L’America e la guerra delle statue
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Emanuel Pietrobon)
La demolizione dei Buddha di Bomiyan a opera dei talebani nel 2001 gettò il mondo nello sconforto: dei fondamentalisti iconoclasti stavano distruggendo dei patrimoni mondiali dell’umanità per riscrivere la storia. A 16 anni di distanza agisce allo stesso modo, chi all’epoca gridò allo scandalo
La presidenza di Donald J. Trump è ancora agli albori, ma le crisi diplomatiche affrontate e lo scoppio dei violenti tumulti tra i collettivi della destra religiosa, dell’alternative right e del suprematismo bianco, contro la galassia di sigle dell’universo liberal, che stanno gettando il paese sull’orlo della guerra civile, le hanno già assicurato un posto nella storia. “Quid est veritas?“ Chiese Ponzio Pilato a Gesù, non sapendo che cosa fosse la verità, dove si trovasse, da chi dovesse ascoltarla e cosa avrebbe dovuto fare per comprenderla; la stessa domanda dovrebbero porsela i consumatori dell’informazione nel 2017, dinanzi la mole di bufale diffuse giornalmente non solo dalle piccole emittenti e pubblicazioni che vivono di cattiva pubblicità, ma anche dalle grandi corporazioni editoriali e mediatiche, la cui capacità di proiezione immediata e globale della notizia complica fortemente ogni tentativo di coscientizzare il pubblico – tendenzialmente psicolabile, apatico e ingenuo, per mezzo di sana controinformazione.
Qual’è la verità? È davvero in corso il white genocide, sia demografico che culturale, denunciato dall’alt-right coccolata da Steve Bannon, ex capo stratega dell’amministrazione Trump; o è invece in corso il white-washing, denunciato dai liberal, che vorrebbe recuperare e legittimare il passato schiavista e segregazionista della storia americana? L’11 e il 12 agosto, Charlottesville, una piccola città della Virginia, eletta la città più felice degli Stati Uniti nel 2014, è stata al centro di duri scontri tra esponenti dell’estrema destra e collettivi antifascisti e antirazzisti, in occasione di una grande marcia, ribattezzata Unite the Right, indetta dai primi per protestare contro la rimozione della statua di Robert Edward Lee, celebre generale confederato, dall’Emancipation Park. Il bollettino finale include, oltre a numerosi arresti e feriti, un investimento automobilistico volontario condotto da James Fields, un giovane nazionalista bianco, contro il corteo antifascista, che ha causato 1 morto e 19 feriti.
Non è la prima statua di un personaggio-simbolo della guerra di secessione e dello schiavismo ad essere abbattuta, oscurata o traslata altrove, eppure ha scatenato controversie anche a livello politico. Il presidente Trump è stato criticato per aver condannato le violenze perpetrate da ambo i lati: secondo democratici e media avrebbe dovuto limitarsi a biasimare il comportamento dei nazionalisti bianchi, tralasciando gli abusi commessi dagli antifascisti. Impossibile parteggiare per la nuova destra statunitense, mescolante neonazismo, nazionalismo bianco, islamofobia, antigiudaismo, neopaganesimo antiabramitico ed elementi neoconfederati, ma è altrettanto vero che solo un cieco, o un complice, negherebbe la deriva antioccidentale in corso non solo negli Stati Uniti, ma nell’intero Occidente.
In principio fu il movimento di protesta studentesco Rhodes Must Fall, che chiese (senza successo) la rimozione della statua di Cecil Rhodes dall’università di Oxford, dato il suo legame con il passato colonialista britannico, riuscendoci invece all’università di Città del Capo, in Sud Africa. Dopo Rhodes e Lee, i prossimi obiettivi sono diventati Italo Balbo, a cui è dedicata una colonna a Chicago, e Cristoforo Colombo, simbolo della scoperta delle Americhe, generalmente riconosciuto come uno dei capitoli fondamentali dell’umanità, ma per l’universo liberal, esclusivamente legato alla tratta degli schiavi, al colonialismo europeo e al genocidio dei nativi americani. Altre volte, simboli e statue vengono oscurati senza che alcuna protesta abbia luogo: in California, la San Domenico School, un istituto d’istruzione gestito da suore domenicane, ha rimosso ogni riferimento cristiano per non offendere gli studenti di diversa fede.
Dopo gli attacchi a Rhodes, in Inghilterra, la giornalista Afua Hirsch ha proposto di rimuovere monumenti e busti ritraenti l’ammiraglio Horatio Nelson – artefice della salvezza inglese dall’invasione napoleonica – perché, nel 2017, non sarebbe più possibile vederlo solo come un eroe nazionale, dato che guardava con favore allo schiavismo, ma anche come figura d’odio. La furia iconoclasta che sta prendendo piede in questi anni non è solo ipocrita – non si possono giudicare con parametri etico-morali contemporanei le azioni, le idee e i pensieri di uomini vissuti secoli fa, ma anche pericolosa, dal momento che l’obiettivo dei talebani del liberalismo non è il superamento del passato, quanto la sua rimozione totale. Non è in corso una guerra tra nostalgici del segregazionismo e del nazismo e tra paladini dei diritti civili e della libertà, ma una feroce contrapposizione tra chi vorrebbe difendere il patrimonio storico e culturale della propria terra, che nel bene e nel male compone le identità dei luoghi e dei popoli, e chi vorrebbe creare ex novo un’identità più comoda e gradevole agli occhi della propria coscienza, un mondo sempre meno occidentale e, quindi, potenzialmente più ostile.
È giusto rimuovere ogni simbolo del passato, per quanto esso abbia causato dolore ad alcune categorie sociali, religiose o etniche? Come sostenuto dal presidente Trump, in occasione degli scontri di Charlottesville, secondo il ragionamento seguito dagli antifascisti la sorte dell’abbattimento dovrebbe toccare anche ai padri fondatori del paese, come George Washington e Thomas Jefferson, avendo avuto anch’essi in proprietà degli schiavi. Il dibattito è più vivo che mai negli Stati Uniti, ma sta dilagando in tutto l’Occidente. In Argentina, la fondazione Bases, di ispirazione liberale, ha avviato recentemente una petizione in rete chiedendo la rimozione di statue ed effigi dedicate ad Ernesto Guevara dal paese, proponendo di iniziare proprio dal monumento collocato a Rosario, città natale del rivoluzionario, in quanto sostenitore di un’ideologia che ha provocato milioni di morti, oltre che protagonista del regime castrista. A Johannesburg, in Sud Africa, si parla di rimuovere la scultura di bronzo dedicata a Mahatma Gandhi, sita in una piazza che porta il suo nome, sull’onda di quanto già fatto nel 2015 ad Accra, in Ghana, per via dei pregiudizi negativi del rivoluzionario indiano sugli africani.
Come si potrebbe imparare dalle lezioni di storia fornite dal passato, se lo si cancella? Inoltre, è indubbiamente vero che la psicosi iconoclasta che sta toccando il mondo anglosassone è fortemente razzista, e non contro le minoranze, ma contro una maggioranza bianca silenziosa, pigra, debosciata e indottrinata all’odio di se stessa. Nei giorni dell’attacco alle statue, il noto documentarista ed antirepubblicano Michael Moore, prendendo posizione sulle violenze di Charlottesville, ha dichiarato che gli Stati Uniti saranno un paese migliore soltanto quando i bianchi saranno una minoranza e che, pertanto, si auspica che ciò accada il prima possibile. Parole che sono state applaudite da ogni parte, ma che cosa sarebbe successo a parti invertite? L’alt-right è davvero così pericolosa e antidemocratica? La Unite the Right, definita come una delle più importanti manifestazioni delle sigle di estrema destra statunitensi avvenute nei tempi recenti, non ha riunito neanche 5mila persone. Inoltre, uno dei principali volti della nuova destra è Milo Yiannopoulos, un giornalista e personaggio pubblico di tendenze omosessuali e di ascendenza ebraica, non proprio l’identikit del razzista medio. I principali gruppi che hanno aderito al corteo di Charlottesville sono elencati dal Southen Poverty Law Center come organizzazioni d’odio e, spesso, ricevono questa denominazione all’atto della fondazione, come accaduto al White Lives Matter, sorto in contrapposizione al Black Lives Matter che dal 2012 proclama la nonviolenza, ma è periodicamente protagonista di scontri e di violenze contro le forze dell’ordine.
Chi vuole scoprire dov’è la verità, dovrebbe anche chiedersi: perché si stigmatizza soltanto chi grida che anche le vite bianche contano? L’attenzione dei media domestici e internazionali è palesemente concentrata sulle violenze commesse dalle forze di polizia statunitensi contro gli afroamericani, ma non trovano altrettanto risalto quelle perpetrate contro i bianchi o altri gruppi etnici. In una società realmente pronta alsuperamento dei pregiudizi di razza, l’unico movimento che dovrebbe esistere, dovrebbe chiamarsi All Lives Matter, e ottenere il favore di ciascuna corrente politica. Il doppiopesismo e la retorica terzomondista spinta all’estremo dei liberal-progressisti statunitensi sono le reali cause del rigurgito d’odio e di divisione razziale che sta dilagando nel paese, con la loro ambizione di ripulire la società di ogni traccia lasciata dai padri fondatori della patria. Si potrebbe anche appoggiare l’anelo di ricercare una nuova identità americana, visti i profondi mutamenti culturali, religiosi, sociali e demografici occorsi, ma perché sacrificare forzatamente l’impronta bianca, essendo stati degli europei a fondare la terra della libertà, plasmandola coi loro ideali per oltre due secoli? La guerra delle statue è una delle espressioni più emblematiche di questa ricerca di una nuova identità americana, ricerca che si sta rivelando come fondata su ignoranza e falsità: ignoranza perché vuole eliminare il passato, anziché superarlo; falsità perché accusa aprioristicamente di fascismo chiunque le muova critica, dimenticando che sta agendo esattamente come i talebani iconoclasti contro i Buddha di Bamiyan nel 2001.
Nel giro di neanche un mese, le rivendicazioni degli antifascisti statunitensi si sono spostate dai monumenti confederati a Balbo e Colombo; quale sarà il prossimo obiettivo, il monte Rushmore? Quel che sta accadendo in Occidente ha dell’orwelliano: qualcuno vorrebbe riscrivere la storia, e gli unici che si oppongono a questa follia sono dei nostalgici di George Lincoln Rockwell, con il risultato di portare ancora più acqua al mulino degli iconoclasti. La guerra delle statue è un argomento a cui deve prestare attenzione anche il resto del mondo, trattandosi d’una psicosi dall’alto tasso di contagio, soprattutto perché esplosa negli Stati Uniti, l’unica potenza capace – chissà ancora per quanto – di egemonizzare culturalmente ampi strati del pianeta, grazie al cinema, alla letteratura e al fascino delle idee partorite dai suoi intelletuali. Come previsto da Zbigniew Brzezinski, teorico della geopolitica della fede, gli Stati Uniti stanno affrontando una grave crisi sociale e culturale dai possibili effetti implosivi e solo se riusciranno a uscirne potranno continuare a essere la prima potenza mondiale; l’alternativa è il collasso, perché un paese che cancella la sua storia per assecondare sfizi e mode del presente, non ha futuro.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/societa/america-guerra-delle-statue/
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