minato dalla corruzione sistemica, di cui si avvantaggiano mafie e altri poteri informali. Tutti fattori che convergono nel tarmare l’architettura geopolitica italiana.
Quanto all’antropologia. A partire dagli anni Ottanta-Novanta dello scorso secolo, in non fortuita coincidenza con la crisi della Prima Repubblica e la fine della guerra fredda, è emersa al Nord la tentazione di codificare su base geoculturale, se non etnica, la propria alterità a Roma e al Sud. Nel senso comune alimentato dal richiamo alla Padania – evocata dal presidente comunista della Regione Emilia-Romagna, Guido Fanti, prima che dalla Lega di Umberto Bossi – si coagula la rappresentazione di una diversità che nella sua versione estrema nega la stessa identità italiana. Quel che conta e resta della Padania non è la sua inafferrabile configurazione (carta 3), ma la delegittimazione dello Stato nazionale, a dispetto della matrice subalpina.
La questione settentrionale non consiste più solo nella diffidenza del Nord che si vuole civile e produttivo, vocazionalmente impolitico, verso l’inefficiente classe amministrativa incistata nella capitale e l’ignavo Mezzogiorno. Non è più unicamente figlia di quel carattere lombardo che «non ha voglia né tempo di dedicarsi alla politica; si occupa di affari e non di chiacchiere», colto negli anni Cinquanta da Guido Piovene 11. È affermazione di un’insuperabile diversità antropologica rispetto al Sud, cui corrisponde una latente quanto poco ricambiata affinità con il mondo germanico, o magari con l’impolitico, cantonale federalismo elvetico. Nella sua versione alta, questa teoria memore dei postulati geoclimatici di Montesquieu venne formulata nel 1993 per Limes da Gianfranco Miglio, lariano aspirante svizzero: «Il mondo civile è nell’area temperata: se ci spostiamo dove fa molto freddo, ci imbattiamo negli slavi tonti; se puntiamo verso sud, incrociamo popoli straniti dal calore, un po’ come quei messicani che sonnecchiano sotto il sombrero. Se io mi trasferissi in Sicilia con la mia famiglia, in capo a due generazioni saremmo sicilianizzati» 12.
Tesi alla quale comincia nello stesso giro di anni a contrapporsi, specie a Napoli, in Sicilia e in Sardegna – i Sud dotati di una tradizione «nazionale» – la rivendicazione della propria orgogliosa identità, vestita all’estremo di tinte neoborboniche, separatiste o indipendentiste. Nulla di simile a Roma, nemmeno sotto forma neopontificia. Come se la «città eterna» fosse ormai consustanziale all’Italia e ne sposasse il declino in quanto sua «eterna» capitale. Roma entrò per ultima in Italia e sarà eventualmente l’ultima a lasciarla.
L’economia conferma l’inasprirsi del dualismo italiano. Specie a partire dalla crisi dell’ultimo decennio. Tra il 2007 e il 2015 il prodotto interno lordo del Sud è crollato di quasi il doppio rispetto a quello del Centro-Nord (-12,3% rispetto al -7,1%) 13. In termini di pil pro capite, quello meridionale vale poco più della metà del centro-settentrionale, mentre la caduta dei consumi nelle fasi acute della recessione, tra 2008 e 2014, è stata al Sud di due volte e mezzo superiore rispetto al resto del paese, quella dell’occupazione addirittura sestupla (-9% contro -1,4%) 14. Per misurare l’irredimibilità del divario, si consideri che per azzerarlo, postulando una crescita annua del Sud dello 0,4% superiore a quella del Centro-Nord, occorrerebbe attendere l’anno 2243.
Inoltre, a nord della linea gotica buona parte del nostro sistema industriale è integrato nella catena del valore tedesca. L’interscambio fra Settentrione e Germania valeva 87 miliardi di euro nel 2016, contro i 15 del Centro e i 7 del Sud. Allo stesso tempo, senza una solida ripresa del Mezzogiorno il Centro-Nord resta severamente penalizzato: il mercato meridionale vale per la parte più ricca d’Italia il triplo delle esportazioni nei paesi dell’Unione Europea. Nel contempo, si è rovesciato lo storico sbilancio demografico a favore del Sud, dove ormai si fanno meno figli che al Nord. Per tacere dell’enorme dislivello nelle infrastrutture, nei trasporti, nella scuola e nei servizi sociali – in Campania e in Calabria solo due bambini su cento frequentano l’asilo nido.
Se passiamo alla scala continentale, osserviamo come alla deriva del dualismo nazionale si correli l’allargamento della forbice Italia/resto d’Europa. Ripartiamo dall’economia. Negli anni di crisi il divario cumulato con l’Eurozona è stato di 9 punti, con l’Unione Europea di oltre 11. L’Italia è l’unico grande paese europeo in cui la dinamica della produttività negli ultimi 14 anni è stata negativa. Quanto al tasso di occupazione, il differenziale con l’Ue nel periodo 2000-2015 è quadruplicato, passando da 4 a 16 punti (quello del Mezzogiorno da 20 a 30). Dalla fine degli anni Novanta a oggi si è consolidato il distacco fra la crescita italiana e quella delle principali economie continentali 15. Quasi un dualismo intraeuropeo, con le «cicale» mediterranee a fare corona all’Italia. Effetto non solo delle politiche fiscali intrinseche all’Eurozona o della «globalizzazione» che ha automaticamente ridotto le dimensioni dell’Italia nella competizione internazionale, ma anche dei limiti strutturali del nostro sistema industriale, a partire dalla scarsità di capitali e dalla modesta disposizione al rischio dei nostri imprenditori. Con lo smantellamento dell’economia mista, la fine della grande impresa imperniata sul triangolo Milano-Torino-Genova – talvolta sacrificata sull’altare di scriteriate privatizzazioni che hanno portato settori strategici sotto controllo straniero, specie tedesco o francese – il nostro sistema economico ha perduto in coesione e in competitività.
Ci resta, tra Nord e Centro, un diffuso tessuto di imprese medio-piccole, alcune di classe mondiale. Capitalismo leggero, di qualità, grazie al quale ci fregiamo del titolo di seconda potenza manifatturiera europea. Ma in geopolitica l’identico volume fatturato da una grande impresa, da dieci medie o da cento piccole ha un peso specifico diverso. I «campioni nazionali» non servono solo l’economia, ma irrobustiscono l’influenza geopolitica, spesso anche culturale, del paese d’origine.
L’Italia ha perso il passo del cuore geoeconomico d’Europa, mentre il nostro Nord, che tenta di restarvi agganciato, ma in postura subordinata, non traina più il paese. Visti da Berlino e dalle «formiche» nordiche siamo uno Stato sull’orlo del fallimento. Il residuo cordone ombelicale che ci lega in ambito comunitario, la paura dell’ignoto e il timore che lasciati a noi stessi si sia tentati dalla pirateria (leggi: svalutazione della moneta) hanno finora frenato la tentazione di sganciare il vagone tricolore dal convoglio eurogermanico. Ma l’illusione del vincolo esterno, elaborata a Prima Repubblica spirante da Guido Carli, Carlo Azeglio Ciampi e Beniamino Andreatta, fondata sul pessimismo circa gli istinti animali degli italiani, è scaduta. Ci aveva creduto persino il cancelliere Helmut Kohl, il quale, contro gran parte dell’élite tedesca, volle includerci tra i soci fondatori dell’euro, fidando forse nelle virtù pedagogiche della politica monetaria more germanico. Della quale, specie dopo la crisi del 2008, cogliamo gli aspetti per noi depressivi, l’altra faccia di un euro a misura della potenza commerciale tedesca.
Curioso, quanto rivelatore, che ad anticipare il certificato di morte del vincolo esterno sia stato nel 2011 Mario Draghi, l’esponente di massimo successo della scuola europeista inaugurata dai suoi mentori Carli e Ciampi. Poco prima di lasciare la Banca d’Italia per Francoforte, l’attuale presidente della Banca centrale europea mise a verbale: «Una nostra tentazione atavica, ricordata da Alessandro Manzoni, è di attendere che un esercito d’Oltralpe risolva i nostri problemi. Come in altri momenti della nostra storia, oggi non è così. È importante che tutti i cittadini ne siano consapevoli. Sarebbe una tragica illusione pensare che interventi risolutori possano giungere da fuori. Essi spettano a noi» 16.
4. Mentre l’Europa germanica si allontana e il solco tracciato dalla linea gotica s’approfondisce, l’Africa s’avvicina. Il flusso dei migranti attraverso il Mediterraneo si dirige ormai per l’80% verso l’Italia, dopo che il patto Merkel-Erdoğan – capolavoro del metodo tedesco di spacciare per europee iniziative nazionali – ha disseccato il canale turco-greco-balcanico. Tra il 1° gennaio e il 20 aprile di quest’anno sono sbarcate dall’ex Libia in Italia quasi 37 mila persone in fuga dalla miseria e dalle guerre, provenienti soprattutto dalla Nigeria e da altri paesi dell’Africa occidentale – un decimo addirittura dal Bangladesh – oltre un quarto in più rispetto allo stesso periodo del 2016. Per la fine dell’anno gli sbarchi in Italia potrebbero superare quota 200 mila, linea rossa oltre la quale secondo il nostro governo può scattare un’emergenza sociale e di ordine pubblico difficilmente gestibile (grafici 1-3, carta 4).
Dei tre slittamenti geopolitici che investono lo Stivale questo è il più strutturale e il meno governabile. Giacché la spinta a rischiare la vita negli esodi transmediterranei è alimentata in buona misura da fattori climatici e demografici insensibili, nel breve-medio periodo, a qualsiasi politica. In particolare, la transizione demografica ritardata – ovvero il mancato calo della fecondità femminile atteso seguire la diminuzione della mortalità – produce in diversi paesi dell’Africa subsahariana, come in Nigeria e in Niger, un surplus di popolazione giovane determinata a emigrare a qualsiasi costo. Tale fattore, incrociando la decomposizione degli Stati africani che apre formidabili vuoti di potere e alimenta le dispute fra chi ambisce a occuparli, segnala un sisma geopolitico di lunga durata.
Fra i paesi europei, impreparati allo shock e nevrotizzati dal terrorismo jihadista, s’è perciò aperta una feroce competizione per scaricare sui vicini quella che viene percepita come minaccia esistenziale al benessere, alla coesione sociale, alla stessa identità nazionale. Sicché l’Italia si trova compressa fra la corrente migratoria da sud e la scelta dei nostri vicini settentrionali – Francia, Svizzera, Austria, con alle spalle la Germania – di inasprire i controlli alle frontiere. Risultato: il 90% di chi sbarca in Italia ci rimane. Quasi sempre allo sbando, vittima di organizzazioni criminali e di sfruttamento selvaggio, specie nelle campagne del Mezzogiorno dominate dal caporalato. L’assenza di un piano nazionale per l’integrazione degli immigrati –campo nel quale il nostro governo non intende arrischiarsi per timore dell’impopolarità – congiunta alla totale mancanza di solidarietà su scala comunitaria, genera xenofobia ed eurofobia. Derive fino a ieri impercettibili nel mainstream della nostra opinione pubblica.
La partita decisiva, ancora una volta, la giochiamo con la Germania. Sul fronte nord: è anzitutto da Berlino che passa la possibilità di allentare il sistema di Dublino, per cui al primo Stato comunitario di ingresso (leggi: Italia e, molto meno, Grecia) tocca gestire le domande di asilo. Sul fronte sud: a differenza di Francia e Gran Bretagna, e nell’indifferenza degli Stati Uniti, la Germania è l’unica potenza euroatlantica impegnata nel contenimento del caos libico. Con esiti quasi nulli. Qui Roma impegna il massimo sforzo con il minimo risultato. Fino a convocare al Viminale una variopinta delegazione di capi locali del Fezzan – profondo Sud libico – per indurli, dietro compenso garantito anche da fondi Ue, a farsi guardiani del deserto, filtrando i corridoi migratori risalenti dal Sahel. Ma individuare nella baraonda libica chi possa fare il lavoro sporco una volta assicurato da Gheddafi è impresa disperata.
Per l’Europa centro-settentrionale, l’Italia dovrebbe ergersi ad ultima barriera di un sistema di dighe deputato a ostacolare o almeno deviare la pressione migratoria che sale dall’Africa. Quello che noi chiediamo ai fezzanini Berlino l’ha ottenuto dai turchi e ora l’attende dagli italiani. Le probabilità che Roma induca nei tribali del Sahara o in qualche milizia tripolitana comportamenti simili a quelli che Merkel ha strappato a Erdoğan paiono esigue. Nemmeno la revisione del regolamento di Dublino in senso a noi favorevole, su cui negoziamo con gli eurosoci, si prospetta agevole. Non è dunque da escludere che, stretta nella tenaglia nord-sud, l’Italia azzardi una fuga in avanti, passando al respingimento attivo di chi tenta di varcare il Canale di Sicilia. Fino a schierare propri soldati in Tripolitania. L’esito di tale avventura sarebbe scritto: riusciremmo a riunire contro di noi tutte le fazioni libiche, a partire da quelle che vorremmo far lavorare per noi.
5. L’Italia deve venire a patti con la realtà. Chiudere la forbice fra oggettivo rilievo e carenza di soggettività. Costituirsi in attore geopolitico, che come ogni altro, non importa se grande o piccolo, protegge i propri interessi nella competizione e nel compromesso con gli altrui. Nulla di straordinario: la norma delle relazioni internazionali. Pretendersi Stato per farsi eterodirigere da altri Stati, i quali correttamente perseguono le loro priorità, questa sì è impresa eccezionale.
Nell’Italia della guerra fredda, che volle espungere il lemma «nazione» dal gergo ufficiale, abbiamo paradossalmente identificato interesse nazionale e nazionalismo. Il primo prevede la sobria definizione dei propri obiettivi in rapporto alle risorse disponibili e alle costellazioni geopolitiche vigenti. Il secondo è enfatico volontarismo costruito sulla rimozione dei dati di fatto su cui prima o poi s’infrangono i suoi deliri di potenza. Negli ultimi vent’anni abbiamo legittimato l’interesse nazionale, però in chiave solo retorica. Per il divertimento di amici e avversari, i quali vi hanno riconosciuto la conferma di un’antica pulsione nostrana: la narrazione come surrogato dell’azione.
Si obietterà che il nostro deficit di statualità ci impedisce di diventare normali. È alibi. Le istituzioni italiane sono deboli e poco legittimate, certo. Ma gli italiani esistono, pur nelle loro identità multiple. E come tali vengono percepiti dagli altri popoli, molto meno attenti di noi alle vere o artefatte varietà regionali, alle declinazioni dialettali dell’autocoscienza nazionale. Chi argomenta contro l’interesse nazionale dovrebbe dimostrare che agli italiani conviene sciogliere le residue istituzioni unitarie per integrarsi in domini esterni oppure frammentarsi in staterelli «omogenei». Come tali estranei alla regola delle liberaldemocrazie occidentali, fondate almeno formalmente sullo Stato nazionale eterogeneo. Davvero conviene a lombardi e/o veneti – chiamati nell’immediato futuro a esprimersi in referendum ambiguamente autonomistici – emanciparsi dall’Italia per diventare i ticinesi della Piccola Europa che pare aggregarsi attorno alla Germania? L’ambizione dei siciliani è di costituirsi in Stato mafia indipendente? I napoletani aspirano alla repubblica del Vesuvio?
Parrebbe più saggio irrobustire la repubblica mentre ne ridefiniamo il profilo sulla scena internazionale. Anzitutto nel nostro continente. Indulgiamo a lamentare la disgregazione dell’Unione Europea, perdendone di vista l’altra faccia: la riaggregazione – oggi informale, domani forse marcando nuovi confini – in aree d’influenza disegnate da affinità culturali, geostrategiche ed economiche. Con al centro lo Stato tedesco, semiconduttore dei flussi di potenza che strutturano i precari equilibri europei quanto restio, finora, a dotarsi di una strategia corrispondente ai suoi mezzi e alle sue responsabilità. Troppo potente per accomodarsi ancora alla riduzione a satellite americano sancita dalla sconfitta nelle due guerre mondiali e più o meno felicemente accettata dalla Bundesrepublik originaria, appunto occidentale. Troppo debole e introverso – dunque non imperiale – per federare il vasto, disomogeneo e instabile spazio comunitario. Ciò presupporrebbe mitigare la vena mercantilista e disporsi alla redistribuzione delle risorse a favore delle province più arretrate della propria sfera d’influenza. Chi lo propone in Germania fa figura d’eccentrico.
Se non corretta, l’inerzia di tali dinamiche porta Berlino a confliggere con Washington, a riavvicinarsi per conseguenza a Mosca (antico riflesso geopolitico) e a fissare quanto più a sud possibile la frontiera con il Mediterraneo, percepito come fonte di minaccia – instabilità, migranti difficilmente integrabili, terrorismo jihadista, guerre. Di qui il recupero dell’Euronucleo (Kerneuropa) – vecchio cavallo di battaglia di Wolfgang Schäuble quando (1994) si trattava di scongiurare l’annacquamento mediterraneo dell’euro centrandolo sul triangolo Germania/Francia/Benelux. Stavolta come compiuta entità geoeconomica, estesa ai paesi afferenti alla sua catena del valore industriale e alla sua cultura fiscale, in futuro forse pienamente geopolitica: vera e propria Geuropa. Tale orizzonte è incompatibile con la storica priorità americana – e per quel che ancora vale, britannica – di scongiurare la nascita di una potenza tedesca filorussa (e filocinese?) capace di dominare l’Europa o anche solo di parlare in suo nome.
Noi italiani non siamo sufficientemente consapevoli di quanto la tendenza a strutturare una sfera d’influenza germanica – pur ancora magmatica, non discendente da un geometrico Generalplan – e le reazioni americane a tale scenario possano incidere sul nostro paese (carta a colori 4). Fino a spaccarlo, in caso di adesione della macroregione padana al nuovo/vecchio insieme eurogermanico. O a farne terreno di scontro fra americani e tedeschi, ciascuno con i rispettivi affiliati, mentre nel Mediterraneo infuria la tempesta.
Ecco perché ci serve l’Italia.
Note
1. J.M. Barrie, Peter Pan, New York New York 2014, Puffin Books, p. 32: «It was because I heard father and mother», he explained in a low voice, «talking about what I was to be when I became a man».
2. Cfr. R. Romeo, Italia mille anni. Dall’età feudale all’Italia moderna ed europea, Firenze 1981, Le Monnier, p. 7.
3. G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, Milano 2017, Feltrinelli, p. 74.
4. L’espressione è dello storico Adolfo Omodeo, citata in L. Cafagna, Nord e Sud. Non fare a pezzi l’unità d’Italia, Venezia 1994, Marsilio, p. 19.
5. Ibidem.
6. Carteggi di Camillo di Cavour: La Liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d’Italia, vol. III (ottobre-novembre 1860) Bologna 1952, Zanichelli, p. 208.
7. G.Tomasi Di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano 1969, Feltrinelli, p. 155.
8. O. Ottieri, La linea gotica. Taccuino 1948-1958, Parma 2001, Guanda, p. 23.
9. Ivi, p. 93.
10. Ivi, p. 82.
11. G. Piovene, Viaggio in Italia, Milano 2003, Baldini e Castoldi, p. 94.
12. G. Miglio, «Ex uno plures», Limes, «L’Europa senza l’Europa», n. 4/1993, p. 178.
13. Cfr. Rapporto sull’economia del Mezzogiorno, Svimez, 2016.
14. Cfr. Rapporto sull’economia del Mezzogiorno, Svimez, 2015.
15. Vedi nota 13.
16. Cfr. P. Pica, «Draghi: “l’Italia deve salvarsi da sola”», Corriere della Sera, 12/10/2011.
fonte: http://www.limesonline.com/cartaceo/perche-ci-serve-litalia
L’analisi più convincente sulla situazione italiane letta negli ultimi 30 anni.