Storia dell’Unione Europea, 2016-2026. V Parte: il declino dell’impero americano (3)
di PIER PAOLO DAL MONTE
La presidenza del tycoon dal pel di carota si inserì proprio nel bel mezzo del quadro geopolitico che abbiamo qui descritto. Il motto “America first”, che caratterizzò la campagna elettorale di Trump era verosimilmente volto a riportare il focus della politica americana sui problemi interni. Non crediamo affatto che alludesse al ruolo di egemonia sul resto del mondo, come, ad esempio il motto “Deutschland uber Alles” ma, piuttosto, al ruolo di grandezza economica ricoperto nei decenni del dopoguerra: benessere, occupazione, fiducia nel futuro, o, per dirlo con un altro slogan di quella campagna elettorale: “Make America great again”, ovvero «è ora di pensare prima a noi stessi, ai nostri problemi, piuttosto che pensare soltanto a proiettare la nostra egemonia altrove» (con l’annessa “esportazione della democrazia”)
Certo, era un messaggio semplicistico. Tuttavia dietro al rasoio di Ockham, anzi, l’ascia di Ockham dei messaggi elettorali vi era, forse – e non certo da parte di Trump, ma da parte dei gruppi che lo sostenevano- un’analisi realistica circa la crisi del modello di riproduzione capitalistica seguito negli ultimi decenni, del quale la cosiddetta globalizzazione era uno dei cardini fondamentali
Per perseguire questo scopo (tenendo presenti le considerazioni che abbiamo precedentemente esposto), era necessario un cambiamento radicale della politica sino ad allora seguita, ovvero quella che promuoveva un processo di riproduzione capitalistica incentrato sulla “finanza”, che era dovuto al ruolo del dollaro come “quasi-world-money”, e si fondava sull’importazione di capitali dal resto del mondo e sul loro “riciclaggio” nelle piazze di Wall Street e Chicago. Bisognava, dunque stemperare questo paradigma promuovendone uno che cercasse di ritornare, almeno in parte, al modello di riproduzione “fordista-leynesiano”.
Questa trasformazione implicava il prendere atto (consciamente o inconsciamente) del declino della posizione egemonica degli stati Uniti e del conseguente percorso verso un mondo multipolare nel quale i “privilegi esorbitanti” non erano più intrinsecamente sostenibili e nel quale, pertanto gli USA erano solo la potenza principale ma non quella dominante. Questo metteva in discussione del ruolo del dollaro come valuta internazionale (con tutto quello che ne conseguiva), ma anche il senso della proiezione militare americana nel resto del globo.
Le politiche “protezionistiche” caldeggiate da Trump andavano, proprio in questa direzione: ridurre il deficit commerciale avrebbe avuto, tra le altre conseguenze, quella di diminuire l’”esportazione” di valuta. Pertanto vi sarebbe stato un minore “riflusso monetario” verso investimenti finanziari denominati in dollari, il che avrebbe ridotto il “combustibile” col quale si alimentavano le piazze di Wall street e di Chicago.
Era una svolta radicale rispetto alle politiche precedenti, che prendeva atto (consciamente o inconsciamente) del declino dell’egemonia americana e del conseguente evoluzione verso un mondo “multipolare” nel quale gli USA erano, senza dubbio, la potenza preminente, ma non più quella dominante.
. Naturalmente, cambiamenti di quest’entità, non potevano non incontrare fortissime resistenze da parte delle élites economiche e politiche del paese che avevano prosperato grazie al “modello finanziario” descritto, e che cercarono in tutti i modi, prima di scongiurare l’elezione di Trump, poi di ostacolarne l’operato. Un apparato di potere che governa uno Stato complesso, improntato da una visione del mondo pluridecennale non poteva essere cambiato dall’oggi al domani (posto che potesse essere modificabile).
Il nuovo presidente, tuttavia, iniziò, sin dai primi momenti (e con un certo fragore) a mettere in atto alcune delle sue promesse elettorali, che con alcune iniziative piuttosto eclatanti che mettevano in discussione la cosiddetta “globalizzazione”. Uno dei suoi primi atti, una volta insediatosi in carica, fu, infatti, quello di abolire il TPP (Trans-Pacific Partnership), un accordo di libero scambio tra diverse nazioni che si affacciavano sull’oceano pacifico, e decise anche di abbandonare i negoziati sul TTIP, un analogo accordo tra gli Stati Uniti e L’Unione Europea..
Nonostante alcune azione alquanto discutibili nell’ambito della politica estera (come il bombardamento missilistico sulla Siria che si verificò nel’aprile del 2017 e che fu, più che altro, un atto dimostrativo compiuto più per “ragioni interne”), la nuova amministrazione iniziò, seppure lentamente, per non scontentare troppo gli apparati e il complesso militar-industriale, a ridurre la proiezione militare di Washington nel resto del mondo. Naturalmente, date le resistenze degli apparati di cui sopra, l’azione di Trump non fu né rapida, nè priva di ambiguità, con grande scontento dei suoi sostenitori e grande giubilo dei suoi detrattori. Entrambe le categorie, molto probabilmente, avevano una concezione un po’ superficiale della politica e tendevano a considerare il presidente americano come una sorta di monarca assoluto, le cui decisioni potevano essere attuate immediatamente e senza troppi compromessi o passaggi intermedi.
Durante i primi anni della sua presidenza nonostante i limiti appena descritti, si verificarono, comunque processi piuttosto significativi, come il lento “disgelo” delle relazioni con Mosca e un’altrettanto lenta trasformazione dell’”assetto strategico” e delle “aree di proiezione” in alcune regioni del globo, come il Medio Oriente, il Nord Africa, l’Asia centrale e i Balcani.
Uno degli aspetti più importanti di questo “nuovo corso”, per ciò che concerne l’Europa, riguardò i rapporti tra gli Stati Uniti e la NATO. La nuova amministrazione aveva una posizione diversa da quelle precedenti nei confronti dell’Alleanza atlantica, in quanto riteneva che essa, frutto dell’assetto che i rapporti internazionali avevano assunto negli anni del dopoguerra, fosse ormai obsoleta.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la NATO perse ogni legame con quello che era il motivo primo della sua esistenza e divenne la semplice proiezione militare fine a se stessa degli USA, un cascame del vecchio mondo che sopravviveva, più che altro, per inerzia. Si inventarono nuovi nemici per mantenere una parvenza di giustificazione per quell’apparato militare, specialmente dopo gli attentati dell’11 settembre (il terrorismo, i regimi corrotti e dittatoriali del Nord Africa, la Siria) ma, alla lunga, tutta questa messinscena non risultò molto convincente e la proiezione militare apparve sempre col suo vero volto, che era quello dell’occupazione da parte della potenza dominante.
Certo questo non significava che gli USA avessero intenzione di rinunciare alla loro presenza militare sullo scacchiere europeo, e neppure che non avessero tenuto conto che un ente così complesso e stratificato potesse essere modificato in tempi brevi. Tuttavia cominciarono a ripensarne l’assetto in modo che fosse più adatto ad un mondo multipolare come quello che si stava delineando, invece che ad un mondo “bipolare” come quello che aveva caratterizzato i decenni del dopoguerra.
La prima opportunità per un parziale ridimensionamento si verificò in seguito al tentativo di colpo di stato in Turchia, cui abbiamo precedentemente accennato, che portò ad un progressivo deterioramento dei rapporti tra gli Stati Uniti e il paese anatolico, ritenuto, ormai, un alleato poco affidabile, per favorirne l’uscita dalla NATO, cosa che avvenne dopo qualche anno. Il contingente americano, che faceva capo alla base di Incirlik venne quindi trasferito a Cipro, scelta che provocò notevole malcontento da parte del governo turco.
Nel corso degli anni, gli USA ridussero progressivamente i loro finanziamenti all’alleanza atlantica e ridimensionarono la loro presenza in alcuni paesi europei, come la Germania spostando la loro presenza verso “Paesi di confine” come la Polonia o la Romania, o sul territorio del loro alleato più affidabile, il Regno Unito.
Inoltre vi fu un notevole riposizionamento della presenza militare americana sul confine sud dell’Europa. Nel 2020 venne aperta una grande base a Malta, crocevia del mediterraneo, che sostituì gran parte delle basi che erano presenti sul territorio italiano.
I cambiamenti avvenuti nell’organizzazione della NATO ci riportano, dunque, all’oggetto della nostra attenzione, ovvero l’Europa, non solo perché si verificarono, appunto, nel vecchio continente, ma anche perché, come vedremo nel prossimo capitolo, ebbero importanti ripercussioni sull’assetto dell’Unione Europea, che è l’oggetto della nostra attenzione.
A questo punto, è opportuno ricordare che, il cosiddetto “progetto europeo”, ovvero quello che avrebbe condotto, per passi successivi, all’Unione Europea, non fu, o fu solo in minima parte, ciò che quel tipo di propaganda agiografica che è chiamato “storiografia” ama raccontare; ovvero la realizzazione del “sogno” di alcuni uomini i quali, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, o all’indomani di essa, elaborarono oniricamente il disegno di abolire gli Stati-nazione nel vecchio continente, in quanto forieri, ai loro occhi, della guerra e della distruzione che avevano vissuto. In realtà quel progetto era frutto dell’ assetto che gli Stati Uniti vollero dare ad una parte molto importante della loro sfera d’influenza (ovvero i loro alleati subalterni europei) all’indomani del conflitto[1].
Quell’ordine non era soltanto il frutto della divisione del mondo in due blocchi egemonici contrapposti, quello comunista e quello capitalista (o, per le anime belle, la “cortina di ferro” e il “mondo libero”), che vedeva l’Europa divisa in due parti, entrambe a sovranità limitata (un po’ più limitata in quella dell’est, un po’ meno in quella dell’ovest), ma fu dettato anche da esigenze economiche, che non furono meno importanti di quelle politiche e strategiche nella determinazione degli Stati Uniti di promuovere l’unità europea. Come scrisse Robert Gilpin:
«La motivazione fondamentale per supportare l’unificazione economica dell’Europa Occidentale fu la sicurezza politica dell’Occidente contro l’Unione Sovietica»
Per perseguire quest’obiettivo il governo USA era disposto a tollerare qualche discriminazione verso l’importazione di merci americane nel neonato Mercato Comune. Ma non era disposto a tollerare alcuna discriminazione negli investimenti diretti delle compagnie americane all’interno del Mercato Comune. Il supporto degli Stati Uniti al Trattato di Roma fu vincolato alla garanzia “che una filiale di una società americana sarebbe stata trattata allo stesso modo delle aziende dei paesi europei. L’importanza di questa politica, e dei seguenti trattati commerciali bilaterali, per l’espansione in Europa, delle aziende americana, non può essere sottovalutata»[2]
Giovanni Arrighi e Beverly Silver sottolineano che:
«Il governo americano non risparmiò soldi o energie per creare, i Europa, uno spazio politico-economico abbastanza grande da consentire al capitale delle proprie aziende di sperimentare una seconda giovinezza al di là dell’Atlantico.
Attraverso l’uso efficace di incentivi economici (soprattutto il Piano Marshall), ha promosso la cooperazione europea e la riduzione delle barriere economiche all’interno dell’Europa. Tramite il riarmamento degli USA e dell’Europa sotto l’egida del North Atlantic Treaty Organization (NATO), Ha provveduto ad ulteriori incentivi per l’integrazione economica europea e per gli investimenti diretti esteri delle compagnie americane [in Europa, n.d.a.]. In questi ed altri modi ha fornito un supporto essenziale per la creazione dell’Unione Europea dei Pagamenti (UEP) e della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, innescando, quindi, il processo che culminò nella creazione della Comunità Economica Europea nel 1957»[3]
Come dichiarò John Foster Dulles, nel 1948:
“Un Europa sana non può essere divisa in piccoli compartimenti, ma deve essere organizzata in un mercato abbastanza grande da giustificare i moderni metodi di produzione e consumo di massa»[4]
Negli anni del dopoguerra, come abbiamo sottolineato era quindi strategico, per l’economia americana, cercare di creare un mercato europeo che fosse abbastanza grande per assorbire una fetta cospicua della propria produzione industriale, sia per l’insediamento delle proprie aziende nel vecchio continente.[5]
Tuttavia, al tempo della presidenza di Trump, la situazione era radicalmente cambiata. Da un lato vi era stato lo spostamento dell’asse dell’economia mondiale verso l’estremo oriente, il che rendeva la vecchia Europa sempre meno importante per i processi di riproduzione capitalistica. Dall’altro, il fatto che le nazioni europee fossero unite in una sorta di chimera politico-economica che era conosciuta sotto il nome di “Unione Europea”, non costituiva più una priorità per gli Stati uniti, come lo era stato in passato, specialmente se si trattava di un’Unione dominata una nazione industriale, come la Germania, che ne era la potenza egemone. Le politiche mercantilistiche tedesche, imposte a tutto il continente, facevano sì che l’Europa tutta fosse diventata un’area economica votata alle esportazioni e alla deflazione interna (compressione dei salari, e, di conseguenza, del potere d’acquisto) mentre gli Stati Uniti erano costretti a svolgere ruolo di “consumatore di ultima istanza” dei i surplus produttivi europei per evitare l’innesco di una spirale recessiva mondiale.
Se questo poteva essere conveniente (per alcuni) nel periodo nel quale veniva perseguita la finanziarizzazione, in quanto i capitali mobili europei potevano essere riciclati sulle piazze finanziarie americane, divenne un grosso problema per le politiche dichiarate dalla nuova amministrazione.
In pratica si era invertita la situazione che, negli anni del dopoguerra aveva spinto gli USA a promuovere l’unione tra le nazioni europee. Inoltre, nel corso del tempo, si era compreso che che la moneta unica, l’euro, era stato lo strumento principale delle politiche mercantilistiche tedesche.
Il fatto che la Germania avesse adottato l’euro, valuta comune a diciassette paesi, molti dei erano caratterizzati da un’economia debole e da una situazione di grave crisi ( i PIIGS, ma non solo), faceva sì che l’euro avesse una quotazione più bassa di quella che rispecchiava le prestazioni economiche della Germania
L’euro, fondamentalmente, era un una sorta di “marco sottovalutato”. La Germania, in quegli anni era il paese con il maggiore avanzo commerciale al mondo. Questa situazione sarebbe stata insostenibile nel tempo se essa avesse avuto la propria moneta sovrana. Le esportazioni comportano il fatto che la moneta del paese esportatore sia molto richiesta sui mercati, visto che la le merci di un paese si pagano nella valuta di questi, cosa che, in genere ne fa aumentare il valore nei confronti delle valute dei paesi importatori.
Per spiegare meglio questo fenomeno, ci gioveremo delle parole di Alberto Bagnai, che lo illustrano in maniera assai chiara:
«Supponiamo che il Paese G (come Germania) sia in surplus di partite correnti: esporta più di quello che importa, il che significa che i suoi beni, quindi la sua valuta, sono molto domandati. Cosa dice la legge della domanda e dell’offerta? Che se un bene è molto domandato, il suo prezzo dovrà naturalmente salire. Qui i beni domandati sono di due tipi: le merci di G, e la valuta di G necessaria per acquistarle (chiamiamola “marco”). Normalmente, nei mercati finanziari i prezzi si formano più rapidamente che in quelli delle merci: le contrattazioni sulle valute avvengono in modo pressoché istantaneo. La pressione al rialzo, quindi, si manifesterà prima sul tasso di cambio, e il marco si apprezzerà. Con l’apprezzarsi del cambio, succederanno diverse cose. Primo, i beni di G diventeranno più cari per i non residenti (perché il marco necessario per acquistarli costa di più), e quindi le esportazioni di G diminuiranno; secondo, i residenti di G avranno più potere di acquisto sui mercati esteri (il marco compra più beni esteri, essendosi apprezzato), e quindi le importazioni di G aumenteranno; terzo, vedendo che il marco si apprezza, i non residenti cominceranno a ritenerlo un buon investimento, e compreranno titoli di G (azioni, obbligazioni), cioè presteranno soldi ai residenti di G. Risultato: il saldo delle partite correnti, dal surplus in cui era (esportazioni nette di merci), si muoverà verso lo zero (meno esportazioni di merci, più importazioni di merci), e quello finanziario, dal deficit in cui era (esportazioni nette di capitali), si muoverà anch’esso verso lo zero (meno esportazioni di capitali, più importazioni di capitali).»[6]
Viceversa, siccome ora la Germania fa parte dei paesi che hanno adottato la moneta unica europea, «La Germania esporta, ma il marco non si rivaluta, perché non c’è più: c’è l’euro, che è troppo debole per la Germania in quanto non riflette più la forza della sua produttività.»
Questo era uno dei principali motivi per i quali l’avanzo commerciale tedesco, nel 2015 era il più alto al mondo, raggiungendo la cifra di 294 miliardi di dollari[7]
Inoltre, le politiche deflazionistiche alle quali i paesi dell’Unione Europea erano costretti, per cercare di non soccombere al mercantilismo tedesco, avevano impoverito il continente e fatto sì che l’Europa fosse una sorta di “buco nero” dell’economia mondiale: un’area esportatrice (nella quale la Germania faceva la parte del leone), caratterizzata da bassi consumi interni (l’unione Europea nel suo assieme aveva nel 2015 un avanzo commerciale di 387 miliardi).
Da qui si può capire che gli Stati Uniti cominciassero a «trovare seccante l’essere lasciati soli a sostenere il ruolo di “locomotiva” del mondo, considerando che per farlo devono prendere misure di politica economica (aumento della spesa pubblica, espansione della massa monetaria) che nel lungo periodo potrebbero ritorcersi contro di loro (determinando una nuova crisi finanziaria).[8]»
A complicare i rapporti con la nuova amministrazione americana intervenne anche l’aperta avversione nei confronti del candidato Trump, espressa dai rappresentanti delle istituzioni europee (Junker, Schulz e innumerevoli altri), nonché dai capi di governo dei singoli stati, che non andarono certo nella direzione giusta per facilitare i rapporti bilaterali.
. Questo mutato orientamento della politica americana ebbe notevoli ripercussioni sul futuro dell’ Unione, come vedremo nei prossimi capitoli.
[1] Vedi: Aldrich, Richard J.(1997)’OSS, CIA and European unity: The American committee on United Europe, 1948- 60′,Diplomacy & Statecraft,8:1,184 — 227
Christopher Booker, Richard North, The Great Deception. Can the European Union Survive? , Continnum, London, 2005
[2] Robert Gilpin, U.S Power and the multinational Corporation, Basic Books, New York 1975
[3] Giovanni Arrighi, Beverly Silver, Chaos and Governance in the Modern World System, University of Minnesota Press, Minneapolis 1999, p. 139
[4] Ibid.
[5] Solo una certa ignoranza degli avvenimenti storici fa parlare di globalizzazione o TTIP come se fossero fenomeni nuovi
[6] Alberto Bagnai, Il tramonto dell’euro, Imprimatur, Reggio Emilia 2012, pp.62-63
[7] Alberto Bagnai, L’Italia può farcela, Il Saggiatore, Milano 2014, p.287
[8] Op.Cit. p.134
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