La reinvenzione nazionalista della Patria
Il nazionalismo in Italia. Una nota storica.
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Massimiliano Vino)
Posto fine allo Stato Pontificio e unificata la nazione sorse, tra le riottose fila intellettuali, un movimento di viscerale critica nei confronti del governo. Incancrenite le tensioni interne con il trascorrere del tempo si sarebbe sempre più rischiato di dover fronteggiare la totale paralisi politica della nazione, terribile impasse che avrebbe certamente portato al tracollo istituzionale. Rimandare il più al lungo possibile lo scontro divenne, dunque, un’esigenza fondamentale tanto che, nel tentativo di guadagnar tempo, il governo pensò bene di far ricorso alla politica coloniale: ultima, disperata, risorsa volta ad ottenere consenso popolare e sopire, definitivamente, le feroci critiche di una classe intellettuale disgustata e delusa dall’imbelle stato liberale.
L’immagine e la bramosia della nuova generazione, e dei delusi di quella poco antecedente, si rivolgevano, come già prima in Inghilterra, Germania e Francia, all’imperialismo o nazionalismo, del quale padre spirituale fu in Italia il D’Annunzio.
Con queste parole dal sapore critico, Benedetto Croce sintetizzò le trasformazioni in atto nell’Italia liberale nel corso dei primi anni del ‘900. I nazionalisti si erano in effetti costituiti in associazione politica vera e propria nel 1910, un anno prima dell’impresa libica. Su quanto effettivamente tale associazione, dall’aspetto magmatico e dalle basi letterarie, fosse stato in grado di influenzare la decisione di Giolitti di dichiarare guerra all’impero turco, non tutti gli studiosi sono concordi. A partire dallo stesso Croce, il quale lodò lamoderazione di Giolitti nel corso dell’intera campagna, e i suoi pieni meriti nel condurla in porto.
Di contro a queste affermazioni vi era il leader del movimento nazionalista italiano, Enrico Corradini, secondo il quale, nel corso della campagna libica:
Il nuovo spinse il vecchio alla guerra, e se il nuovo non fosse stato, e i nuovi italiani non fossero stati, neppure la «fatalità storica» dell’onorevole Giolitti sarebbe bastata a muovere le navi e i reggimenti […]. Dovere essenziale del nazionalismo è la formazione di una coscienza guerresca da opporre alla coscienza pacifista.
In cosa consistette dunque il contributo dei nazionalisti? Facendosi portavoce e interprete di una nuova italianità, il nazionalismo partì da un’idea di conquista militare, legando cioè indissolubilmente il proprio programma politico all’espansione imperialista. La nazione diveniva ora manifestazione di una volontà di potenza comune. La Libia rappresentava la volontà di opporre un’immagine di italianità ad un’altra italianità, ridefinita dall’Oltremare infatti, come fa notare Proglio, la conquista attraverso la guerra prima e il dominio poi, permettevano di far rinascere idealmente l’Italia, a cinquant’anni dall’Unità, consegnando agli italiani il potere di reinventare le proprie appartenenze.
Secondo il principale interprete di queste istanze di rinnovamento, in effetti, soltanto la politica esteraavrebbe potuto risolvere i problemi di politica interna. Per tale motivo l’impresa libica, scrisse Corradini ne L’ora di Tripoli, avrebbe rappresentato un vantaggio per tutti, per la borghesia come per il proletariato, salutata quindi come primo atto del risorgimento della nazione italiana. Naturale fu perciò il sostegno nazionalista al governo durante la guerra, caratterizzato da manifestazioni, stampe ed opuscoli e dall’idea di una vera e propria rinascita della nazione.
Uno dei principali archetipi della rinascita della nazione divenne, anche in questo contesto, il mito di Roma. Durante l’impresa libica questa idea andò rimodellandosi, influendo sull’idea stessa di Libia come terra di conquista. I nazionalisti, anche se non inventarono il mito di Roma, usufruirono di linguaggi già collaudati da Mazzini o da Oriani, ampliandoli e perfezionandoli. Roma poteva servire in parte per “giustificare” le conquiste italiane in Tripolitania e Cirenaica. Scrisse infatti Corradini ne L’ora di Tripoli:
Ma ovunque stanno le vestigia delle antiche civiltà; dovunque frondeggia ancora l’olivo romano […] E sullo stesso cammino trovammo i pozzi romani. E le massicciate romane, le dighe di sassi già per i pendii degli uadi per trattenere il terreno buono. Ed i serbatoi romani e le altre opere idrauliche. E finalmente il castello romano che proteggeva dalle cime i lavori agricoli […] Non faccio il retore delle reminiscenze classiche, ma affermo che la Cirenaica su cui quanti non sanno guardare, altro non vedono se non la tenda del beduino, il campicello d’orzo stento e la roccia, aspetta nuovi agricoltori e nuovi reggitori per rinascere a nuova vita.
Rivendicare la Libia in nome di un mitico passato romano significava perciò, da un lato giustificarne la conquista, dall’altro provvedere tanto alla rinascita degli italiani, eredi e discendenti di Roma, quanto degli stessi libici, i quali avrebbero giovato del ritorno dei romani dopo secoli di abbandono e di declino sotto l’impero ottomano. Venne dunque costruito un parallelismo tra la conquista italiana del Nord Africa e le guerre puniche, mediante il comune richiamo al Mare Nostrum. I nazionalisti, protagonisti principali delle manifestazioni in piazza a sostegno della guerra, consacrarono così la nuova Roma italiana, divenuta, secondo le parole de L’idea nazionale «oggi veramente capitale». A questo discorso, che in pratica rendeva esplicita un’idea di capitale incompiuta, corrispondeva l’idea di un Risorgimento incompiuto. A ciò fece riscontro la ripresa di un mito risorgimentale in chiave nazionalista e colonialista.
Il nodo che avrebbe dovuto tenere assieme il Risorgimento con l’impresa libica divenne il soldato, protagonista indiscusso delle nuove narrazioni di cui si fecero promotori anche (ma non solo) i nazionalisti. Francesco Coppola su L’idea nazionale esemplificò ancora un concetto di rinascita che sarebbe giocoforza passato per le trincee e per il sacrificio degli italiani, in grado di spazzare via il pavido e cinico individualismo borghese e la idiota menzogna democratica.
Questa idea di una guerra redentrice, del sangue in grado di lavar via l’onta di un Risorgimento incompiuto, oltre alle disfatte coloniali in Africa Orientale, si legava infine all’ultimo tassello, già accennato nella descrizione della risorta mitologia romana imperiale: il sacrificio dei soldati italiani e il loro sangue avrebbero contribuito alla fecondità della terra conquistata. Scrisse Corradini:
Spesso in Libia, nelle profondità delle oasi e sulle sabbie del deserto vidi soldati nostri morti. Nulla restava più di loro, tranne un tronco irrigidito. Tutto avevano dato e a vent’anni erano morti senza generare. Ma vedendo il loro sangue sparso per terra, mi pareva che questa se ne rifecondasse e la mia mente, guardando nel futuro, vedeva quei luoghi riempirsi d’una popolazione italiana che godeva della ricchezza di quella terra. Così quei giovani non avevano generato, ma la virtù del loro sangue veniva trasmessa lontano e dava frutto per le stesse vie della prima nostra madre, la terra.
Da queste parole, oltre ai temi del sacrificio, del sangue e del soldato come parti del corpo della nazione, emerge la chiara volontà di una colonizzazione agricola della Libia, per favorirne la rinascita e per metterne a frutto le ricchezze nascoste e tanto celebrate dalla stampa nazionalista e dall’intera opinione pubblica a favore dell’impresa, prima e durante la guerra. I nazionalisti furono, anche da questo punto di vista, i piùprolifici nelle descrizioni quasi paradisiache della Terra promessa. Corradini scrisse, ad esempio, di avervi visto:
Palme non a un sol tronco, ma cesti di quattro, di sei tronchi che nascono tutti dallo stesso ceppo, grandi alti; e sotto si stendono vere macchie di viti, pergole basse che hanno i grappoli fitti come i pampini; ci si curva e si guarda in su, e si vede da cima a fondo tutt’un cielo di grappoli smisurati. E a foresta ci sono piante di limone, albicocchi, fichi, melagrani di smisurata grandezza, boschi di banani che danno frutto.
L’italiano, ancora in Corradini, sarebbe stato in grado di trasformare persino il deserto in terra coltivabile:
Lavorano [i contadini] in una mattina come questa, sullo stesso terreno che ora è sabbia e allora sarà zolla feconda. Dov’è oasi e dov’è il deserto? I limiti tra la fecondità e la sterilità, tra la morte e la vita, saranno portati altrove, lontano, e tutto sarà vita e fecondità. Il deserto sarà spartito in giardini e poderi.
Per tale motivo il programma espansionista nazionalista poteva riassumersi nella formulazione di sostituire al vecchio spirito italiano migratorio il nuovo spirito coloniale imperialista. Il sangue e il lavoro degli italiani, nel mito e nel ricordo di Roma, avrebbero contribuito alla duplice rinascita, spirituale ed economica, dell’Italia e della Libia.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/storia/guerra-di-libia-patria/
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