di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Benedetta Scotti)
L’Unione Europea, “ce monstre froid” avrebbe detto Gustave Thibon, è l’unica giurisdizione al mondo ad applicare delle policies di controllo relative agli aiuti di Stato. L’obiettivo dichiarato di tale ingerenza nella gestione delle risorse degli stati membri è duplice. Primo, prevenire e sanzionare ogni comportamento che possa nuocere a quella che è, di fatto, la raison d’être del progetto europeo, ovvero il mercato unico (dopo quanto è accaduto e sta accadendo in Grecia, risulta difficile credere che il fine del sogno europeo sia davvero la solidarietà tra i popoli). Le misure prese dagli stati semi-sovrani per supportare le imprese nazionali in crisi, vedasi garanzie o ricapitalizzazioni, rientrano nella lista nera della danese Margrethe Vestager, il Commissario Europeo per la Concorrenza, dal momento che possono avvantaggiare “ingiustamente” i beneficiari, distorcendo così le dinamiche concorrenziali. Secondo, e di questo a Bruxelles vanno molto fieri, proteggere i cittadini-contribuenti dalle pressioni del big business sempre pronto a bussare alla porta dei vari governi nazionali in cerca di aiuti indebiti. Certo, viene da chiedersi, en passant, chi si premura di proteggere gli uomini di Bruxelles dalle indebite pressioni dei lobbisti che proliferano nella capitale belga. Tuttavia, quel che ci preme in questa sede è rileggere l’annosa questione degli aiuti di Stato alla luce delle recenti vicissitudini degli istituti di credito nostrani, dal bail-in di Banca Etruria e compagne, passando per il salvataggio di Monte Paschi da parte del Tesoro fino all’epilogo di Veneto Banca e Banca di Vicenza, misericordiosamente acquisite da Intesa San Paolo al simbolico prezzo di un euro con promessa di sostanzioso intervento pubblico per lo smaltimento dei crediti deteriorati. Le regole europee che limitano il ricorso agli aiuti di Stato si applicano, infatti, anche all’industria bancaria sebbene sussista una differenza fondamentale con gli altri settori dell’economia: salvare con fondi pubblici (bailout) una banca in crisi, per la quale non si profila nessun acquirente privato, può beneficiare le banche concorrenti invece di danneggiarle. Il fallimento di una banca di rilevanza sistemica può infatti innescare un effetto domino ai danni di banche sane travolte dalla psicosi collettiva dei risparmiatori con conseguente corsa agli sportelli.
Secondo il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, possono considerarsi compatibili con il mercato interno gli aiuti di Stato atti a “porre rimedio ad un grave turbamento di uno Stato membro” (TFUE, 107 (3)). Tuttavia, la direttiva europea sulla risoluzione delle crisi bancarie, la cosiddetta BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive), introdotta nel 2014, mira a minimizzare il ricorso ai salvataggi pubblici. La radice di tanta avversione nei confronti dell’intervento statale è da ricercarsi nelle falle strutturali dell’euro, una moneta concepita male e messa in atto peggio, cui si sta cercando di rimediare al grido di “ci vuole più integrazione”. La BRRD è infatti la normativa che sottende all’Unione Bancaria Europea (primo step di un processo di integrazione mirante ad un’Europa federale) pensata per spezzare il legame tra banche e debito pubblico che, come ci hanno ripetuto in lungo e in largo, sarebbe all’origine della crisi dell’Eurozona. In realtà, ci sia concesso notarlo per inciso, è ormai ampiamente riconosciuto come la crisi dell’Eurozona sia stata una crisi di debito privato, che ha preso le forme di una crisi di bilancia dei pagamenti raccontata crisi di debito pubblico.
L’Unione Bancaria ha comportato la centralizzazione della vigilanza delle maggiori banche europee, passate nel novembre 2014 sotto la diretta sorveglianza della BCE. A questo punto, logica vuole che sia incoerente lasciare che gli eventuali costi di risoluzione gravino solamente sulle spalle dei contribuenti nazionali in caso di crisi. Due le soluzioni possibili: mutualizzare il costo dei bailout tra i paesi dell’Unione Monetaria oppure, semplicemente, evitare che accadano. Visto che la mutualizzazione dei bailout implicherebbe una qualche forma di trasferimento fiscale, possiamo affermare con discreta sicurezza che, da che Merkel è Merkel, la prima opzione rimane remota. Ed infatti, come anticipato, la BRRD e l’Unione Bancaria mirano semplicemente a eradicare il ricorso al bailout. Perché il paracadute pubblico si apra, occorre prima che azionisti, obbligazionisti e se necessario anche i correntisti con depositi superiore ai 100mila euro partecipino alle perdite della banca da ristrutturare. È il famigerato principio dei bail-in che nell’ottica dei policy-makers, adepti della filosofia de la technique d’abord, avrebbe il merito di depoliticizzare la gestione delle crisi bancarie e prevenire l’azzardo morale delle banche. I casi sopracitati hanno dimostrato come invece il bail-in sia tutt’altro che impermeabile alle istanze della politica e allo spauracchio delle urne. Gli obbligazionisti subordinati retail, i “piccoli risparmiatori” (anche se sarebbe più opportuno parlare di “piccoli investitori”) che hanno sottoscritto titoli senza coglierne presumibilmente il rischio, sono stati infatti rimborsati o hanno ricevuto promessa di rimborso (come nel caso delle due banche venete) prima dal governo Renzi e poi dal governo Gentiloni.
Opporre il virtuoso (infame) bail-in al vizioso (salvifico) bailout è in realtà un esercizio sterile. Tutti siamo liberisti finché non tocca a noi pagare. Tutti siamo statalisti quando invece ci tocca sborsare. Concentrandosi sul chi deve pagare (lo Stato o gli azionisti/obbligazionisti ma mai noi, sia ben chiaro), si passa a lato del cuore del problema, ovvero la cattiva gestione e dunque la responsabilità dei vertici bancari di cui si parla decisamente meno di quanto si dovrebbe. Sulla gestione continuiamo a sollevare dubbi sul modello di banca universale, sdoganata in Italia con la riforma bancaria del 1993, in cui confluiscono i modelli di banca commerciale e di banca d’investimento, al centro delle critiche in seguito alla crisi del 2008. D’altronde, mentre in Italia ci viene ripetuto che criticare la banlsoleca universale è una follia giacché le nostre banche continuano ad essere troppo piccole, e per questo inefficienti e poco competitive, nel Regno Unito si sta tentando una cura dimagrante per le big banks che a partire dal 2019 dovranno separare l’attività di retail da quelle di investimento (il cosiddetto ringfencing). Lo stesso si è tentato di fare sul continente, ma l’idea di ringfencing è stata fortemente osteggiata da Francia e Germania, che hanno strenuamente, per non dire legittimamente, difeso gli interessi dei loro “campioni nazionali”. Eh sì, viva l’integrazione!
fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/economia/la-mascherata-del-bail-in-e-bailout/
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