Steeve Keen circa la globalizzazione e il libero scambio
di ALESSANDRO VISALLI
Il professore di economia all’Università di Kinstom, Steve Keen, su Forbes scrive un incisivo articolosimpaticamente costruito come una lettera al Presidente Trump (anche se è solo un pretesto). L’attacco è rivolto in realtà alla convinzione dogmatica ed interessata della disciplina economica, e di tutte le forze sociali e politiche che si lasciano influenzare da essa, che la globalizzazione ed il libero scambio gioverebbero a tutti se solo si condividessero più equamente i guadagni. In sostanza è come se si fosse data una grande festa dimenticando di invitare alcuni, e si potesse rimediare semplicemente facendolo.
Basta quindi fare questa promessa, non è necessario terminare la festa.
Questa per Keen è “una fallacia fondata su una fantasia”, cioè sul nulla. Ed è stata tale sempre, “sin da quando David Ricardo ha iniziato due secoli fa a sognare del ‘Vantaggio comparato e dei guadagni del commercio”. Una teoria che non certo a caso, come ricorda, è stata scritta quando l’Inghilterra era la superpotenza economica mondiale ed il Portogallo un suo rivale. Lo scontro dal quale nacque il libro di Ricardo era del resto ben concreto: abolire o meno le “Leggi sul mais” che imponevano tariffe protettive ai cereali importati dall’Europa. Chiaramente si contrapponevano due sistemi di interesse ben definiti: da una parte i produttori agricoli (ovvero la nobiltà di campagna, difesa da Malthus), dall’altra la crescente forza dell’industria. Secondo il famosissimo argomento di Ricardo se anche la produttività relativa di un settore in un primo paese fosse inferiore a quella assoluta dell’altro paese, ma comunque superiore a quella degli altri settori, converrebbe ad entrambi i paesi specializzarsi ognuno sul settore a maggiore produttività relativa e scambiarsi i prodotti eccedenti. Come si dice, è semplice matematica.
Se tutti i fattori produttivi di entrambi i paesi sono infatti interamente impiegati a fare la cosa che gli riesce meglio, si produrrà di più, e gli scambi comunque faranno sì che ognuno abbia tutto.
La prescrizione è curiosamente del tutto corrispondente agli interessi dell’industria inglese (che aveva una posizione dominante) e del paese in generale: abbattere tutte le barriere tariffarie, in modo che tutti possano guadagnarci.
Come dice Keene l’argomento appare convincente solo fino a che non ci si fa una semplice domanda: “allora come trasformi una pressa di vino in un jenny di filatura?”. La risposta è semplice: “non lo fai”.
Il modello di Ricardo ipotizza in effetti che si possa produrre vino o panno con il solo lavoro, e naturalmente non è così. Sono invece necessarie le macchine, e anche una certa quantità di sapere e organizzazione (di ciò che oggi chiamiamo ‘know how’). E naturalmente le macchine che si usano per la produzione del vino, per non parlare della sottile sapienza dei vinificatori, non può essere usata per qualsiasi altra cosa, sono invece distrutte. Il capitale fisso impiegato viene abbandonato, venduto in perdita o spedito all’estero, i vinificatori sono disoccupati, sottoccupati o emigrano.
Ricardo ignora questo piccolo dettaglio. Ed i successori si sono impegnati sulla stessa traccia, aggiungendo capitale e macchine (Ricardo considerava solo il lavoro come fattore), hanno continuato ad ipotizzare che tutto si potesse spostare senza perdere ed istantaneamente.
Ma leggiamo direttamente da “Principi di Economia”, 1817, di David Ricardo (ed. Utet):
“In un sistema di perfetta libertà di commercio, ogni paese destina naturalmente il capitale e il lavoro agli impieghi maggiormente vantaggiosi. Questa ricerca del vantaggio individuale lega mirabilmente col bene universale di tutti. Stimolando l’industria, ricompensando l’ingegno e usando nel modo più efficace i particolari poteri elargiti dalla natura, essa distribuisce il lavoro nel modo più efficiente ed economico; mentre, aumentando la quantità generale dei prodotti, diffonde il benessere generale e lega con il vincolo comune degli interessi e degli scambi la società universale delle nazioni di tutto il mondo civile. è per questo principio che il vino viene prodotto in Francia e in Portogallo, il grano in America e in Polonia e le ferramenta e le altre merci in Inghilterra.” (p.283)
Di seguito propone il suo famosissimo esempio, sotto l’ulteriore condizione che il capitale e le persone si spostano liberamente, equalizzando i tassi di rendimento, entro i paesi, ma non tra questi, per cui i rapporti commerciali impediscono al capitale di essere sottoutilizzato.
Vale la pena in questa sede sottolineare come le ipotesi di validità della sua tesi sono molteplici, e ben espresse:
– Che ogni paese destini senza alcuno sforzo, ovvero naturalmente, il capitale ed il lavoro sempre agli impieghi maggiormente vantaggiosi;
– Che la ricerca del vantaggio individuale sia la sola molla che conduce al “bene universale di tutti” (decisamente una promessa escatologica);
– Che l’aumento quantitativo della massa delle merci (nel testo c’è una discussione tra merci e ricchezza, ovvero prezzi) si diffonda il benessere e ciò leghi, “con il vincolo comune degli interessi e degli scambi”, quella straordinaria invenzione controfattuale che è la “società universale delle nazioni”, ma, attenzione, solo “di tutto il mondo civile”. Evidentemente gli “incivili” vanno pur convinti, non essendo in grado di capire il loro interesse (con le cannoniere inglesi, naturalmente).
Come dice Keene, tutto ciò è “semplicemente una sciocchezza”. Questa teoria ignora direttamente la realtà, nota a chiunque, che quando la concorrenza estera riduce la redditività di una data industria il capitale in essa impiegato non può essere “trasformato” magicamente in una pari quantità di capitale impiegato in un altro settore. Normalmente invece “va in ruggine”.
Insomma, questo piccolo apologo morale di Ricardo è come la maggior parte della teoria economica convenzionale: “ordinata, plausibile e sbagliata”.
E’, come scrive Keane “il prodotto del pensiero da poltrona di persone che non hanno mai messo piede nelle fabbriche che le loro teorie economiche hanno trasformato in mucchi di ruggine”.
In sostanza ed in primo luogo, dunque, i famosi vantaggi derivanti dal commercio, per tutti e per ogni paese, che si tratterebbe solo di condividere in modo più equo, semplicemente non esistono. Infatti la specializzazione, che si vuole in tal modo promuovere non migliora un paese, ma lo peggiora. Lascia macchine scartate e saperi resi inutili, e lascia con “meno modi di inventare nuove industrie” che è la vera fonte della crescita.
L’università di Harvard ha prodotto una ricerca nella quale ha mostrato che è piuttosto la diversità, che non la specializzazione ad essere “l’ingrediente magico” che genera la crescita. Tutti i paesi di successo hanno una serie molto diversificata di industrie e per questo hanno la capacità di inventare nuove industrie, fondendo quelle esistenti.
La specializzazione favorisce i servizi di élite (finanziari, assicurativi, di intermediazione internazionale), che la servono, ma danneggia tutti gli altri, ed in particolare la classe operaia.
Questa è la semplice verità.
La festa è finita, bisognerebbe tornare a casa.
Fonte:https://tempofertile.blogspot.it/2017/08/steve-keen-circa-la-globalizzazione-ed.html
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