di Stefano D’Andrea
La dottrina delle “finanze sane” è il grande inganno ideologico al quale hanno creduto decine di milioni di persone, studiosi di varie discipline e orientamenti ideologici e, persino, alcuni veri intellettuali, che, è bene rammentarlo, sono sempre pochi: essere insegnanti o studiosi di una disciplina non significa essere intellettuali. Per essere intellettuali non serve nemmeno una grandissima cultura, anche se spesso è utilissima. Serve una mente molto più raffinata e profonda di quella media degli studiosi più bravi.
Il carattere ideologico della dottrina delle finanze sane è plasticamente testimoniato dal fatto che mentre i suoi sostenitori lodano sia il privato che “rischia” e quindi che si indebita, per i suoi scopi, ossia per il futuro eventuale profitto, sia i cittadini che “investono”, acquistando azioni di società che ancora non hanno prodotto nulla o quasi, allo stesso tempo contestano lo “Stato debitore”, che si indebita per fini sociali, ossia per i fini propri dello Stato.
Più sottile ma ancora più vero, e anzi decisivo, è l’argomento che il debito pubblico è debito disciplinato dal debitore ossia dallo Stato, sicché lo Stato, se c’è risparmio interno, può controllare il tasso d’interesse reale (depurato dall’inflazione) del proprio debito e renderlo pari a zero (ricorrendo a istituti necessari, come i vincoli alla circolazione dei capitali per motivi puramente finanziari, l’imposizione alle banche di riserve obbligatorie destinate all’acquisto di titoli del debito pubblico, la decisione sul tasso di sconto, eventualmente vincoli di portafoglio), senza grande monetizzazione del debito.
E comunque, all’occorrenza e in certa misura con regolarità, può far acquistare i titoli dalla propria Banca centrale, senza generare inflazione, fino alla piena occupazione, o in certi frangenti storici, fino quasi alla piena occupazione. E nelle situazioni più difficili, quando l’inflazione cresce e tende ad accelerare, lo Stato può fissare i prezzi di molti beni, per fermare l’inflazione.
La trasformazione dallo “Stato fiscale” allo “Stato debitore”, ammessa da tanti studiosi del diritto pubblico, finanche marxisti, è stata il grande abbaglio, perché la trasformazione non è stata casuale, né determinata da eccessi di spesa dello Stato fiscale, come essi invece hanno creduto.
Essa è invece dipesa dalla apertura dei mercati finanziari e dalle modifiche di disciplina del debito pubblico. Chi ha voluto tutto ciò (Guido Carli in Italia) ha spiegato le riforme che voleva e le ragioni per le quali le voleva. Purtroppo gli studiosi “di sinistra” hanno sempre avuto la tendenza a citare soltanto altri studiosi “di sinistra” e probabilmente a leggere soltanto quelli.
Ne deriva il paradosso che per comprendere ciò che è accaduto si devono leggere le confessioni dei liberali che hanno agito (gli epigoni invece spesso nemmeno capiscono e sono soltanto fedeli ideologizzati; sono insomma accecati come gli studiosi “di sinistra”), non dei democratici, dei socialisti e dei sedicenti comunisti che sono a chiacchiere critici contro il sistema, perché essi sono stati le prime vittime dell’inganno ideologico.
I critici del neoliberalismo non sanno nemmeno che il debito di uno Stato nei confronti della propria banca centrale non è vero debito; e che se gli acquisti eccessivi, eventualmente, ricorrendo certe condizioni, possono generare taluni problemi essi non colpiscono necessariamente le classi sociali che i critici dichiarano di voler tutelare ma solo in presenza di scelte politiche precise.
Così come i comunisti sono diventati liberali senza mai essere stati socialisti, allo stesso modo da marxisti sono diventati liberisti, senza mai essere stati keynesiani e postkeynesiani, ossia senza acquisire gli strumenti concettuali della socialdemocrazia.
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