Giuliano Amato: 25 anni dopo la notte della lira (e quel sei per mille…)
di CORRIERE.IT (Federico Fubini)
Fu il protagonista della drammatica svalutazione che si rese necessaria per salvare il Paese nel 1992: l’ex premier racconta il prelievo straordinario sui conti correnti, le mosse di Goria e il no di Ciampi. Oggi gli italiani hanno imparato la lezione o tendono a credere che lo stellone li proteggerà ancora?
Presidente, l’episodio del ‘92 fu intenso e concentrato nel tempo, mentre l’ultima crisi è stata più lunga. Perché?
«La crisi del ‘92 fu drammatica in termini finanziari. La differenza con la fase apertasi nel 2008 è che, quando si arrivò all’apice nel 2011, la Grande recessione aveva lasciato le sue tracce ovunque nel mondo. Per questo il ciclo recessivo è stato molto più lungo. Era diversa invece la situazione nei primi anni ‘90, quando la nostra economia si trovava frenata proprio da tassi d’interesse alti e da un cambio forte in un contesto globale positivo. Quei fattori rendevano difficile alle imprese il finanziamento e le rendevano meno competitive sul mercato internazionale».
Quando lei arrivò a Palazzo Chigi, giugno del ‘92, pensava già che si sarebbe arrivati a una forte svalutazione?
«Le imprese la desideravano, se ne parlava sui giornali e sembrava una soluzione classica: quando la moneta è sopravvalutata del 25%, si apre la valvola della pressione e poi si vive meglio. Ma noi avevamo un debito pubblico enorme già allora e rinunciare alla forza della lira poteva mandare allo sbando la finanza pubblica. Quando nacque il mio governo, ci chiedemmo se non era il caso di svalutare subito. Carlo Azeglio Ciampi era governatore della Banca d’Italia, Piero Barucci ministro del Tesoro, Mario Draghi direttore del Tesoro».
Cosa decideste?
«C’erano opinioni diverse. Ricordo ancora gli spaghetti al pomodoro di una colazione in Banca d’Italia con Ciampi e Barucci. Ciampi ci fece presente che prima era meglio aspettare l’accordo che avrebbe agganciato il costo del lavoro all’inflazione programmata — sarebbe arrivato a fine luglio — per scongiurare una spirale fra prezzi e salari. Poi si sarebbe potuto puntare a un riallineamento generale dello Sme. In sofferenza erano anche il franco, la sterlina, lo scudo e la peseta. Sarebbe stata più utile una rivalutazione del marco tedesco che un atto unilaterale sulla lira».
Perché questa strategia non funzionò?
«Avviammo i contatti con i partner, ma il doppio declassamento sui Btp da parte di Moody’s il 13 agosto rese tutto più difficile».
Contava più il peso del debito sulla lira o la politica restrittiva della Bundesbank che rafforzava il marco?
«La Bundesbank aveva un’economia surriscaldata e doveva gestire la riunificazione, con i marchi dell’Est cambiati uno a uno con quelli dell’Ovest sui salari. Quando chiedemmo loro di tagliare i tassi, risposero di no. Casomai, se volevamo, potevano rivalutare».
Lei che fece?
«Lo proposi ai francesi. La pressione sulla lira era drammatica, faticavamo a restare nella banda di oscillazione dello Sme e contavamo su un riallineamento di tutte le valute sul marco. Sarebbe stata la moneta tedesca a rivalutarsi e non noi, da soli, a svalutare. Una domenica pomeriggio di fine agosto andai a Parigi e lo proposi a Pierre Bérégovoy».
Era premier, socialista come lei. Cosa le disse?
«Disse: ‘Giuliano, non lo faccio’. Mi fece vedere i dati. Il 20 settembre in Francia si sarebbe tenuto il referendum per la ratifica del Trattato di Maastricht e il Sì era sotto. Se avessero perso la parità con il marco, l’orgoglio francese avrebbe reso il No invincibile e il progetto dell’unione monetaria sarebbe saltato».
Lei come rispose a Bérégovoy?
«Molto desolatamente gli dissi che avrei fatto il possibile, ma dubitavo che avremmo resistito fino al 20 settembre. La pressione sul mercato dei cambi era troppo forte. Capii che non ci sarebbe stato il riallineamento all’Ecofin di Bath del 5 settembre. Gli inglesi si presentarono avendo preso un maxi-prestito a tasso variabile. Non vedevano il rischio, erano convinti di cavarsela così!»
A quel punto lei dovette premunirsi. Come si mosse?
«Mercoledì 9 settembre riunii il Consiglio dei ministri. Non avevamo ancora pronti i decreti delegati sulle pensioni e gli enti locali, ma privatizzammo il Credito italiano e il Nuovo Pignone».
Misure storiche…
«Ma simboliche per l’impatto sul debito. Però congelammo tutta la spesa pubblica ai valori nominali del ‘92, niente più aggiustamenti all’inflazione o al Pil. Pensavo potesse servire, dico la verità. Non per sempre, ma almeno per arrivare al referendum francese del 20 settembre».
Invece?
«Invece successe esattamente due giorni dopo. Secondo me loro ce l’avevano già in mente e ignorarono le mie misure del 9 settembre».
Loro chi?
«La Bundesbank!»
Che fece?
«Era il primo pomeriggio di venerdì 11 settembre, ero nel mio ufficio con Ciampi e Barucci. Si affaccia Francesco Alfonso, allora suo collaboratore, e ci disse che il presidente della Bundesbank Helmut Schlesinger aspettava in linea. Ciampi andò a parlargli al tavolo della mia segretaria e quando tornò era verde in volto. Schlesinger gli aveva detto che la Bundesbank da lunedì non sarebbe più intervenuta per difendere la lira».
Anche la sterlina faticava a tenere l’accordo di cambio. Lei provò a consultarsi con Londra?
«Chiamai John Major (il premier, ndr) la domenica mattina del 13 per consigliargli un riallineamento. Downing Street ci mise una vita a trovarmelo, era in non so quale castello di campagna. Gli feci la mia proposta».
E lui?
«Mi disse che a loro non serviva: ‘We don’t need it, Giuliano. Good luck!’. Pochi giorni dopo il loro ministro del Tesoro, Norman Lamont, chiamò Barucci. Era nel panico. Sarebbero stati brutalmente espulsi anche loro, il Black Wednesday del 16 settembre».
S’iniziò allargando la fascia di fluttuazione del 7% e presto la svalutazione fu del 25%. Lei la chiamò una «sospensione» degli accordi.
«Tale per noi era. Ingiusto fu quanto accadde al franco. Il Sì passò al referendum francese per un soffio e il giorno dopo durante un vertice del Fondo monetario a Washington Jean-Claude Trichet (all’epoca direttore del Tesoro di Parigi, ndr) chiese una riunione all’ambasciata d’Italia. Presiedeva Ciampi. I francesi erano allo stremo. Ma Kohl e Mitterrand si erano già messi d’accordo: la Francia non doveva essere messa in difficoltà e decisero un allargamento delle oscillazioni dello Sme del 15% verso l’alto o il basso. L’avessimo avuta noi, ci avrebbe salvato».
I timori per la tenuta del debito in caso di crollo della lira si confermarono fondati?
«Furono settimane durissime. Le imprese erano contente per la moneta più debole. Ma noi avevamo bloccato anche i pagamenti essenziali dello Stato per contenere le emissioni di titoli del Tesoro. A settembre la Banca d’Italia era dovuta intervenire. C’erano code agli sportelli, fra cui la più lunga all’agenzia del Senato! La Guardia di Finanza mi faceva rapporto ogni giorno sugli spalloni che portavano soldi in Svizzera. Poi a ottobre avevamo una maxi-emissione da 47 mila miliardi, tremavamo all’idea»
Come andò?
«Benissimo. Fu la fine dell’incubo. L’economia stava già uscendo dalla recessione».
Dunque la svalutazione aiutò?
«Nell’immediato, sì. Ma non consiglio di tornare alle monete nazionali con lo spazio che aprono alla speculazione!».
Passo indietro: lei a inizio luglio aveva varato il prelievo del 6 per mille dai conti. Come andò?
«Fu un male necessario. Serviva una prima manovra correttiva da 30 mila miliardi di lire e avevo passato la notte a discutere con i tecnici del Tesoro e delle Finanze come trovare gli ultimi otto. Mi offrivano di alzare l’Iva, ma avrebbe fatto salire ancora l’inflazione; o di agire sull’Irpef, ma avrei alzato le tasse sui ceti più deboli. Fu allora, alle 4 del mattino, che Giovanni Goria (ministro delle Finanze, ndr) mi prese da parte e mi chiese se poteva studiare il prelievo».
Lei che rispose?
«E studialo! Ma, aggiunsi, prima senti cosa ne pensa Ciampi».
Ciampi fu d’accordo?
«Il mattino dopo c’era Consiglio dei ministri. Goria arrivò verso mezzogiorno e sedette all’altra estremità del tavolo. Allora feci un errore di avventatezza, perché gli sillabai sottovoce: ‘Hai par-la-to con Ciam-pi?’. Speravo leggesse le mie labbra. Lui fece cenno di sì, chissà che aveva capito. Gli detti la parola e la misura passò. Ciampi probabilmente avrebbe sconsigliato, ma non sapeva niente!».
La crisi del ‘92 fu lo sbocco di vent’anni di eccessi. Gli italiani lo hanno capito o si sono convinti che lo stellone li proteggerà per sempre?
«Vorrei fosse vera la prima ipotesi, tendo a credere di più alla seconda».
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