L'umanità non esiste*
1. Mi interrogo sull’umanità come soggetto collettivo, al quale si allude con espressioni del tipo “l’umanità si troverà di fronte…”, non come sentimento o criterio di condotta morale, al quale si allude con espressioni come “un po’ di umanità!” e simili; e intendo constatare che, come soggetto collettivo, l’umanità non esiste, al fine di trarne qualche corollario che consenta di rendere coerenti, chiari, rigorosi e sensati i ragionamenti politici.
Avete mai avuto notizia che l’umanità abbia compiuto un’azione? Che abbia dichiarato una guerra o sia stata attaccata? Che si sia data una moneta? Che si sia organizzata politicamente? L’ONU è una organizzazione nata da un trattato stipulato tra Stati e non è espressione dell’umanità.
Avete mai ascoltato una persona sensata predicare qualche cosa dell’umanità? Attribuite un senso alle espressioni: “l’umanità è colta” o “l’umanità è analfabeta” o “l’umanità è pacifica” o “l’umanità è guerrafondaia”? Non credo. O almeno spero per voi di no.
Si badi che dell’umanità non si può predicare nulla anche se si aspira, come si deve, ad esprimere un giudizio sintetico di carattere statistico. Ciò non accade se si vuole predicare qualche cosa di uno o altro popolo. Allora si dirà e si dice spesso che un popolo è guerrafondaio o al contrario che è o è sempre stato pacifico; che esprime o ha espresso in altri tempi una grande cultura, ovvero che è un popolo di analfabeti e di pastori; che è un popolo composto da uomini alti e robusti; che è un popolo caratterizzato da un’educazione rigorosa o da alto livello di corruzione; e così via.
Perché possiamo predicare dei popoli, sia pure, come è ovvio, sul piano statistico, ciò che non possiamo predicare dell’umanità? Semplicemente perché i popoli esistono e l’umanità no. L’umanità è niente altro che un termine che designa l’insieme dei soggetti o meglio dei popoli che vivono sulla terra. L’umanità non è nemmeno una somma, perché, come da piccoli abbiamo appreso alle scuole elementari, non si possono sommare le mele con le pere e con le arance; i popoli, infatti, sono tutti diversi.
Si può “amare l’umanità”? E si può “amare un popolo”?
Se si intende per amore qualcosa come l’ammirazione – ammirare è uno dei significati del verbo amare – nel primo caso si deve rispondere di no e nel secondo di si. Se qualcuno, mentre svolge un dialogo con voi, vi dichiarasse “io amo l’umanità”, cosa pensereste? Avreste una buona impressione di quella persona o vi insospettireste? Che significa amare l’umanità? Se, appunto, si intende per amore l’ammirazione, come si può ammirare l’insieme dei popoli o degli uomini che vivono sulla terra? Al contrario si può ammirare un popolo (sempre dal punto di vista statistico, naturalmente): per la cultura musicale e i costumi che esprime; o per il carattere guerriero e la capacità e volontà di resistere, anche combattendo per decenni, a invasioni di popoli meglio armati, più ricchi e più dotati sotto il profilo tecnologico; o per l’indole libertaria dei suoi membri; o per altre ragioni.
Se invece si utilizza il termine amare in senso proprio, mentre, talvolta, ha un senso l’espressione “amare un popolo”, per esempio quando si narra che un condottiero amava a tal punto il suo popolo, che si sacrificò per esso, non si può, salvo che si creda di essere Dio, “amare l’umanità”. Il filosofo Salvatore Natoli, che credo non sia cattolico né cristiano, ha scritto che “… al termine umanità è preferibile il termine evangelico prossimità. Il prossimo è: io, l’altro e l’altro accanto, perché l’umanità è astratta. Nel nostro secolo, in nome dalla umanità si sono commessi grandi delitti. È difficile commettere delitti di fronte alla prossimità”; e quando ha ammesso che “L’umanità non esiste, è incarnata in ogni uomo” ha alluso, con il riferimento all’umanità incarnata, all’altro e più preciso significato della parola, come criterio di condotta morale che dovrebbe essere nell’animo di ogni uomo (Salvatore Natoli, L’etica della vita quotidiana). Ma noi ci stiamo interrogando se esista o meno l’umanità come soggetto collettivo. E la risposta, ormai è chiaro, deve essere negativa.
Se poi consideriamo che negli ultimi anni le azioni politiche più criminali, ignobili, prepotenti e imperialistiche sono state compiute in nome dell’umanità – alludo alle guerre umanitarie – dobbiamo convenire con l’autorevole filosofo del diritto italiano Danilo Zolo, il quale ha collocato in epigrafe del suo importante libro “Chi dice umanità” una frase di Carl Schmitt: “Chi dice umanità cerca di ingannarti” (si pensi al preteso genocidio dei kosovari, mai avvenuto, o alle armi di distruzione di massa e alla alleanza tra Saddam e Al Qaeda, risultate, le une e l’altra, pure menzogne). Qui sembrerebbe che l’umanità sia invocata nell’altro significato, di minimo criterio morale di condotta che deve essere presente in ogni uomo. Ma è chiaro che chi non è dotato di quel minimo criterio di condotta è un “non uomo” e la guerra autorizzata dall’Onu o iniziata in nome dell’umanità dalla Nato diviene una guerra dell’umanità (nel senso di soggetto collettivo) o di una parte di essa contro “non uomini”. Non a caso gli ambienti angloamericani hanno definito e definiscono Milosevic, Saddam e Ahmadinejad come “nuovi Hitler”. Preciso soltanto che talvolta chi dice umanità non sta cercando di ingannare gli altri, bensì, senza ovviamente saperlo, sta ingannando se stesso – e questa, secondo il mio punto di vista, è la posizione di tanti amici che in buona fede difendono idee proposte e ideologie “umanitariste” – perché sta formulando proposizioni che, per principio – proprio perché l’umanità non esiste – non sono dotate di significato teorico e pratico.
2. Quale corollario deve trarsi dalla constatazione che l’umanità non è un soggetto della storia, non agisce, non subisce azioni, non si trova in una o altra situazione, dell’umanità non si può predicare nulla, l’umanità non si può né amare né ammirare ed è invocata dalle grandi potenze per ingannare i dominati?
Sotto il profilo del discorso politico, che è quello che interessa in questa sede, sembra che il corollario sia che, nell’esprimere ragionamenti e propositi politici, si deve evitare, nel modo più assoluto, l’uso del termine “umanità” (e delle espressioni che sovente lo sostituiscono), pena la insensatezza, teorica e pratica, di frasi che, altrimenti – ossia se in luogo di umanità si utilizzassero altri termini – avrebbero un preciso significato teorico e la capacità di esprimere un sensato proposito politico. L’uso del termine umanità fa scivolare il discorso verso il piano moralistico, religioso, buonista, stoltamente cosmopolita (confonde la realtà con un – peraltro opinabile – desiderio), ipocrita (unisce ciò che è diverso) e umanitarista; mentre si deve essere umanisti e realisti, non umanitaristi.
Reco soltanto un esempio, tra i tanti che sarebbe possibile addurre. Consideriamo il tema del cosiddetto picco del petrolio. Qui è necessaria una premessa. Il comune cittadino, sebbene tenti di informarsi e magari sia dotato di una robusta cultura, umanistica o invece scientifica, non è generalmente in grado di farsi una opinione fondata su solidi argomenti circa il già avvenuto raggiungimento del picco, ovvero circa l’imminenza del raggiungimento, ovvero circa l’insussistenza del problema, almeno per i prossimi due o tre decenni. Perciò, il cittadino ecologista o con tendenze apocalittiche finisce per “credere” che il picco sia stato o stia per essere raggiunto; e il cittadino scettico e quello cinico per “credere” che si tratti del solito allarme degli apocalittici. Credere, così come si crede in Dio. Tuttavia, un politico lungimirante ed accorto può muovere dal presupposto che il raggiungimento del picco è un evento possibile – così come, in generale sono possibili più limitate crisi energetiche, dovute ad altre cause – e pertanto, in considerazione di questa possibilità (oltre che di altre ragioni), può proporre una o altra strategia di politica energetica e di politica estera per il proprio paese.
Tanto premesso, ha senso domandarsi quali saranno le conseguenze del raggiungimento del picco del petrolio sull’umanità? No.
Infatti, nel momento in cui si verificheranno le più gravi conseguenze, alcuni popoli, mediante l’azione degli organi statali, si saranno preparati e avranno scelto, a seconda dei casi: di stipulare trattati bilaterali con stati produttori, i quali assicureranno le forniture necessarie e, eventualmente, di assicurare la difesa armata del trasporto del greggio; e/o di sostituire, tempestivamente e nella maggiore misura possibile, le fonti di energia tradizionali con altre fonti; e/o di perseguire una politica di risparmio energetico e di diffusione di una cultura spartana tra la popolazione. Altri stati si troveranno del tutto impreparati. E di questi alcuni, potendoselo permettere (o credendo di averne la possibilità) ricorreranno all’uso della forza, dichiarando guerre di aggressione, magari spinti dalle popolazioni non disposte a fronteggiare pacificamente la nuova situazione e a sopportare stoicamente le terribili conseguenze. Altri comprenderanno di non essere stati previdenti e si daranno da fare per arginare i danni e prendere tardivamente le opportune decisioni. Senza trascurare che alcuni stati conserveranno, per molti anni, le fonti di energia tradizionali di cui dispongono e le utilizzeranno per il proprio popolo, anche se ciò comporterà una notevole diminuzione delle entrate (a causa della diminuzione delle vendite); mentre altri stati dovranno sopportare tutte le conseguenze della carenza di energia.
Dunque, l’ipotesi del picco del petrolio non costituisce un problema dell’umanità. Perché questa non esiste. Perché non è e non sarà l’umanità a fronteggiare il problema, ad effettuare le scelte e a prendere le decisioni. Perché non tutti i popoli si trovano nella medesima situazione e quindi non tutti avranno lo stesso problema. E d’altra parte, le capacità, le tecnologie, la ricchezza e, ahimè, la potenza militare e la prepotenza dei popoli sono diverse. Quindi anche le strategie sono e saranno diverse.
3. Ciò che ho osservato per il picco del petrolio vale per tutti i possibili problemi politici. Perciò è bene svolgere ragionamenti che, nell’analisi, considerino soggetti collettivi reali (Unione europea, Stati Uniti, Cina, Giappone, Bric, Onu, Italia, Germania, ecc.) e, nella proposta, rispecchino la dimensione territoriale dell’azione politica che si vorrebbe svolgere: l’Italia. Non si tratta di essere necessariamente patriottici e sovranisti oppure nazionalisti. Si tratta di tutt’altro: senso del limite, onestà intellettuale; minimo realismo; esigenza di non ingannare noi stessi. La chiarezza del ragionamento politico e la purezza linguistica con la quale esso è espresso sono le uniche armi che possiamo contrapporre alla lobotomizzante scatola catodica: i migliori ci seguiranno.
Ciò non significa che si debbano ostacolare o non si debbano promuovere, a seconda della ideologia alla quale si aderisce, una internazionale sovranista o una internazionale della decrescita una internazionale socialista (vera, non quella che oggi esiste) o una internazionale antimoderna o una internazionale anticonsumistica o una internazionale della tutela dell’infanzia e così via. Ciascuna di queste internazionali può essere utile a far circolare propositi politici, esperimenti e risultati. Ma i propositi, gli esperimenti e i risultati saranno irrimediabilmente propositi, esperimenti e risultati di uno o altro popolo ed eventualmente di più popoli.
*Ho ritoccato un articolo del dicembre 2010, depurandolo dal contingente dibattito nel quale si inseriva, dando così all’articolo completa autonomia.
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