La questione economica
di GIUSEPPE MAZZINI
Voi siete uomini, e come tali avete facoltà, non solamente fisiche, ma intellettuali e morali che è vostro dovere di sviluppare; dovete essere cittadini, e come tali, dovete esercitare, per il bene di tutti, diritti i quali richiedono un certo grado di educazione, una certa somma di tempo. E’ chiaro che voi dovete lavorar meno e guadagnare più che oggi non fate.
Figli tutti di Dio e fratelli in Lui e tra noi, noi siamo chiamati a formare una sola grande famiglia. In questa famiglia possono esistere disuguaglianze generate dalle diverse attitudini, dalle diverse capacità, dal diverso desiderio di lavoro ; ma un principio deve signoreggiarla: “chiunque è disposto a dare, per il bene di tutti, ciò ch’egli può di lavoro, deve ottenerne compenso tale che lo renda capace di sviluppare, più o meno, la propria vita sotto tutti gli aspetti che la definiscono”.
E’ questo l’ “ideale” al quale dobbiamo tutti studiar modo d’avvicinarci più sempre di secolo in secolo. Ogni mutamento, ogni rivoluzione che non vi s’accosti di un passo, che non faccia corrispondere al progresso “politico” un progresso sociale, che non promuova di un grado il miglioramento materiale delle classi più povere, viola il disegno di Dio, si riduce a una guerra di fazioni contro fazioni in cerca di una dominazione illegittima, è una menzogna ed un male.
Ma “fino a qual punto” possiamo raggiungere oggi lo scopo? E “come”, per quali vie possiamo raggiungerlo? Alcuni fra i vostri più timidi amici hanno cercato il rimedio nella “moralità” dell’operaio. Fondando casse di risparmio o altre simili istituzioni, hanno detto agli operai: “recate qui il vostro soldo; economizzate; astenetevi da ogni eccesso nelle bevande o in altro; emancipatevi dalla miseria con le privazioni”.
E sono ottimi consigli perché mirano alla moralizzazione dell’operaio, senza la quale tutte le riforme riescono inutili. Ma né sciolgono la questione di miseria intorno alla quale io vi parlo, né tengono conto alcuno del dovere “sociale”. Pochissimi tra voi “possono” economizzare quel soldo. E quei pochissimi possono, accumulando lentamente, provvedere in parte agli anni della vecchiaia, mentre la questione economica deve mirare a provvedere agli anni virili, allo sviluppo, all’espansione possibile della vita quando è attiva e potente e può giovare efficacemente al progresso della Patria e dell’Umanità.
Per ciò che riguarda i beni materiali, la questione sta nel come “accrescere” la ricchezza, la produzione; e quei consigli neppure vi accennano. Inoltre, la Società che vive del lavoro e chiede, ogniqualvolta è minacciata, tributo di sangue ai figli del popolo, ha debiti sacri verso di loro.
Altri, non nemici, ma poco curanti del popolo e del grido di dolore che sorge dalle viscere degli uomini del lavoro, paurosi d’ogni innovazione potente, e legati a una scuola detta degli “economisti” che combattè con merito e con vantaggio in tutte le battaglie della libertà dell’industria, ma senza por mente alla necessità di “progresso” e di “associazione” inseparabili anch’esse dalla natura umana, sostennero e sostengono, come i “filantropi” dei quali or ora parlai, che ciascuno può, anche nella condizione di cose attuale, edificare colla propria attività la propria indipendenza; che ogni mutamento nella costituzione del lavoro riuscirebbe superfluo o dannoso; e che la formula “ciascuno per sé, libertà per tutti” è sufficiente a creare a poco a poco un equilibrio approssimativo di agi e conforti fra le classi che costituiscono la Società.
Libertà di traffichi interni, libertà di commercio fra le nazioni, abbassamento progressivo delle tariffe daziarie specialmente sulle materie prime, incoraggiamenti dati generalmente alle grandi imprese industriali, alla moltiplicazione delle vie di comunicazione, alle macchine che rendono più attiva la produzione: questo è quanto, secondo gli “economisti”, può farsi dalla Società: ogni suo intervento al di là, per essi, sorgente di male.
Se ciò fosse vero, la piaga della miseria sarebbe insanabile; e Dio tolga, o fratelli miei, che io possa mai gettare, convinto, come risposta ai vostri patimenti e alle vostre aspirazioni, questa risposta disperata, atea, immorale. Dio ha statuito per voi un migliore avvenire che non è quello contenuto nei rimedi degli economisti.
Quei rimedi non mirano infatti che ad accrescere possibilmente e per un certo tempo la “produzione” della ricchezza, non a farne più equa la “distribuzione”. Mentre i “filantropi” contemplano unicamente l’”uomo” e si affannano a renderlo più morale senza farsi carico di accrescere, per dargli campo a migliorarsi, la ricchezza comune, gli “economisti” non guardano che a fecondare le sorgenti della “produzione” senza occuparsi dell’”uomo”.
Sotto il regime esclusivo di libertà ch’essi predicano e che ha più o meno regolato il mondo economico nei tempi a noi più vicini, i documenti più innegabili ci mostrano aumento d’attività produttrice e di capitali, non di prosperità universalmente diffusa: la miseria delle classi operaie è la stessa di prima. La libertà di concorrere per chi nulla possiede, per chi, non potendo risparmiare sulla giornata, non ha di che iniziare la concorrenza, è menzogna, com’è menzogna la libertà politica per chi mancando di educazione, d’istruzione, di mezzi e di tempo, non può esercitarne i diritti.
L’accrescimento delle facilità dei traffici, i progressi nei modi di comunicazione emanciperebbero a poco a poco il lavoro dalla tirannide del commercio, dalla classe intermedia fra la produzione e i consumatori; ma non giovano a emanciparlo dalla tirannide del capitale, non danno i mezzi del lavoro a chi non li ha. E per difetto di un’equa distribuzione della ricchezza, d’ un più giusto riparto dei prodotti, d’un aumento progressivo della cifra dei consumatori, il capitale stesso si svia dal suo vero scopo economico, s’immobilizza in parte nelle mani dei pochi invece di spandersi tutto nella circolazione, si dirige verso la produzione d’oggetti superflui, di lusso, di bisogni fittizi, invece di concentrarsi sulla produzione degli oggetti di prima necessità per la vita, o si avventura in pericolose e spesso immorali speculazioni.
Oggi il “capitale” – e questa è la piaga della Società economica attuale – è despota del lavoro. Delle tre classi che oggi formano, economicamente, la Società – “capitalisti”, cioè detentori dei mezzi o strumenti del lavoro, terre, fattorie, numerario, materie prime – imprenditori, capi-lavoro, commercianti, che rappresentano o dovrebbero rappresentare l’intelletto – e operai che rappresentano il lavoro manuale – la prima, sola, è padrona del campo, padrona di promuovere, indugiare, accelerare, dirigere verso certi fini di lavoro. E la sua parte negli utili del lavoro, nel valore della produzione, è comparativamente determinata: la locazione degli strumenti del lavoro non varia se non tra limiti noti e ristretti; e il tempo, fino a un certo segno almeno, è suo, non in balìa dell’assoluto bisogno. La parte dei secondi è incerta, dipendente dal loro intelletto, dalla loro attività, ma segnatamente dalle circostanze, dallo sviluppo maggiore o minore della concorrenza e dal rifluire o ritirarsi, in conseguenza d’eventi non calcolabili, dei capitali.
La parte degli ultimi, degli “operai”, è il “salario”, determinato “anteriormente” al lavoro e senza riguardo agli utili maggiori o minori che usciranno dall’ impresa; e i limiti fra i quali il salario s’i aggira, sono determinati dalla relazione che esiste fra il lavoro offerto e il lavoro richiesto, in altri termini, tra la “popolazione” degli operai ed il “capitale». Ora la prima tendendo all’aumento e ad un aumento che supera generalmente, non fosse che di poco, l’aumento del secondo, il salario tende, dove altre cause non si interpongano, a scendere.
E il tempo non è nelle mani dell’operaio: le crisi finanziarie o politiche, la subìta applicazione di nuove macchine ai rami diversi dell’attività industriale, le irregolarità nella produzione e il suo frequente soverchio accumularsi in un’unica direzione inseparabile da una poco illuminata concorrenza, il riparto ineguale del popolo dei lavoranti su certi punti o su certi rami d’attività, e dieci altre cause interrompendo il lavoro, non lasciano all’operaio la libera scelta delle sue condizioni. Da un lato sta per lui l’assoluta miseria, dall’altro l’accettazione d’ogni patto che gli venga proposto.
Condizione siffatta di cose ha, ripeto, il germe in sé di una piaga che bisogna curare. I rimedi preposti dagli economisti sono inefficaci per questo. E nondimeno, vi è progresso nella condizione della classe alla quale voi appartenete : progresso storico, continuo, che ha superato ben altre difficoltà. Voi foste schiavi, voi foste servi, voi siete in oggi “assalariati”. Vi emancipaste dalla schiavitù, dal servaggio; perché non vi emancipereste dal giogo del salario per diventare produttori liberi, padroni della totalità del valore della produzione ch’esce da voi?
Perchè tra l’opera vostra e l’opera della Società che ha doveri sacri verso i suoi membri, non si compirebbe pacificamente la più grande, la più bella rivoluzione che possa idearsi, quella che, dando come base economica al consorzio umano, il lavoro, come base alla proprietà i frutti del lavoro, raccoglierebbe, sotto una sola legge d’equilibrio tra la produzione e il consumo, senza distinzione di classi, senza predominio tirannico d’uno degli elementi del lavoro sull’altro, tutti i figli della stessa madre, la PATRIA?
[I doveri dell’uomo, 1860]
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