I problemi della ricerca scientifica nei settori bibliometrici (documento approvato dall’Assemblea nazionale del FSI – 24 settembre 2017)
I PROBLEMI DELLA RICERCA SCIENTIFICA NEI SETTORI BIBLIOMETRICI
Premessa
Questo documento parte dal presupposto che la ricerca scientifica sia stata sottoposta a un radicale cambiamento di scopo, iniziato negli anni ‘70 fino ai giorni nostri. Questo cambiamento è stato attuato per seguire ben precise logiche di mercato di stampo liberista a danno del popolo italiano. In linea con gli altri documenti programmatici del Fronte Sovranista Italiano, presentiamo una parte di analisi e una parte di proposte. Le proposte sono di indirizzo, ossia riguarderanno i principi ispiratori del sovranismo nella ricerca scientifica, senza entrare nel dettaglio di norme e regolamenti, in modo che il nostro progetto di riforma della ricerca sia chiaro a quante più persone possibili si avvicinino a esso. Il documento è suddiviso in:
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Storia della ricerca scientifica in Italia
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La ricerca nella Costituzione del 1948
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I numeri della ricerca in Italia e progettualità future
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La ricerca scientifica e l’Unione Europea
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Strutture nella ricerca in Italia: tra pubblico e privato
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Il ruolo del ricercatore
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Le proposte del FSI
1. Storia della ricerca scientifica in Italia
Introduzione
Nel corso del XX secolo la ricerca scientifica ha raggiunto tassi di crescita ineguagliati nella storia, registrando un aumento esponenziale, a livello globale, della produzione scientifica e tecnologica, anche per via di una forte interconnessione con i comparti bellici e industriali degli Stati, che ha portato alla costituzione di enti e istituzioni di ricerca pubblici [1].
Un tale progresso unito al grado di complessità raggiunto dalle scienze moderne ha portato a un’estrema specializzazione delle competenze dei ricercatori, tale per cui la stessa organizzazione del lavoro dei singoli ricercatori all’interno di gruppi di ricerca assorbe significative quote delle risorse disponibili [1].
Nell’ultimo secolo il fulcro del settore della ricerca ha visto il suo asse spostarsi dal continente europeo agli Stati Uniti, dove la quota di PIL investita si aggira su valori poco inferiori al 3% e dove una forte interdipendenza con il comparto industriale fornisce alla ricerca una legittimazione anche in termini di sviluppo economico, mentre nei paesi europei la spesa per la ricerca scientifica assorbe mediamente un 2% del PIL [1]. Analizziamo ora la situazione della ricerca in Italia, dall’Unità fino ai nostri giorni.
1.1 La ricerca dall’Unità alla I Guerra Mondiale
La frammentazione pre-unitaria ha reso necessario un processo di costruzione di una tradizione scientifica nazionale a partire da un’eredità caratterizzata, nonostante la preminenza agricola nell’economia del Paese, da una presenza capillare di istituzioni culturali di tipo universitario. Tra i modelli di sviluppo della ricerca tra i quali si sviluppò il dibattito, prevalse quello propugnato dal Ministro della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia Carlo Matteucci, in altre parole quello di un forte accentramento del settore. L’attività scientifica fu incentivata dall’istituzione di riviste, convegni e associazioni di stampo scientifico che tutt’oggi rappresentano i principali vettori di discussione e di dialogo nel campo della scienza italiana [2].
Un’importante componente della ricerca scientifica extra-universitaria era invece costituita dai servizi tecnici dell’amministrazione pubblica, in cui l’attività di ricerca aveva sia fini istituzionali e di controllo, che di formazione e aggiornamento del proprio personale tecnico e scientifico; è in questa fattispecie che si collocano i servizi sanitari, i servizi infrastrutturali e di costruzione delle opere pubbliche, le Ferrovie dello Stato, l’Azienda forestale, l’Istituto Nazionale Assicurazioni (INA), il Laboratorio chimico centrale delle dogane e delle imposte indirette, l’Istituto delle poste e dei telegrafi [3]. Le criticità del sistema della ricerca italiano furono infine messe a nudo nel contesto della Prima Guerra Mondiale. L’arretratezza della struttura produttiva e la dipendenza tecnologica dall’estero e in particolare dalla Germania evidenziarono la necessità di scambio tra il mondo universitario e quello industriale. L’istituzione nel 1917, per opera del Ministero della Guerra, dell’Ufficio Invenzioni e Ricerche aveva appunto lo scopo di promuovere scienza e ricerca per la soluzione di problemi pratici. Esso divenne poi il nucleo costitutivo del futuro Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), e la sua guida fu affidata al matematico Vito Volterra, che riuscì a evitarne la soppressione nell’immediato dopoguerra [2].
1.2 Primo dopoguerra, ventennio fascista e II guerra mondiale
La riforma scolastica del Ministro dell’Istruzione Giovanni Gentile del 1923 introdusse il nuovo regolamento generale universitario e portò al riordino di vari istituti e all’istituzione di nuove sedi universitarie [3]. L’università era riconosciuta come ente produttore di ricerca [4]. Il prestigio delle università a carattere scientifico ne fu piuttosto ridimensionato rispetto a quello delle facoltà di tipo umanistico, che presso il Regime avevano maggiore considerazione; da oltre il 60% di studenti iscritti ai corsi di laurea a indirizzo scientifico del 1921-22, si passò a un 66% di iscritti a corsi a carattere umanistico nel 1939-40. Contestualmente si manifestò un calo di oltre il 30% negli iscritti ai corsi di ingegneria [3]. Le università furono inoltre suddivise in università di tipo A (università regie) e di tipo B (università libere) [5]. Nel 1928 tutte le università passarono sotto il controllo del neonato Ministero dell’Educazione Nazionale [3].
Già dal primo dopoguerra comincia a formarsi una vera e propria organizzazione internazionale in campo scientifico [3]. L’Italia ebbe un ruolo di primo piano nella costituzione del Consiglio Internazionale delle Ricerche (CIR) a Bruxelles nel 1918-19, principalmente per mezzo del matematico Volterra [3,6], cui aderiscono i Consigli delle Ricerche dei paesi alleati. In Italia al CNR è riconosciuta personalità giuridica nel 1923 e Volterra ne diviene presidente [2,3]. Lo scopo del CNR era quello di istituire una politica della scienza nazionale e di indirizzare risorse verso organismi di ricerca dediti a studi di interesse socio-economico nazionale e qualitativamente superiori rispetto alle istituzioni universitarie. Il CNR era strettamente collegato al Ministero della Pubblica Istruzione, che vi versava una somma di 275.000 lire (264.000 euro attuali [2,7]). Volterra subì numerose pressioni a rassegnare le dimissioni per le sue posizioni antifasciste e i finanziamenti al CNR vennero a più riprese bloccati; fino alla scadenza del mandato Volterra nel 1927, il CNR non riuscì che a partecipare a qualche convegno internazionale e a censire le strutture di ricerca italiane [2]. Il CNR andò incontro a un sostanziale riordino dal 1927 al 1929 durante il quale assunse il coordinamento delle attività nazionali nei campi scientifici anche con riferimento alle applicazioni di interesse economico nazionale; il finanziamento aumentò fino alla quota di 675.000 lire annue (600.000 euro attuali). Al mandato di Volterra segue quello di Guglielmo Marconi, e progressivamente la dirigenza dei comitati scientifici passa ai docenti universitari vista l’assenza di scienziati al di fuori dell’ambiente accademico. Nel 1937 la richiesta di autonomia giuridica da parte del CNR fu accolta da Mussolini. Alla morte di Marconi nel 1937 la presidenza del CNR fu assegnata al maresciallo Pietro Badoglio; tra le ragioni di questa scelta da parte di Mussolini trovano fondamento quelle che vedono l’obiettivo di un maggiore contributo scientifico da parte della scienza alla preparazione del conflitto bellico. Tuttavia la scarsa considerazione da parte di Badoglio per l’istituzione che si trovava a presiedere non consentì l’interazione con le strutture militari. In ogni caso, dall’istituzione del regime autarchico nel 1936, i finanziamenti al CNR aumentarono esponenzialmente, per poi ridursi notevolmente (al netto dell’inflazione) negli anni della guerra. Già alla fine del 1941 il CNR era comunque riuscito a instaurare e coordinare una rete di centri di ricerca con una dimensione nazionale e dunque a conseguire gli scopi prefissi dalla sua costituzione [2]. Dalla creazione del CNR, in generale, ci fu un’accelerazione della costituzione di enti parastatali; in particolare furono istituiti l’Istituto nazionale per la statistica (1926) e l’Istituto di Sanità Pubblica (1934-35), che sarebbe poi stato convertito nell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) [3].
L’istituzione dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) nel 1933 ha conseguenze fondamentali per lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica, la politica della ricerca e l’interrelazione tra ricerca e industria nello Stato italiano. Esso diviene ente finanziario di diritto pubblico con regio decreto nel 1937 [8,9] e vede tra i suoi principali sostenitori Alberto Beneduce [10], già artefice nel 1936 della legge bancaria [11]. L’IRI affonda le sue radici nell’Istituto Nazionale Assicurazioni (INA, 1912), un altro ente ad alto contenuto di ricerca scientifica legato alla figura di Beneduce [3]. Conseguentemente passano sotto il controllo dell’IRI, tra gli anni 30 e gli anni 50, buona parte delle attività industriali a più alto contenuto tecnologico, tra cui importanti imprese private nel settore elettrico (SIP, SME, Unes) [3,12]. L’influenza dell’IRI sulla ricerca scientifica e tecnologica italiana si manifesta già durante il periodo fascista e si mantiene fino al periodo delle privatizzazioni e infine della liquidazione per il contrasto con la disciplina della Comunità europea prima, e dell’Unione europea poi, degli aiuti di Stato ([13] agli articoli 107 e 108).
Anche la promulgazione delle leggi razziali nel 1938 ebbe importanti conseguenze sulla ricerca scientifica italiana. Il regio decreto n. 1390 del 1938 decretava l’espulsione di studenti e docenti dalla scuola italiana di tutti gli ordini e i gradi; più di 200 docenti, di cui 99 ordinari (più del 7% degli ordinari italiani) dovettero lasciare la cattedra; altri 28 scienziati furono espulsi. [18]
Emblematico è il caso dei “ragazzi di Via Panisperna”, laboratorio d’avanguardia italiano nello studio della Fisica Nucleare, di cui facevano parte i due futuri premi Nobel Fermi e Segrè, emigrati negli Stati Uniti, e dei quali rimase in Italia solo Amaldi, che avrà un ruolo di primo piano nella ricostruzione dell’impianto scientifico italiano nel secondo dopoguerra [15,16]. Il regime aveva inoltre incarcerato o costretto a emigrare gli scienziati antifascisti [17].
1.3 L’Italia Repubblicana
Mentre la Prima Guerra Mondiale aveva avuto una qualche spinta propulsiva sul settore della ricerca, all’alba del secondo dopoguerra il sistema scientifico-tecnologico era ridotto a un cumulo di macerie. I ricercatori più giovani erano stati distolti dalla ricerca e la svalutazione della lira aveva fatto in modo che i finanziamenti fossero drasticamente ridotti [2]; a seguito delle politiche del regime fascista il numero di laureati in scienze pure passò da 15,6 ogni 100.000 abitanti nel 1921-25 a 11,6 allo scoppio del conflitto. A questo si sommano le requisizioni degli strumenti di laboratorio di maggior valore da parte delle autorità tedesche naziste durante la guerra e i danneggiamenti delle strutture scientifiche per i bombardamenti degli alleati, la cui ricostruzione inizia nel 1944 a Roma [15,17]. I finanziamenti al CNR furono di 200 milioni di lire nel 1946 (6.445.000 euro attuali, imposti al governo italiano dall’Amministrazione delle Nazioni Unite per l’assistenza e la riabilitazione), peraltro erogati in ritardo, e di 300 milioni nel 1948 (a fronte dei 500 richiesti dal presidente del CNR) [17].
Nel secondo dopoguerra ha comunque inizio una fase di consolidamento della ricerca scientifica e tecnologica, che durerà fino alla metà degli anni Sessanta. Il riordino del CNR e il progressivo incremento dei fondi (da 540 milioni nel 1950-51, equivalenti a 10 milioni di euro attuali, a 4 miliardi nel 1960-61, equivalenti a 53 milioni di euro attuali [17]) consentivano all’attività dell’ente di poggiare su basi solide, nonostante restasse in qualche modo subordinato al mondo accademico [3]. A raccogliere le macerie in uno dei settori più all’avanguardia, quello della fisica nucleare, fu Edoardo Amaldi, l’unico rimasto del laboratorio di Via Panisperna. Su iniziativa di Edoardo Amaldi e Carlo Bernardini è istituito nel 1945 a Roma il Centro di studi di fisica nucleare e delle particelle elementari, sotto il controllo del CNR. Nel 1947 e nel 1948 sono fondati rispettivamente il Centro ioni veloci a Padova e il centro Testa grigia sul monte Cervino, cui seguono nei primi anni Cinquanta il Centro sperimentale e teorico di fisica di Torino e il Centro per gli studi sui raggi cosmici a Milano. Il primo convegno internazionale di fisica cosmica si tenne in Italia nel 1949. Quasi parallelamente, un altro gruppo di fisici diede origine al Centro informazioni studi ed esperienze (CISE) nel 1946 a Milano, specializzato in applicazioni industriali nel campo nucleare, che vide la partecipazione di aziende private e pubbliche, in particolare Edison, FIAT, Falck, Cogne, Sade, Terni. Nel 1951, Amaldi e Colonnetti fondarono con decreto n. 599 del presidente del CNR l’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN) con finalità di coordinamento tra i vari centri di studio dislocati tra Torino, Milano, Padova e Roma. Seguì l’anno successivo l’istituzione del Comitato nazionale per le ricerche nucleari (CNRN), dove fu nominato segretario generale l’ingegner Felice Ippolito [3,15,17]. Con questi sviluppi, il settore nucleare diventò predominante nella politica della ricerca italiana [17].
I primi anni Sessanta videro l’apice del successo italiano nel mondo della ricerca internazionale cui seguì immediatamente il crollo; due enti di ricerca, un’azienda pubblica e un’azienda privata raggiunsero risultati importantissimi a livello mondiale, ma una serie di eventi caratterizzati principalmente da sabotaggi pose fine alla possibilità della ricerca scientifica italiana di competere con gli altri Paesi industrializzati (nonostante l’abnorme disparità nelle risorse disponibili).
1.3.1 Il Comitato nazionale per l’energia nucleare
L’assenza di una personalità giuridica e di un patrimonio, e quindi di autonomia d’azione, portarono il CNRN alla richiesta di un rinnovo dello statuto, il quale arrivò con la legge n. 933 dell’11 agosto 1960 con la trasformazione del CNRN in Comitato nazionale per l’energia nucleare (CNEN), al segretariato del quale fu riconfermato Felice Ippolito; scopo del CNEN era quello di promuovere ed effettuare ricerche nel campo della fisica e della tecnica nucleare [15,18]. Il rinnovo dello statuto avvenne non senza una dura lotta politica, alla quale presero parte molti scienziati, e in particolare Ippolito, per la nazionalizzazione dell’industria elettrica, considerata presupposto fondamentale per la promozione della ricerca sul nucleare. La nazionalizzazione dell’energia elettrica avrebbe, infatti, indotto lo Stato a porre interesse e fondi in direzione della ricerca nucleare. A riprova di questo fatto si rileva che lo stesso Ippolito, all’atto di costituzione dell’ENEL, ne sia divenuto consigliere. La costruzione di tre centrali pose l’Italia in terza posizione mondiale per produzione di energia nucleare nel 1965. Fu la nazionalizzazione dell’energia elettrica a mettere in opposizione al CNEN gli interessi delle aziende private e quelli delle multinazionali nel settore del petrolio che paventavano la perdita di un’importante fetta di mercato in Italia per lo sviluppo del nucleare [15,19]. La campagna contro Felice Ippolito partì dal Partito Socialdemocratico, mediante una serie di note da parte del filo atlantista Giuseppe Saragat [15,20]. Ippolito fu arrestato e processato per una serie di illeciti burocratici, poi ridimensionati in appello e infine condonati dallo stesso Saragat una volta divenuto Presidente della Repubblica [15], fortemente condizionati dalle “particolari condizioni di disordine amministrativo e organizzativo dell’ente in vertiginosa crescita”[21]. Il CNEN fu poi riconvertito in Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA); la fine del nucleare in Italia sarà infine decretata per via referendaria nel 1987.
1.3.2 L’Istituto superiore di sanità
Più o meno parallela a quella del CNEN è la vicenda dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) legata analogamente a un insussistente scandalo costruito intorno alla figura di Domenico Marotta, presidente dal 1935. L’ISS era un’eccellenza italiana nella ricerca: nel 1946 realizzò il primo e unico microscopio ottico italiano; nel 1947 fondò l’Ente regionale per la lotta anti-anofelica in Sardegna, il quale consentì, nell’arco di cinque anni, di debellare definitivamente la malaria in Italia (da ottantamila casi nel 1944) [15]; attraeva grandi quantità di finanziamenti che diedero importanti contributi alla crescita di quelle che oggi sono chiamate biotecnologie [17]; nel 1948 Marotta fondò il Centro internazionale di chimica e biologia il cui impianto di produzione di penicillina portò l’Italia tra i maggiori produttori mondiali, e il cui personale vantava la presenza di due premi Nobel [15]; il centro formava ogni anno figure di spicco dell’ambiente scientifico internazionale [3,15,17].
Nel 1963, i deputati Messinetti e Guidi del Partito Comunista presentarono un’interrogazione circa alcuni illeciti amministrativi, che si risolverà nell’arresto di Marotta, che fu assolto successivamente in appello [15]. I casi Ippolito e Marotta diedero l’avvio alla paralisi delle istituzioni scientifiche italiane coinvolte: il CNR irrigidì i controlli burocratici [17]; il direttore del Laboratorio internazionale di genetica e biofisica di Napoli (LIGB) si dimise [17,22]; i finanziamenti per la partecipazione a organizzazioni scientifiche internazionali subirono una drastica riduzione [17].
1.3.3 L’Ente nazionale idrocarburi
Altrettanto significativa è la vicenda di Enrico Mattei, il quale riconvertì su incarico del Comitato per la Liberazione Nazionale dell’Alta Italia l’allora azienda AGIP, costituita dal regime fascista, nell’azienda pubblica Ente Nazionali Idrocarburi (ENI) nel 1963, e, dopo la successiva affermazione sul mercato mondiale in attrito con le multinazionali del petrolio, morì in un tragico incidente aereo. Nel 2003, dopo la riapertura del caso, la morte di Mattei fu dichiarata omicidio in seguito al ritrovamento di tracce di un ordigno [15,23]. L’ENI ebbe un ruolo importante nella ricerca di fonti di combustibile fossile; tra i centri di ricerca fondati dall’ENI, c’era la Scuola di studi superiori sugli idrocarburi di Metanopoli [15,24].
1.3.4 L’Olivetti
La quarta grande occasione mancata riguarda l’impresa privata Olivetti di Ivrea, fondata da Camillo Olivetti ed ereditata dal figlio Adriano, inizialmente deputata alla produzione di macchine da scrivere e strumenti da ufficio. L’Olivetti decise di dedicarsi al ramo dell’elettronica e dell’informatica, nelle quali investì grandi risorse alla ricerca e sviluppo: le sue collaborazioni con le università (in particolare quella di Pisa, che anche grazie all’Olivetti diventerà la culla dell’informatica italiana) diedero origine al Centro studi sulle calcolatrici elettroniche (Csce), al Centro nazionale universitario di calcolo elettronico (CNUCE) e al Laboratorio di ricerche elettroniche Olivetti, guidato dall’ingegnere italocinese Mario Tchou, e la Società generale semiconduttori (Sgs), prima azienda di produzione di circuiti integrati in Europa. I laboratori di Olivetti e Tchou produssero l’Elea 9003, primo calcolatore a transistor della storia, utilizzato poi da aziende italiane come ENI, Cogne, Monte dei Paschi, Ferrero, Lancia, Motta, INPS. Anche dopo la sua liquidazione, quello che rimase della sezione elettronica presentò la “Perottina” (P101), il primo personal computer [15] (del quale il mondo della ricerca accademica fu il primo a impadronirsi) [15,25], 8 anni prima che la famosa azienda americana Apple fosse fondata. L’Olivetti, anche per via della presenza dell’italocinese Tchou, ebbe numerosi contatti con l’ambasciata cinese durante la guerra fredda; questo fatto la poneva in una posizione scomoda nei confronti degli Stati Uniti che puntavano alla monopolizzazione della scienza dei calcolatori, tenuto anche conto che in Italia c’era il maggior partito comunista al di fuori del blocco sovietico; sul fronte interno, invece, l’ingresso nell’arena politica di Adriano Olivetti con il suo Movimento Comunità, che ebbe peraltro un ruolo nella formazione del primo governo di centrosinistra, lo poneva in una posizione altrettanto scomoda nei confronti dei rappresentanti dei gruppi privati, rappresentati da Confindustria. All’improvvisa morte di Olivetti nel 1960 seguita dall’altrettanto improvvisa morte del suo braccio destro Tchou in un incidente automobilistico nel 1961, l’Olivetti fu acquistata da un gruppo d’intervento misto, in cui erano presenti aziende IRI e aziende private tra cui FIAT e Montedison e infine ceduta al 75% alla multinazionale americana General Electric, alla quale andò anche il restante 25% nel 1968 [15], nonostante le richieste di nazionalizzazione dei sindacati [15,26] e del PSI [15,27]. Oltre alla politica di sviluppo nazionale, l’impegno e la competenza italiani nella costruzione di enti internazionali di ricerca non sono mai mancati, e le risorse versate sono sempre state significative, particolarmente in un contesto di progressiva riduzione dei fondi, particolarmente accentuata dopo i casi Ippolito e Marotta che portarono a una drastica riduzione dei finanziamenti. L’Italia è stata tra le nazioni trainanti dei processi diplomatici che portarono alla creazione del centro con il più grande acceleratore di particelle al mondo (CERN), della Comunità europea dell’energia atomica (EURATOM) e dell’Agenzia spaziale europea [15,17].
1.4 Il sistema universitario
Le università uscivano dalla seconda guerra mondiale con un ampio divario tra Nord e Sud ancora da colmare e, nonostante interventi mirati, solo il 18% delle risorse distribuite dal CNR finivano al Meridione: il personale di ricerca nel Sud risultava quindi essere l’8% del totale nazionale, di cui il 77% universitario e il 9,2% del CNR, nonostante una produttività della ricerca superiore alla media nazionale (il 14% delle pubblicazioni scientifiche italiane provenivano dal Sud) [28].
Anche nel campo della ricerca universitaria la mancanza dei fondi ha inciso profondamente, non consentendo in generale di avere a disposizione laboratori e strutture adeguate; in questo caso, tra i gruppi universitari che hanno avuto maggior successo nella seconda metà del Novecento, si collocano quelli che sono riusciti a lavorare in maniera integrata con i servizi tecnici dell’amministrazione pubblica, le cui risorse hanno consentito di mettere a disposizione strutture più adeguate [3]. La legge n.169 del 1989 ha introdotto l’autonomia finanziaria delle università che, equivocando il principio costituzionale di libertà “nella” scuola con quello artificioso di libertà “della” scuola, è andata imponendo elementi di competizione tra le università per l’accaparramento delle risorse e, per affrancarla dall’interesse pubblico, ha finito per assoggettarla a quello privato [3,29]. La Storia che segue si caratterizza unicamente per il costante aumento dei tagli ai finanziamenti pubblici all’università e alla ricerca, esacerbati in modo particolare negli anni duemila dalla crisi economica e dalle politiche di austerità imposte dall’Unione europea.
A seguito della dismissione del sistema della ricerca per applicazioni di tipo industriale legato agli enti e alle aziende come CNEN, ISS, LIGB, Olivetti, ENI, lo sviluppo economico italiano ha privilegiato unicamente il tessuto di piccole e medie imprese a basso contenuto tecnologico, tralasciando (e anzi affossando) completamente la difesa (e anzi affossando) dei grandi complessi industriali di interesse nazionale; questa scelta ha provocato una drastica riduzione della ricerca applicata negli ambienti extra-universitari, della quale hanno risentito anche le università e la ricerca di base. Al processo hanno contribuito le privatizzazioni avviate negli anni Novanta delle aziende pubbliche e di quanto rimaneva dello stesso IRI [33,15].
1.5 Conclusioni
La ricerca scientifica in Italia, dall’Unità agli anni della moderna crisi economica segue un percorso complesso, costituito ora da fasi di costruzione, ora da fasi di stallo, ora fasi di dismissione. L’unica costante che accompagna lo sviluppo del settore della ricerca scientifica a livello nazionale è la cronica penuria di risorse; l’Italia mantiene uno degli investimenti in ricerca in percentuale di PIL tra i più bassi nei Paesi industrializzati, non molto distante dall’1% e sovente inferiore. Tuttavia, la scarsità di risorse non ha impedito la costruzione di importanti e prolifici centri di ricerca, a marca spiccatamente industriale, pubblici e privati. La cui volontaria dismissione rappresenta forse la chiave di volta di quel processo di destrutturazione della scienza in Italia che già negli anni Sessanta inibisce lo sviluppo della scienza a livello nazionale.
2. La ricerca nella Costituzione del 1948
La ricerca è menzionata nella Costituzione all’art. 9, tra i principi fondamentali. Tale articolo, che non ha riscontro in altre moderne Costituzioni occidentali, pone la tutela, la promozione e lo sviluppo della cultura tra i principi fondanti della Repubblica. Pertanto, la promozione e lo sviluppo della ricerca sono compiti essenziali e prioritari della Repubblica. La Costituzione, poi, sancisce, al Titolo II, articolo 33, la libertà di arte e scienza e del loro insegnamento. Dal testo costituzionale emerge una concezione della ricerca scientifica e tecnologica e della cultura in generale finalizzata all’elevazione del livello di civiltà dei componenti della società, e più in generale alla costruzione di un modello culturale in grado di favorire il benessere soprattutto morale della società stessa (art. 4). Dalle discussioni in Commissione Costituente [30, 31] si evince che il contesto entro il quale nasce questa concezione è quello del percorso di rinascita del Paese, appena uscito dalla Seconda Guerra Mondiale, per cui la libertà di insegnamento e della ricerca scientifica sono un pilastro fondamentale. La libertà espressa dall’art. 33 sottende un altro importante concetto, la sostanziale volontà di evitare ogni ingerenza sulla spontanea evoluzione della vita culturale e scientifica della Repubblica. Tuttavia, appare chiaro dalle discussioni dei Padri Costituenti che l’autonomia derivante da questa libertà, soprattutto quando si parla di insegnamento e ricerca universitaria, deve essere ben tutelata dallo Stato. Infatti, la sola autonomia economica, escluderebbe automaticamente l’autonomia di ricerca e di studio poiché non garantirebbe uno sviluppo uniforme e omogeneo dei centri di insegnamento e ricerca. In sintesi, dalla Costituzione emerge un quadro di compromesso tra varie istanze per il quale la libertà di insegnamento e di ricerca può essere tutelata e garantita solo sotto il controllo dello Stato. Quanto al potere di indirizzo dello Stato nei confronti della ricerca, la Costituzione non si esprime direttamente. Da un lato, il dovere della tutela e della promozione non può declinarsi come totale pianificazione pubblica della ricerca scientifica, che deve mantenere la propria libertà e autonomia; dall’altro, lo Stato, visto il suo ruolo di promotore del benessere economico e sociale, deve poter intervenire indirizzando le componenti della ricerca applicata verso i settori che ritiene più strategicamente importanti.
3. I numeri della ricerca in Italia e progettualità future [32,33]
Dopo aver descritto lo sviluppo della ricerca in Italia da un punto di vista storico e aver interpretato lo spirito con cui la Costituzione sostiene la ricerca, analizziamo lo stato della ricerca in Italia sulla base del contenuto del rapporto ANVUR 2016. Qui è riportata un’analisi quantitativa di parametri indicativi dello stato della ricerca in Italia. Tuttavia, l’affidabilità di questi parametri è dubbia secondo molti esperti del settore, pertanto non fornisce una conoscenza approfondita del fenomeno reale nella sua complessità.
3.1 Spesa, finanziamenti e brevetti
La spesa in ricerca e sviluppo italiana (R&S, comprendente sia quella pubblica sia privata) in rapporto al PIL è storicamente inferiore alla media europea già dal 1970, quando si attestava intorno allo 0.8%, fino ad oggi, laddove essa supera a malapena 1,3%. Nonostante questo dato, la spesa assoluta in R&S è aumentata in questo periodo, crescendo più velocemente del PIL nazionale in tutti gli Stati esaminati. Per avere un’idea dell’ordine di grandezza, si pensi che il PIL in termini assoluti in Italia è cresciuto di oltre 4 volte dal 1960, mentre la spesa in R&S è cresciuta oltre il doppio attestandosi sui 20 miliardi di Euro nel 2012. Il basso tasso di spesa in R&S è dovuto in buona parte alla grande eterogeneità regionale presente nel nostro Paese, con la consueta divisione Nord-Centro-Sud, dove il Nord è in linea, per finanziamenti al sistema della ricerca, con la media europea. Ormai è assodato però che la sola spesa in R&S non è l’artefice della crescita economica [34]. È un fattore necessario ma non sufficiente. La stessa spesa in R&S non porta agli stessi risultati in Paesi diversi o addirittura nello stesso Paese in periodi differenti [35]. Il nostro è un caso emblematico: infatti, tra il 1960 e il 1970 abbiamo avuto un importante periodo di crescita economica ma la spesa in R&S era solo lo 0.8%. Nonostante ciò, la nostra ricerca otteneva importanti risultati nel panorama internazionale. Recenti studi dimostrano come anche l’obiettivo dell’Unione Europea di arrivare a una spesa di R&S del 3% entro il 2020 non possa essere considerato come un parametro assoluto ma dipendente dal tipo di economia del Paese analizzato e quindi discutibile essendo applicato a tutte le 28 nazioni della UE [36].
Un aspetto fondamentale da tenere in considerazione è la composizione della spesa in R&S tra pubblico e privato. Mentre negli anni 60 la quota di spesa delle amministrazioni pubbliche era in linea con quella delle imprese (non meglio definite, ma con buona parte di investimenti pubblici, vista la forte attività dell’IRI), nel corso degli anni si è visto un sempre maggior ruolo della spesa del settore privato fino a superare il pubblico 2 (52%), almeno nell’ultimo decennio. Nonostante il trend sia il medesimo, la spesa privata in Europa presenta medie che superano il 60%, con punte del 70% in quegli Stati dove è forte la presenza di multinazionali.
Dal 2008, per via della crisi, le fonti di finanziamento ministeriali (da noi la quota più alta di tutta Europa) si sono ridotte drasticamente in Italia (-21%) e Spagna per rimanere stagnanti negli altri Paesi OCSE. Inoltre, per i finanziamenti alla ricerca erogati su base competitiva, l’accesso è stato limitato e saltuario negli ultimi 5 anni, con addirittura periodi in cui non è stato nemmeno erogato. Per rendere meglio l’idea, i progetti che ricadono sotto il FIRST (Fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica) hanno avuto pesanti tagli di ben oltre il 50% arrivando anche a non essere più erogati. Inoltre, questi finanziamenti su base competitiva si stanno sempre più uniformando alle linee guida e tematiche del programma europeo Horizon 2020. Altro fattore da prendere in considerazione è che anche le università private possono accedere a questo tipo di finanziamenti. Questo spostamento della spesa dal pubblico al privato si riflette anche sul tipo di ricerca condotta. Infatti, la ricerca di base è portata avanti in prevalenza nel pubblico (per oltre il 60%), mentre la ricerca applicata e ancor di più lo sviluppo sperimentale, sono appannaggio del privato. Le cose non cambiano quando si analizzano i parametri di innovazione industriale. Pur non essendo nota alcuna correlazione tra il numero di brevetti e la reale innovazione tecnologica, l’attività di brevettazione nazionale è in calo e l’Italia ha un tasso di produzione inferiore rispetto ai maggiori Paesi europei.
3.2 Personale nella ricerca
La quantità di personale dedicato alla ricerca (che comprende stabili e precari, amministrativi e dirigenti) in Italia è ampiamente al di sotto della media UE a 28 Paesi, nonostante il trend sia in aumento. Quando si guarda l’impatto del lavoro flessibile nella ricerca, nonostante i dati non siano del tutto omogenei (l’ISTAT per esempio non tiene conto dei dottorandi), la stipulazione di contratti attinenti a forme di precariato in tutti i comparti è aumentata negli ultimi anni superando il 50% del personale di ricerca, anche per effetto delle recenti riforme del ruolo del ricercatore universitario. Per quanto riguarda il personale docente, dopo un’iniziale fase espansiva, dal 2008 si evince un calo, arrivando a perdere oltre il 15% del personale nel 2014. Anche il ricercatore degli Enti di Ricerca sta subendo una sorte analoga. Inoltre, la quota di personale afferente ai ricercatori, rispetto al comparto tecnico amministrativo, è la più bassa d’Europa, con solo il 47% della forza lavoro totale. Altro dato importante è la prevalenza del personale impiegato in R&S nel settore privato rispetto al pubblico, trend in costante aumento in tutta Europa. Per quanto riguarda i dottorati, istituiti nel nostro paese solo nel 1980, sono meno della metà rispetto a Francia e Germania e se ne sono persi il 20% negli ultimi anni (perlopiù posti senza borsa) grazie anche alle restrizioni burocratiche recentemente immesse nel sistema [37].
3.3 Ricerca e finanziamenti europei
Per quanto riguarda la capacità di accesso ai finanziamenti europei (ormai una quota predominante dei finanziamenti che arrivano nei nostri istituti, oltre il 40%), già di per sé molto selettivi (la percentuale di successo è intorno al 13%), l’Italia si colloca sotto la media europea (8%). Il dato è ancora più negativo per quanto riguarda gli ERC (European Research Council) per la ricerca di base. Da notare la particolare forma di finanziamento vigente con l’ERC, nella quale si finanzia solo la persona e non anche la struttura per la quale lavora. Infatti, il ricercatore vincente può scegliere in che paese UE svolgere il proprio progetto. Anche qui, degli italiani vincitori, una buona percentuale (43%) non scelgono l’Italia preferendo Inghilterra e Germania contribuendo alla massiccia emigrazione di persone qualificate dal nostro Paese. Il tasso di partecipazione è invece in linea con quello degli altri Paesi. Il dato è reso ancor più negativo dal fatto che come Paese membro contribuiamo a finanziare Horizon 2020 per il 12,5% del totale (siamo il quarto paese per grandezza del contributo) e ne riceviamo molto meno. Una recente stima valuta una perdita di oltre 350 milioni di Euro l’anno, arrivando in 7 anni a non ricevere oltre 3 miliardi di Euro. In pratica per ogni Euro dato a Horizon 2020, ne riceviamo indietro 0.66, caso unico tra i paesi principali della UE assieme alla Francia. Viceversa, il Regno Unito raccoglie molto di più di quel che eroga (per ogni Euro dato ha un ritorno di 1,46 e le università che ne beneficiano sono perlopiù private). Tutto questo nonostante abbiamo una frequenza di collaborazione con altri gruppi internazionali superiore alla media UE. Se poi si normalizzano questi dati con la spesa in R&S e la quantità del personale di ricerca (detti input), l’Italia raggiunge i livelli degli altri paesi UE e addirittura li supera. Infatti, l’attività di presentazione di progetti per singolo ricercatore è una delle più elevate dei Paesi UE.
3.4 Qualità della ricerca in Italia
Pur essendo l’uso degli indici bibliometrici per valutare la qualità della ricerca ampiamente criticato e dibattuto, questi indici mostrano come la qualità della ricerca in Italia si attesti su valori di eccellenza. La produzione scientifica nazionale è in crescita costante (dato simile in tutti i Paesi anche grazie alle forzature imposte dal modello publish or perish) e presenta un’alta collaborazione con ricercatori internazionali. La quota di ricerche pubblicate su riviste eccellenti (top 5%) è superiore alla media dei Paesi OCSE. Anche l’impatto medio (numero di citazioni) è superiore a due Paesi centrali come Francia e Germania. Inoltre, abbiamo un alto indice di produttività ed efficienza superiore addirittura a quello degli Stati Uniti.
I problemi che emergono da questi dati sono evidenti. Oltre alla cronica penuria di finanziamenti alla ricerca, indicativa di una certa mentalità della nostra classe dirigente, e aggravata dall’utilizzo di bandi competitivi di cui una parte consistente viene vinta dagli enti privati, abbiamo una mancata programmazione di lungo periodo dovuta alla mancanza strutturale di personale e al totale adeguamento alle direttive dei programmi quadro Europei, perdendo quindi anche ogni possibilità reale di ottemperare a specifici interessi nazionali.
A tutto ciò si aggiunge uno spostamento massiccio di fondi dalla ricerca di base (perlopiù pubblica) a quella applicata facendo venire meno il mandato Costituzionale della libertà e quindi autonomia nella ricerca.
La condizione dei ricercatori peggiora con il passare del tempo. Il tipo di contratto predominante nel pubblico impiego è ormai quello precario, e la continua burocratizzazione non fa altro che rallentare la ricerca. Nel privato, infine, non esiste una contrattazione nazionale equiparabile a quella del pubblico impiego con cui disciplinare l’assunzione dei ricercatori (si pensi all’utilizzo dei contratti nazionali del comparto metalmeccanico in certi gruppi privati). Tutto ciò contribuisce all’emigrazione netta dei ricercatori formati dalla nostra spesa pubblica che portano le loro elevate competenze a beneficio di Paesi terzi. L’Unione Europea peggiora questo stato di cose. Al netto di un nostro cospicuo versamento, il sistema di finanziamento europeo finanzia Paesi ed eccellenze (per esempio la Bocconi, università privata) che hanno già un’ingente mole di altri finanziamenti e interi settori amministrativi capaci di muoversi nelle maglie burocratiche della UE, togliendo risorse a Paesi che già faticano nella competizione della ricerca (nella nostra situazione ci sono anche quasi tutti i Paesi dell’Europa dell’Est). Un Robin Hood al contrario [38].
3.5 Programma nazionale della ricerca 2015-2020 [39]
È interessante analizzare il PNR 2015-2020. Esso vuole indirizzare la ricerca del nostro Paese nei prossimi anni attraverso proposte per arrivare a obiettivi in linea con Horizon 2020. L’investimento finanziario atteso è di ulteriori 2.5 miliardi di Euro nei prossimi tre anni, rispetto ai canonici 8 miliardi all’anno di tutto il finanziamento MIUR, quindi poco meno di un miliardo aggiuntivo l’anno.
I programmi (definiti da obiettivi e azioni) sono 6.
1) Internazionalizzazione, coordinamento e integrazione delle iniziative nazionali con quelle Europee e globali.
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Allineare la programmazione nazionale in R&S a quella europea.
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Cogliere tutte le opportunità che si presentano nel contesto globale e europeo.
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Inserire in maniera strutturale l’Italia nel sistema della cooperazione internazionale.
Le azioni per raggiungere tali obiettivi sono state identificate in un rafforzamento del processo di programmazione congiunta, strumenti di “matching fund”, leadership in progetti strategici e il programma nazionale spaziale. Tutto per un centinaio di milioni in un triennio.
2) Centralità all’investimento nel capitale umano.
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Formare, potenziare e attrarre i migliori ricercatori.
Le azioni per raggiungere l’obiettivo sono state identificate in sviluppo di “dottorati innovativi”, attrazione dei vincitori ERC, e rendere i ricercatori protagonisti del trasferimento di conoscenza. Un altro obiettivo dichiarato nel PNR rispetto alla centralità del capitale umano è “la riforma dello status e del contratto dei ricercatori pubblici, per inquadrarli in un sistema di regole più snello e più appropriato a gestirne i tempi e le esigenze particolari, come ad esempio le partecipazioni internazionali, le missioni per la ricerca, la mobilità intersettoriale o lo stesso reclutamento”. Qui il finanziamento si aggira sul miliardo di euro per il triennio.
3) Sostegno selettivo alle infrastrutture di ricerca.
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Valutazione delle infrastrutture di ricerca.
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Sostegno selettivo e finalizzato ad una progressiva razionalizzazione del sistema.
Le azioni per raggiungere gli obiettivi elencati sono state identificate in una mappatura delle strutture nazionali e conseguente valutazione, una strutturazione della governance e nella creazione di uno strumento finanziario a sostegno. In pratica, si tratta di una selezione (tramite valutazione) delle infrastrutture di ricerca più produttive su cui puntare tutti i finanziamenti (che superano i 300 milioni), oltre ad un organismo apposito che governi la valutazione. Questo perché per accedere ai finanziamenti della UE per le infrastrutture, le stesse devono essere mappate e valutate da un programma nazionale come condizionalità ex-ante.
4) Collaborazione pubblico e privato.
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Stimolare la creazione di reti lunghe per la ricerca e l’innovazione.
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Favorire l’applicazione industriale dei risultati scientifici.
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Sviluppare politiche di stimolo alla ricerca.
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Garantire la rendicontabilità sociale della ricerca.
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Promuovere l’innovazione sociale.
Le azioni per raggiungere gli obiettivi elencati sono state identificate nello sviluppo della ricerca industriale e sostegno degli investimenti privati; oltre ad investimenti nella “società, ricerca e innovazione sociale”. Si tratta in pratica della nascita di un organismo decisionale intermedio tra il pubblico e il privato per ricercare fondi “volto ad accompagnare l’investimento in ricerca”. Inoltre si promuove la filantropia per la ricerca, ossia l’individuazione di mecenati che vogliano finanziare con donazioni la ricerca di base o applicata.
5) Il Mezzogiorno.
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Il riposizionamento competitivo dei territori meridionali.
Le azioni per raggiungere l’obiettivo sono state identificate in investimenti in capitale umano, progetti tematici e capacità amministrativa e “social PA”. Si tratta di finanziamenti (poco più di 400 milioni nel triennio) che vanno a potenziare i già esistenti PON (programma operativo nazionale, finanziato con fondi europei) sulla falsariga del PNR in toto con la novità della diffusione delle ricerche tramite social network.
6) Efficienza e qualità della spesa.
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Efficienza e qualità dell’investimento pubblico e privato.
Le azioni per raggiungere l’obiettivo sono state identificate nell’attuazione di un piano di rafforzamento amministrativo con un budget di circa 35 milioni di Euro. Quindi si valuteranno le amministrazioni per renderle più efficienti e trasparenti.
In conclusione, il nuovo PNR non si discosta dalla deriva aziendalista promossa nell’ultimo trentennio in Italia, cui aggiunge un insufficiente stanziamento di fondi diretti per colmare il gap con le nazioni europee trainanti. In sintesi sono previste azioni di lobbying in sede europea e la creazione di sistemi amministrativi per la raccolta fondi (visto il massiccio utilizzo della forma di bandi con cofinanziamento autonomo). Dal punto di vista del personale di ricerca, è tutto volto ad aumentarne la mobilità, la valutazione, il merito e quindi la competizione. D’altro canto il nome dei programmi stessi (“Top Talents, Dottori Startupper” etc.) sembrano indicare più un concorso a premi televisivo che un programma di formazione. Inoltre, visto il mancato reclutamento di molti dottori di ricerca nel sistema pubblico e la loro scarsa occupazione nel privato, si spinge a sviluppare negli studenti di dottorato capacità imprenditoriali per fondare startup o spin-off che li immettano direttamente sul mercato internazionale (la sopravvivenza di questi tipi di imprese sul mercato a 3 anni dalla nascita è però inferiore al 20%) [40]. È interessante, per capire l’idea dietro a questo PNR, analizzare un tipo di intervento detto Challenge Prizes: dove “non sono i progetti a essere premiati con l’assegnazione di risorse, ma i risultati, conseguiti in maniera autonoma e con risorse proprie dei partecipanti”. Insomma un vero e proprio concorso a premi piuttosto che un finanziamento strutturale capace di svelare le eccellenze di domani.
Un sistema quindi, in cui lo Stato è sempre meno attore principale e attivo delle politiche della ricerca e mero esecutore delle regole impartite dall’Unione Europea. È quello che scrivono come incipit del documento: “Il peso crescente delle risorse europee rispetto a quelle nazionali e in ultima analisi di quelle ad accesso competitivo rispetto a quelle ordinarie (con l’abbandono del criterio di assegnazione delle risorse basato sulla spesa storica), impongono un ribaltamento di paradigma nelle attività di programmazione nazionale”.
Insomma tutto tranne programmare importanti e continui investimenti in ricerca.
4. L’Unione Europea e la ricerca scientifica
L’unione Europea comincia a dotarsi di strumenti per una politica comunitaria in materia di ricerca scientifica e tecnologica fin dai primissimi anni della sua fondazione, quando ancora si chiamava Comunità Economica Europea (CEE). Infatti, contestualmente alla nascita della CEE col trattato di Roma del 25 marzo 1957, si istituisce col trattato EURATOM la Comunità Europea dell’Energia Atomica [41] allo scopo di coordinare meglio le varie politiche nazionali in merito alla ricerca sull’energia nucleare a scopi pacifici. Dovranno però passare altri 26 anni prima che la UE riesca a dotarsi di uno strumento più sistematico e a più ampio spettro in materia di ricerca scientifica. La spinta in tal senso verrà dalla Francia, dove nel 1983, il presidente Mitterrand proporrà un programma denominato ESPRIT che aveva come scopo lo sviluppo dell’informatica e delle telecomunicazioni. Sull’onda di tale spinta, il 25 luglio 1983, il Consiglio Europeo istituisce attraverso una sua risoluzione, i “Programmi quadro per le attività di ricerca e sviluppo e di dimostrazione” [42] che saranno d’ora in avanti il principale strumento di cui si dota l’Unione Europea per attuare una politica comunitaria in materia di ricerca scientifica e tecnologica.
4.1 I Programmi Quadro [43]
Lo scopo dichiarato di questi programmi è favorire uno sviluppo scientifico e tecnologico in Europa. Gli aspetti caratterizzanti di ogni Programma Quadro (PQ) sono 4: gli obiettivi da realizzare, i criteri di selezione per i bandi, le priorità tra i diversi temi scientifici e tecnologici e ovviamente le risorse finanziarie. Le azioni di ricerca proposte saranno poi approvate se comportano dei vantaggi rispetto alle normali attività nazionali. Infine, è la Commissione Europea che elabora i programmi dopo aver consultato gli Stati membri.
Oltre i quattro aspetti principali sopra citati ve ne sono alcuni secondari, ma ugualmente importanti. Il primo tra questi è sicuramente quello per il quale se si vogliono ottenere dei fondi, si deve sempre partecipare a un bando di concorso. Le proposte, se soddisfano determinati criteri (essere in linea con i requisiti scientifici, tematici e formali del bando) sono infine valutate da un gruppo di esperti indipendenti, ovviamente competenti nell’ambito di ricerca oggetto della proposta. È anche da sottolineare che uno degli aspetti più importanti che può portare alla selezione del progetto presentato sono gli effetti socio-economici che lo stesso porterebbe.
Per capire a fondo il ruolo e l’impatto che i PQ hanno avuto sulla direzione che la UE ha voluto dare alla ricerca scientifica, è necessario analizzare nel dettaglio almeno quelli più significativi.
Il primo PQ copriva gli anni 1984-1988 e aveva un budget di quasi 4 miliardi di euro assorbito quasi per metà dalla ricerca sulla fissione nucleare. Un ulteriore quarto del budget era dedicato alle telecomunicazioni e il restante si divideva tra industria e materiali (11%), scienza della vita e ambiente (10%) e borse di studio e mobilità dei ricercatori (4%). Il secondo PQ segna un deciso cambiamento sia sulla quantità di risorse allocate (5.4 miliardi di euro) sia per quanto riguarda gli ambiti. Le telecomunicazioni assorbono, infatti, il 40% delle risorse, l’industria e i materiali raddoppiano i loro fondi e il settore energetico ancora dominato dalla fissione nucleare vede scendere la sua quota al 20%. È interessante notare che con questo secondo PQ si iniziano a finanziare anche le cooperazioni internazionali extra UE (ad esempio la Svizzera presenterà un suo primo progetto per accedere ai fondi stanziati) e le PMI (piccole e medie imprese).
Il terzo PQ (1990-1994) aumenta ancora il budget arrivando a 6,6 miliardi di euro. Le telecomunicazioni la fanno ancora da padrone dal punto di vista delle risorse allocate e si cominciano ad avere aree tematiche più definite. Assume ancora più importanza la gestione delle risorse intellettuali, tramite borse e mobilità, e si comincia a investire anche sul marketing scientifico attraverso un’azione centralizzata di diffusione e valorizzazione dei risultati derivanti dai programmi specifici. Questo ultimo aspetto sarà ulteriormente incrementato anche nel quarto Programma Quadro (1994-1998) che segna un passo avanti enorme nell’allocazione delle risorse. Il budget, infatti, raddoppia arrivando fino a 13,2 miliardi di euro. Si tende sempre più a incentivare la formazione e la mobilità dei ricercatori.
Il quinto Programma Quadro, che copre gli anni 1998-2002, presenta solo una novità rispetto al passato, il criterio socio-economico per l’assegnazione dei progetti viene a cadere. Fino ad allora, infatti, la Commissione Europea aveva spinto e favorito nei finanziamenti tutti quei progetti che provenivano dalle regioni europee più disagiate, cosa che non accadrà dunque più. Anzi, già da questo quadriennio si nota come all’interno di alcuni progetti molto grandi che arrivano a contenere 80 partecipanti, alcuni partner abbiano compiti molto più importanti e di conseguenza dispongano di un budget molto più elevato rispetto agli altri.
4.2 Lo spazio europeo della ricerca (SER)
La strada è ormai segnata e si prosegue senza cambiare più direzione, tanto che nel quadriennio successivo che va dal 2002 al 2006 (sesto PQ) viene alla luce il cosiddetto Spazio Europeo della ricerca (in inglese ERA, European Research Area) [44]. Nel Marzo del 2000 a Lisbona, il consiglio dei capi di Stato e di governo della UE si era posto come obiettivo quello di costruire appunto uno “Spazio europeo della ricerca” che ha come termine di paragone il mercato comune europeo. L’obiettivo della UE era di realizzare i punti principali del SER entro il 2014, ma non essendo avvenuto ha invitato gli stati membri ad attuare una serie di riforme [45] per proseguire nel processo di realizzazione. Dal 2015 la UE individua queste riforme (qui elenchiamo le più significative):
- a livello nazionale, potenziamento della valutazione delle politiche di ricerca e innovazione e creazione di sinergie tra i livelli nazionali ed europei, ripartizione dei fondi in base all’eccellenza e maggiori investimenti a favore della scienza e della ricerca;
- a livello di infrastrutture: ottimizzazione degli investimenti pubblici nelle infrastrutture di ricerca armonizzando le priorità nazionali con la roadmap europea ESFRI (European Strategy Forum on Research Infrastructures) [46];
- mercato del lavoro aperto ai ricercatori: promozione di procedure di selezione aperte, trasparenti e basate sul merito dei candidati conformemente alla Carta europea dei Ricercatori [47] e al Codice di Reclutamento dei Ricercatori [48].
Tutte le riforme che sono adottate dai paesi partecipanti al SER sono valutate dalla UE. È redatto annualmente un rapporto [49] e si ha l’intenzione di perfezionare e intensificare le attività di monitoraggio, gli studi sulla qualità e sull’efficacia delle riforme stesse.
4.3 L’ingresso dei privati
Il settimo PQ (2007-2013) e l’ottavo (2014-2020, ribattezzato HORIZON 2020) segnano l’ingresso del capitale privato nel mondo della ricerca, anche quella di base. Il bilancio aumenta ancora, 55 miliardi di euro per PQ7 e 81 miliardi di euro per Horizon 2020. Assume sempre più importanza la ricerca di base e quella sulla fusione nucleare in vista della costruzione del reattore termonucleare sperimentale internazionale (ITER). La Commissione Europea dichiara apertamente che vuole integrare anche il settore privato spingendo sempre di più il finanziamento congiunto dei progetti. Nascono nuovi strumenti di collaborazione, ad esempio le cosiddette piattaforme tecnologiche europee (ETP) si trasformano in iniziative tecnologiche congiunte (JTI). Proprio su questa base la Commissione Europea istituisce delle collaborazioni che coinvolgono imprese, ricercatori e istituzioni pubbliche degli Stati Membri. Le reti di eccellenza e i progetti integrati sono sostituiti con due progetti di grandi dimensioni, che faranno da faro per le tecnologie future ed emergenti. La UE finanzia questi progetti con circa 500 milioni di euro in 10 anni, richiedendo un pari importo anche ai partecipanti o con fondi pubblici degli stati membri e/o con fondi privati. Un’altra importante novità introdotta con HORIZON 2020 è l’accesso agevolato al capitale di rischio. La Commissione ha notato che tra la ricerca e il lancio sul mercato di un eventuale prodotto vi era spesso un gap enorme, che intende colmare con prestiti a tasso più o meno garantito.
5. Struttura della ricerca in Italia: tra pubblico e privato
5.1 Come è strutturata la ricerca italiana
Ad oggi la ricerca pubblica è principalmente legata alle Università (statali, non statali pubbliche, non statali private e telematiche) e ai numerosi enti di ricerca privati e pubblici vigilati dal MIUR (oltre ad altri enti vigilati da altri Ministeri, ad esempio, l’Istituto Italiano di Tecnologia sotto il controllo del ministero dell’economia) tra cui: l’Agenzia Spaziale Italiana, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, il Consorzio per l’Area di Ricerca Scientifica e Tecnologica di Trieste, l’Istituto di Studi Germanici, l’Istituto nazionale di Alta Matematica, l’Istituto Nazionale di Astrofisica, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, l’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica, l’Istituto Nazionale Oceanografia e Geofisica Sperimentale, il Museo Storico della Fisica e Centro Studi e Ricerche “Enrico Fermi”, la Stazione Zoologica “Anton Dohrn”, l’Istituto nazionale di Documentazione per l’Innovazione e la Ricerca Rieducativa, l’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione.
Le principali fonti di finanziamento statali sono erogate tramite il FFO (Fondo Finanziamento Ordinario) il FOE (Fondo Ordinario per il finanziamento degli Enti di Ricerca) che coprono perlopiù le spese per il personale (intorno al 90% almeno per il FFO), il PRIN (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale), il FIRB (Fondo per gli Investimenti in Ricerca di Base) e il FAR (Fondo per le Agevolazioni alla Ricerca) per lo sviluppo della ricerca industriale.
5.2 Ricerca ed innovazione tecnologica. Il ruolo dello Stato
Un’azione di indirizzo della ricerca in settori strategici è sempre stata storicamente posta in essere dagli Stati industrializzati, al fine di favorire la crescita economica. La ricerca scientifica e tecnologica ha assunto un ruolo chiave nel determinare lo sviluppo economico, attraverso l’innovazione, che ha agito, nelle economie moderne, come un motore della crescita. Alcuni studiosi [50] pongono l’innovazione tecnologica alla base dei cicli lunghi dell’economia: la prima Rivoluzione industriale (1770 al 1830); l’introduzione della ferrovia (1840-1890); l’elettrificazione, l’industria chimica e il motore a combustione interna (1890-1930); la produzione fordista di massa (1930-1980); le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (dagli anni ‘80 del secolo scorso). In tempi recenti, nel caso degli Stati Uniti, il finanziamento federale alla ricerca ha permesso lo sviluppo di svariate tecnologie, per esempio nell’ambito dell’informatica e dell’elettronica. In realtà, l’azione di finanziamento pubblico alla ricerca costituisce un impulso alla crescita economica soprattutto per quelle economie ancora in fase di sviluppo, o in particolari momenti storici successivi a crisi economiche o guerre. Il ruolo della ricerca e sviluppo nella crescita economica è riconosciuto dalla letteratura scientifica ed economica [51,52], tuttavia per economie già sviluppate, una correlazione tra investimenti pubblici in ricerca e crescita economica non è chiaramente individuabile [53]. Quello che è certamente dimostrabile è che il finanziamento pubblico alla ricerca assume invece importanza come strumento per aprire nuovi settori di ricerca e accollarsi l’enorme rischio iniziale che le imprese non vogliono sostenere (socializzazione del rischio) [54,55,56]. Un caso citato a sostegno di questa affermazione è quello della Apple, che per sviluppare i suoi prodotti si è avvalsa di tecnologie sviluppate grazie a finanziamenti pubblici statunitensi. In questo senso, il finanziamento pubblico alla ricerca contribuisce a facilitare la creazione di condizioni favorevoli all’innovazione, minimizzando il rischio di impresa associato. Le ricadute dell’azione di finanziamento pubblico alla ricerca non si concretizzano solo in uno stimolo all’innovazione tecnologica finalizzata alla mera crescita economica, ma anche nella creazione di eccellenze strategiche per il Paese. Attraverso tali eccellenze, lo Stato può, in effetti, ottemperare ai principi costituzionali di promozione di benessere economico e sociale. Chiaramente, accanto a una politica di finanziamento pubblico va sviluppata un’adeguata politica per il trasferimento tecnologico alle imprese, onde evitare la formazione di rapporti di tipo parassitario tra Stato e settore privato: lo Stato deve avere un ritorno in termini di benessere per la popolazione e di sostegno a settori strategici.
5.3 La ricerca come prodotto: valutazione ed efficienza
In Italia, per ragioni storiche e per le più recenti note politiche di austerità, che vincolano il bilancio pubblico, il finanziamento alla ricerca è soggetto a continui tagli. Pur in un regime di scarso finanziamento, tuttavia, il livello della ricerca italiana è ritenuto di qualità rispetto a quello di altri Paesi. Ciò nonostante, in tempi recenti, con il pretesto di massimizzare una non meglio precisata efficienza, sono stati introdotti in Italia criteri di controllo e valutazione della produzione scientifica, come ad esempio quelli implementati dall’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR). Questi criteri attribuiscono valore alla produzione scientifica sostanzialmente sulla base di parametri bibliometrici, come la quantità di articoli scientifici pubblicati e il prestigio della rivista che li pubblica. A queste valutazioni sono poi subordinati i finanziamenti alle università e le carriere dei ricercatori. Tale sistema, insieme ai criteri che stabiliscono le modalità di accesso ai bandi di finanziamento e le progressioni di carriera dei ricercatori, costringe il ricercatore a pubblicare il più possibile privilegiando la quantità sulla qualità della produzione scientifica[57]. Il cosiddetto modello publish or perish [58], forzato dall’idea di valutazione basata su criteri bibliometrici, finisce per allontanare il ricercatore da integrità e obiettività, [59] forzandolo a perseguire ricerche finanziabili (che, di fatto, sono indirizzate dai criteri di valutazione) e più probabilmente pubblicabili (quelle che mostrano risultati positivi). Inoltre, si creano situazioni paradossali per cui lo scienziato si trasforma in una sorta di manager che invece di fare ricerca si occupa di preparare documenti e creare i contatti con altri team di ricercatori per accedere ai finanziamenti. In particolare, assume importanza ai fini dell’accesso ai finanziamenti, non tanto la rilevanza della ricerca proposta ai fini dell’interesse nazionale quanto invece il prestigio della rete di conoscenze e contatti che il ricercatore è in grado di coinvolgere a sostegno del progetto di ricerca. Si creano così veri e propri potentati accademici, club esclusivi privilegiati e molto settoriali, a cui l’accesso è essenziale per fare ricerca e ottenere i fondi necessari. L’obiettivo del ricercatore non è più far bene il proprio lavoro, ma lottare con gli altri ricercatori per stare davanti agli altri, in una lotta fra poveri che deprime i talenti e rafforza i gruppi di potere.
Più in generale, una critica che si può muovere all’idea stessa di valutare l’efficienza di un’attività non direttamente finalizzata alla produzione di beni materiali come la ricerca è che essa è figlia di un modello culturale che tende a ridurre tutti gli aspetti della vita umana, conoscenza compresa, a merce, in ossequio ai principi liberisti [60]. Anche la ricerca e la scienza in generale sono trattate come una merce soggetta a valutazione. Anziché essere orientata al progresso civile e morale della società, come delineato in Costituzione, la ricerca è orientata all’utilità meramente in relazione a ciò che è implementabile in un sistema produttivo, o in base a criteri che poco hanno a che vedere con il progresso in senso lato della società. Pur in assenza di merce, siamo in presenza di un sistema di regole e valutazioni che creano artificialmente un mercato, quello delle idee e dei prodotti della ricerca, che nella realtà è inesistente. Le dinamiche che si creano all’interno della ricerca sono però simili a quelle di mercato: università e centri di ricerca sono posti in concorrenza tra loro, i ricercatori, a causa della cronica mancanza di fondi legata alle politiche di austerità, sono costretti a indirizzare la loro ricerca verso tematiche più vendibili, i centri di ricerca si trasformano in aziende in cui alcuni ricercatori assumono ruoli di tipo imprenditoriale o amministrativo.
5.4 Enti di ricerca privati
Di recente, in Italia, sono sorti diversi Enti senza scopo di lucro con finalità di ricerca e con ordinamento di diritto privato (fondazioni, consorzi, associazioni). Simili realtà sono pensate per operare nel “mercato della ricerca”, secondo il modello perverso, descritto in precedenza, che ha trasformato la ricerca in un prodotto in ossequio alle logiche liberiste. Gli enti privati sono stati creati appositamente con l’intento di agire in un regime di libera concorrenza: a fronte di fonti di finanziamento ordinarie da parte della pubblica amministrazione (Ministeri o Enti Locali) cronicamente scarse rispetto al fabbisogno, la sopravvivenza e la crescita degli Enti è legata essenzialmente alla capacità di reperire fondi pubblici e privati rispettivamente attraverso la partecipazione a bandi di finanziamento e la fornitura di servizi di ricerca. In questo scenario gli enti privati si trovano in aperta competizione con gli enti pubblici, partendo però da una posizione di vantaggio legata all’ordinamento privato, che garantisce una maggiore flessibilità e una notevole autonomia nella rimodulazione degli obiettivi e nell’organizzazione del lavoro. Questo vantaggio, unito al fatto che gli enti privati di ricerca possono partecipare ai bandi per l’ottenimento di finanziamenti pubblici sia in Italia sia in Europa, rende gli enti privati temibili concorrenti per università ed enti pubblici, che si trovano a dover lottare contro un ulteriore nemico per garantirsi i finanziamenti.
Occorre precisare che, almeno in linea teorica, l’indipendenza formale degli enti di ricerca privati dalle imprese e la finalità di diffusione della conoscenza, differenziano tali enti dalle strutture di ricerca completamente controllate dalle imprese. Per come sono costituiti e per il sistema di incentivi alla ricerca in ambito europeo, in particolar modo in Italia, paese in cui vi è bassa propensione delle imprese a investire in ricerche ad alto livello di innovazione ed alto rischio, spesso gli organismi di ricerca privati tendono a posizionarsi su attività di trasferimento tecnologico piuttosto che su attività di produzione scientifica e diffusione della conoscenza. L’obiettivo principale di un organismo di ricerca privato consiste nel massimizzare la forza di attrazione nei confronti delle imprese, oggi partner di progetto, domani auspicate finanziatrici, mediante il raggiungimento di livelli di alta competitività nel trasferimento di nuove tecnologie [61]: in questo senso, la libertà di ricerca viene evidentemente minata. Per quanto riguarda la figura del ricercatore che opera in questi ambiti, egli non ha obiettivi professionali codificati e riconoscibili a livello internazionale come nel caso dei centri di ricerca pubblici. Per il ricercatore, stante l’attuale difficoltà nel perseguire una carriera all’interno di università ed enti pubblici, lavorare negli organismi di ricerca privati rappresenta un’opportunità. Tuttavia, la figura del ricercatore è sicuramente meno tutelata che nel settore pubblico: regole vere e proprie per la tutela della professionalità non esistono, anche a causa della frammentarietà dei contratti di lavoro applicati. Il ricercatore diventa di fatto precario per definizione e soggetto a tutti i vincoli e ricatti di un dipendente privato. La libertà di ricerca delineata in Costituzione diventa ancora una volta vittima delle istanze che vogliono la ricerca finalizzata all’innovazione tecnologica e al mercato.
5.5 Il crowdfunding applicato ai finanziamenti alla ricerca
A causa della scarsità di risorse pubbliche e delle politiche di austerità, e grazie allo sviluppo di Internet e dei social media, si sta affermando di recente un modello di finanziamento della ricerca basato sul crowdfunding [62,63]. Le nuove tecnologie hanno permesso agli scienziati di avvicinarsi al pubblico: sono nate piattaforme via Internet per il finanziamento diretto di progetti di ricerca da parte del comune cittadino [64]. Alcune università, come quella di Pavia e Torino, hanno creato la loro piattaforma per il fundraising. Il ricercatore deve avvalersi di tecniche di social marketing e deve avere una conoscenza dei social media per poter pubblicizzare e rendere appetibile al meglio il proprio progetto di ricerca. Le campagne di crowdfunding in generale devono offrire una ricompensa ai finanziatori. Nel caso delle campagne per progetti scientifici, si può trattare ad esempio di visite a laboratori, nomi sull’articolo scientifico, aggiornamenti esclusivi sull’evoluzione della ricerca, ecc.
Siamo davanti all’estremizzazione in chiave social del concetto di ricerca scientifica come prodotto da vendere, in modo in tutto e del tutto simile a quanto accade nell’ambito dei meccanismi di valutazione della ricerca. Si tratta senza dubbio di un’opportunità nuova in tempi di imposta austerità, ma è chiaro che l’affermarsi di un modello di questo tipo in un ambito di interesse pubblico, volto a supplire alla carenza di finanziamento, rappresenta un sintomo ulteriore della crisi del ruolo dello Stato, che, di fatto, è sostituito nel suo ruolo di tutela e promozione della ricerca scientifica.
6. Il ruolo del ricercatore
Parallelamente all’esasperata specializzazione delle discipline, la ricerca scientifica ha riscontrato, in particolar modo nel periodo più recente, l’instaurazione di meccanismi per i quali la quantità di produzione scientifica diventa il parametro centrale di valutazione, fatto che sta conducendo a un’enorme e incalzante quantità di dati spesso poveri di contenuto alla quale i ricercatori si trovano ad attingere al fine di pubblicare a loro volta un qualche articolo che andrà, nella maggior parte dei casi, ad alimentare il fenomeno, incrementato ancora di più dalla pratica diffusa di condividere le firme negli articoli scientifici. Questo meccanismo si esplicita nell’enorme quantità di approfondimenti richiesti al ricercatore a fronte dei risultati spesso insignificanti che la sua ricerca si propone di portare alla luce, mediante un meccanismo per cui lo scienziato racconta tutto ciò che ha approfondito, per arrivare infine a tesi relativamente semplici [65].
La ricerca di sovvenzioni, che ad oggi costituisce uno dei principali compiti dei ricercatori e dei docenti, deprime sempre più la ricerca di base e sposta finanziamenti dalle piccole università pubbliche alle grandi università private [66]. La forte presenza di interessi privati nella ricerca trova terreno fertile nella cronica scarsità di finanziamenti, per i quali i ricercatori si trovano spesso a vendere il proprio prodotto scientifico alle grandi aziende, rendendo, di fatto, le università manipolabili da chiunque abbia interesse a finanziarle, oltre che in competizione tra loro secondo il dogma liberale della concorrenza (in questo campo “eccellenza”). [65].
Ai professori e ricercatori universitari, sempre più oberati di lavoro tra assemblee, comitati e riunioni, e ai quali è tuttavia richiesto un contributo in produzione scientifica sempre maggiore, vengono in aiuto i dottorandi, ai quali vengono delegati attività di tutorato (spesso non, o mal, retribuito), esami, ricerca, lunghe e articolate richieste di finanziamenti pubblici o privati [65]. Il numero di dottorandi, nei paesi del blocco occidentale, è stato in continuo aumento negli anni pre-crisi e molti possessori di titolo di dottorato rimangono disoccupati o costretti a emigrare, complice in questi anni anche la crisi economica. Contrariamente a quanto avviene per i docenti universitari, lo status dei ricercatori e tecnologi degli Enti di ricerca è determinato, fin dalla legge n.168 del 1989 dalla contrattazione sindacale. Fino alla riforma del pubblico impiego del 1993, gli esiti della contrattazione sindacale erano recepiti da un DPR; l’ultimo di essi, il DPR 171 del 1991, fissò le carriere dei ricercatori articolate su tre livelli: III livello (ricercatore), II livello (primo ricercatore), I livello (dirigente di ricerca). Analoga suddivisione si ebbe per la distinta e parallela carriera dei tecnologi. I tre livelli rispecchiavano la struttura della carriera dei docenti universitari, composta dai livelli di ricercatore (oggi abolito e messo a esaurimento dalla riforma Gelmini, che lo ha sostituito con due forme a tempo determinato, la seconda delle quali dà accesso diretto al secondo livello previo conseguimento dell’Abilitazione Scientifica Nazionale), professore associato e professore ordinario. Al livello iniziale si accede tipicamente, per entrambe le carriere, dopo aver conseguito il dottorato di ricerca e aver svolto per un numero di anni variabile attività di ricerca in posizioni precarie, quali quella denominata “assegno di ricerca”. Con il D.lgs. 29/1993, lo status dei ricercatori e tecnologi degli Enti Pubblici di Ricerca (EPR), fu determinato direttamente dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL). Inizialmente ricercatori e tecnologi furono riconosciuti come specifiche tipologie professionali della dirigenza, con trattamento normativo rispondente alle loro caratteristiche professionali. Le successive revisioni normative, confluite poi nel D.lgs. 165/2001 fecero perdere ai ricercatori la collocazione contrattuale di livello dirigenziale, riportandoli alla contrattazione di comparto, indistintamente, insieme al personale tecnico e amministrativo, rendendo più problematico il riconoscimento delle specificità di questa figura professionale. La situazione si è ulteriormente complicata con il riordino del pubblico impiego previsto dalla cosiddetta legge Brunetta (D.lgs. 150/2009) che ha organizzato l’intero settore pubblico in soli quattro comparti, portando i ricercatori EPR a confluire nel comparto della scuola (si parla di farlo anche per gli universitari). A fianco dei ricercatori pubblici esistono poi ricercatori operanti nel settore privato, per i quali non è prevista una specifica tipologia contrattuale, e che sono via via inquadrati con contratti generici quali quello dei metalmeccanici, chiaramente poco rispondenti alle specifiche esigenze della professione.
Con il decrescere delle risorse disponibili si è avuta un’erosione delle opportunità sia dal basso sia dall’alto. Dal basso, la sempre minore disponibilità di nuove posizioni ha causato una grande crescita del precariato. Questa situazione, che si era già verificata nei decenni passati ed era stata poi sanata con ondate di concorsi per nuovi posti, è oggi molto più critica a causa dei vincoli al turn-over dovuti alle misure di austerità richieste dai vincoli di bilancio. Più in alto, i medesimi vincoli hanno fatto sì che le legittime aspettative di carriera di ricercatori anche molto produttivi fossero frustrate dalla mancanza delle risorse necessarie per bandire concorsi per l’accesso ai livelli superiori. Per di più, questo è accaduto a macchia di leopardo, causando situazioni di grande disparità tra un ente e l’altro e fra gli enti e il sistema universitario. Così, se un tempo una permanenza superiore ai dodici anni nel livello più basso era considerata un’anomalia, oggi per tantissimi è la norma, e non per mancanza di titoli validi. Altrettanto grave è il mancato inserimento di nuovo personale in ruolo, infatti, si stima che nei prossimi anni il 96% dei dottorandi e assegnisti di ricerca sarà escluso dalla ricerca pubblica, con enormi problemi di ricollocazione sul mercato del lavoro.
In anni recenti, si è avuto un forte impulso ad affermare una cultura della valutazione nel mondo della ricerca (e non solo), con la motivazione di ottimizzare l’uso delle risorse e ridurre gli sprechi derivanti da presunti ricercatori “fannulloni”. A questo scopo la legge 24 novembre 2006 n.286 ha istituito l’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR), il cui regolamento di funzionamento è stato poi definito nel DPR 1 febbraio 2010 n.76. L’ANVUR oggi gestisce, tra l’altro, un complesso processo denominato Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR), rivolto alla valutazione dei risultati della ricerca scientifica effettuata dalle Università Statali e non Statali, dagli Enti di Ricerca pubblici vigilati dal MIUR e da altri soggetti pubblici e privati che svolgono attività di ricerca, su richiesta esplicita. La valutazione è condotta sui cosiddetti “prodotti della ricerca” (termine che già rende evidente la natura aziendalista di queste procedure, ossia principalmente, ma non solo, le pubblicazioni scientifiche). Per i cosiddetti “settori bibliometrici” la valutazione è effettuata basandosi anche su parametri bibliometrici, ossia parametri quantitativi che tentano di misurare la qualità di tali prodotti, ottenuti da banche dati private. L’uso di parametri bibliometrici per procedure di valutazione è oggetto di molte critiche in ambito internazionale, in quanto porta inevitabilmente i ricercatori ad adattare il loro metodo di lavoro in modo da massimizzare tali parametri. Questo causa quello che in ambito anglosassone è chiamato “publish or perish“, cioè una corsa alla pubblicazione a tutti i costi, a prescindere dalla qualità e originalità del contenuto. Si assiste di conseguenza a una proliferazione di pubblicazioni non sempre di eccelsa qualità, alla corsa al ricevere citazioni ai propri lavori tramite mezzi più o meno leciti, e più in generale a una continua rincorsa all’accumulazione di titoli che fungono da medagliette, il tutto a scapito del tempo e delle energie dedicate alla ricerca propriamente detta.
In generale, la “cultura della valutazione”, con i suoi indicatori volti a stilare classifiche, ha l’effetto di creare un clima di competizione fra le istituzioni, fra i dipartimenti di una singola istituzione, giù fino ai singoli ricercatori. Questa competizione a tutti i livelli, che lungi dal favorire le aggregazioni e la condivisione, divide e isola, è il perfetto specchio di ciò che l’avanzata del capitalismo assoluto ha creato nella società. A questo si aggiunga che le classifiche in un contesto complesso come quello della ricerca sono necessariamente scorrette perché non consentono di apprezzare le capacità multidimensionali del singolo o del gruppo di ricerca.
Nel mondo globalizzato si è voluto affermare il paradigma del ricercatore senza radici. Attraverso nobili richiami a precedenti storici si è affermata l’idea di un ricercatore mobile e girovago, pronto a cambiare sede periodicamente, inseguendo finanziamenti, tematiche, o anche la propria personale ambizione. Non si vuole qui certo negare che la ricerca possa e debba essere internazionale, né l’importanza dello scambio culturale tra istituzioni scientifiche di diversi paesi, da realizzarsi anche attraverso la mobilità dei ricercatori. Al contempo, però, va riconosciuto il diritto del ricercatore a non essere costretto a emigrare, a mantenere le proprie radici nel paese di origine, pur con ampie possibilità di trascorrere all’estero periodi di studio, consentendo la creazione di vere e proprie “scuole” in cui i più anziani insegnino ai più giovani, tramandando anche specificità locali relative al modo di rapportarsi alla ricerca. Va anche osservato come il meccanismo del ricercatore itinerante si traduce, per un paese di grande tradizione scientifica ma scarse risorse come il nostro, nella perdita di persone di grande valore, eventualmente bilanciata dall’attrazione di personale da paesi più tecnologicamente arretrati, con un bilancio netto di competenze negativo.
Alle questioni fin qui trattate, va aggiunto il problema di quella che, con un fuorviante neologismo, si potrebbe chiamare la governance del sistema della ricerca pubblica. Va osservato che è sempre esistita una disparità tra i ricercatori operanti in ambito universitario e quelli degli EPR. Infatti, l’università si caratterizza per un sistema di autogoverno, in cui il personale elegge le persone deputate al governo dei vari organismi, a cominciare dai rettori. Questa possibilità, per quanto attaccata da misure quali l’inserimento nei consigli di amministrazione di elementi rappresentativi dei poteri economici, e la trasformazione delle università stesse in fondazioni, costituisce tuttora un importante elemento di democrazia interna. Tale opportunità è invece negata ai ricercatori degli EPR, i cui superiori, a cominciare dai presidenti degli enti di ricerca, sono di nomina politica o selezionati con procedure “concorsuali” che celano dietro un velo di meritocrazia il rapporto fra poteri che conduce all’attribuzione delle cariche. In generale, i ricercatori degli EPR non godono della possibilità di autogovernarsi. A questo si coniuga il fatto che l’auspicabile mobilità orizzontale tra EPR e sistema universitario, che consentirebbe un salutare scambio di esperienze e di modalità di lavoro, da tempo sostenuta a parole, è di fatto negata. È peraltro paradossale che nei concorsi per lo sviluppo di carriera dei ricercatori degli EPR l’attività didattica sia positivamente valutata. Poiché l’attività didattica viene per lo più svolta presso le università, e la mobilità orizzontale verso di essa, anche per periodi limitati, è impossibile, si assiste al fenomeno di ricercatori che svolgono attività didattica a titolo gratuito pur di accumulare titoli per il proprio curriculum, contribuendo al problema del precariato universitario.
7. LE PROPOSTE DEL FSI
La strada intrapresa dalla disciplina della ricerca scientifica negli ultimi decenni e, soprattutto, dall’introduzione dell’ordinamento europeo in materia, appare in irrimediabile contrasto con il dettato costituzionale di cui agli articoli 9, 33 e 34. Il più nobile richiamo alla libertà della ricerca scientifica è completamente disatteso in ragione dell’assurdo principio concorrenziale proprio dell’ordinamento comunitario che ha condotto, in verità già antecedentemente all’entrata in vigore dello stesso e con evidenti responsabilità da parte di più generazioni della classe politica italiana, a una redistribuzione dei finanziamenti dai piccoli ai grandi centri di ricerca e università, alla sistematica precarizzazione delle figure dei ricercatori e all’asservimento della scienza a interessi estranei a quelli della comunità, e nazionale, e internazionale. Le proposte esposte di seguito rifiutano tale logica e si collocano all’interno del più ampio programma politico del FSI nelle sue linee generali riportate nel Documento di Analisi e Proposte e in quelle più specifiche riportate negli altri documenti programmatici.
- Il recesso dall’Unione europea comporterà ovviamente il recesso dalla partecipazione ai programmi quadro di ricerca europei su base competitiva, che per l’Italia sono una perdita secca di risorse, oltre ad avere una gestione poco trasparente, e a comportare giganteschi sprechi indotti dal meccanismo competitivo. Sarà tuttavia promossa la partecipazione a singoli progetti di rilevanza internazionale, ma sempre in veste di partner nazionale, come già peraltro avveniva prima dell’entrata in vigore dell’Unione europea.
- Le università ed enti di ricerca pubblici saranno accorpati sotto un unico Ministero dell’Università e Ricerca (MUR), mentre la scuola andrà sotto il controllo di un nuovo Ministero della Pubblica Istruzione, concordemente a quanto riportato nel documento programmatico sulla scuola. Per quanto riguarda gli enti di ricerca e le università private, quelli a maggioranza pubblica saranno riassorbiti come enti vigilati dal nuovo Ministero MUR, mentre gli altri enti saranno esclusi dai finanziamenti strutturali, ma avranno la possibilità di collaborare con gli enti pubblici di ricerca in progetti specifici esaminati di volta in volta.
- I finanziamenti strutturali saranno aumentati in maniera sostanziale al fine di consentire un pieno, equo ed efficace funzionamento del sistema pubblico della ricerca. L’aumento dei finanziamenti sarà accompagnato da un piano di assunzioni di ricercatori con cadenza regolare. Saranno eliminati i vincoli al turn-over legati alle condizioni di bilancio degli enti.
- Saranno aboliti i bandi competitivi per l’accesso ai finanziamenti. Il ricercatore dovrà avere libertà di decidere autonomamente le tematiche di ricerca, e ottenere fondi adeguati in modo strutturale e continuativo al loro perseguimento. Si potranno prevedere finanziamenti ad hoc per promuovere la costituzione di reti di ricercatori su temi specifici o intorno a progetti rilevanti, o per portare avanti tematiche di particolare interesse per il Paese.
- L’ANVUR dovrà essere abolita, rigettando in toto la concezione produttivistica della ricerca.
- La figura del “dottorando senza borsa” dovrà essere abolita. Il dottorato dovrà essere equiparato dal punto di vista retributivo e previdenziale a un contratto di lavoro subordinato. Sarà promossa la spendibilità del titolo di dottore di ricerca nelle amministrazioni pubbliche e nel privato.
- Le forme contrattuali ascrivibili al precariato dovranno essere abolite, iniziando con l’abolizione della riforma Gelmini. La forma contrattuale standard per i ricercatori pubblici afferenti sia a università che EPR sarà a tempo indeterminato. Il ruolo del ricercatore dovrà riottenere lo status giuridico ed economico stabilito per legge e fortemente voluto dai Costituenti, per garantirne l’indipendenza scientifica ed economica, senza contrattazione collettiva, in analogia a quanto già avviene per i docenti universitari. L’inserimento in ruolo dovrà avvenire dopo un periodo pre-ruolo di durata breve e limitata (da uno a tre anni) tipicamente da espletare dopo aver finito il dottorato, alla fine del quale si dovrà sostenere un severo esame di ingresso tramite concorso pubblico. Sarà fatto divieto di stipulare contratti precari oltre alla figura pre-ruolo di ricercatore e dottorato per enti pubblici di ricerca e università. Inoltre gli enti pubblici non potranno partecipare a consorzi, e qualunque altro tipo di rapporto misto pubblico-privato che utilizzi forme di contratto flessibile per il personale di ricerca. Sarà realizzato un meccanismo semplice di mobilità orizzontale, anche temporanea, fra università e i vari enti di ricerca pubblici, con meccanismi che consentano sotto opportune condizioni, anche una mobilità fra pubblico, servizi tecnici delle amministrazioni pubbliche, e settore privato.
- Verrà introdotta una forma contrattuale nazionale sottoposta a contrattazione collettiva per il personale di ricerca che lavori nel settore privato.
- Saranno garantite forme di autogoverno, con elezione di tutti gli organi decisionali di università ed enti pubblici di ricerca da parte dei ricercatori che operano in essi, con rappresentanza del personale tecnico-amministrativo.
- Sarà realizzato un programma di mobilità nazionale e internazionale o per ricercatori, agile e ben finanziato. Il ricercatore interessato dovrà semplicemente presentare un programma di attività e una lettera di invito dell’istituzione ospitante, senza scadenze temporali particolari, e al rientro una relazione sull’attività svolta. Il finanziamento sarà forfettario e calibrato sulla base del costo della vita del paese di destinazione.
- Verrà costituita un’agenzia nazionale per il trasferimento tecnologico che, in stretta collaborazione con il sistema delle imprese a partecipazione statale, si occupi di far incontrare le competenze presenti nella ricerca pubblica con le esigenze del mondo aziendale, fungendo da mediatore per la definizione delle modalità di tale trasferimento. Sarà promossa la collaborazione tra le università e i servizi tecnici della pubblica amministrazione, i quali potranno mettere a disposizione strutture per la ricerca alle quali le università non hanno accesso.
- Sarà istituito un database nazionale della ricerca scientifica ad accesso pubblico, dove saranno obbligatoriamente inserite tutte le pubblicazioni scientifiche attinenti a ricerche finanziate da fondi pubblici.
Davide Visigalli, Federico Monegaglia e Massimiliano Sist per “Fronte Sovranista Italiano”
Bibliografia
[1] Ricerca scientifica e tecnologica in Enciclopedia Treccani (http://www.treccani.it/enciclopedia/ricerca-scientifica-e-tecnologica_%28Enciclopedia-del-Novecento%29/)
[2] Il fascismo e la scienza, Roberto Maiocchi in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Scienze (2013) (http://www.treccani.it/enciclopedia/il-fascismo-e-la-scienza_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Scienze%29/)
[3] Il sistema della ricerca nell’Italia del Novecento. Aspetti politici e storico-istituzionali, Giovanni Paoloni (UniTus), 2003, in Atti del convegno «La ricerca scientifica in Italia»
[4] A trent’anni dal ’68. ‘Questione universitaria’ e ‘riforma universitaria’, Andrea Romano (UniMessina), (http://www.cisui.unibo.it/annali/02/testi/01Romano_frameset.htm)
[5] Sulla storia recente dell’università italiana: riforme, disagi e problemi aperti, Giuseppe Ricuperati (UniTo), (http://www.cisui.unibo.it/annali/05/testi/01Ricuperati_frameset.htm)
[6] Consiglio Nazionale delle Ricerche, Storia (www.cnr.it/sitocnr/IlCNR/Chisiamo/Storia/Storia.html)
[7] http://www.infodata.ilsole24ore.com/2015/04/14/se-potessi-avere-calcola-il-potere-dacquisto-in-lire-ed-euro-con-la-macchina-del-tempo/
[8] IRI in Enciclopedia Treccani, (www.treccani.it/enciclopedia/iri/)
[9] Archivio Storico IRI (www.archiviostoricoiri.it/index/pagina-80.html)
[10] L’Italia in camicia nera, I. Montanelli, BUR
[11] Proposta di Riforma del Sistema Bancario, Andrea Franceschelli e Lorenzo D’Onofrio – Fronte Sovranista Italiano (www.riconquistarelasovranita.it/il-progetto-e-il-programma-politico-del-fsi)
[12] Alcuni dati illustrativi dei mutamenti intervenuti nella struttura del gruppo Iri nel tempo, misurati a partire dalle variazioni della sua occupazione, Umberto Del Canuto, in Scritti in onore di Alberto Mortara, Milano, 1990.
[13] Trattato sul funzionamento dell’unione europea, 1957, 1965, 1986, 1992, 2001, 2007
[14] Leggi razziali e presenze ebraiche nella comunità scientifica italiana, Pietro Nastasi, 1994, in A. Di Meo (a cura di), Cultura ebraica e cultura scientifica in Italia, Roma, Editori Riuniti, pp. 103-155
[15] Il miracolo scippato: Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni sessanta, M. Pivato, 2011, Donzelli editore, Roma
[16] Ricerca scientifica, L. Bianco, 2001, il Libro dell’anno 2001, in Enciclopedia Treccani
[17] La politica della scienza nel secondo dopoguerra, Mauro Capocci e Gilberto Corbellini, 2013, in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Scienze (2013)
[18] CNEN in Enciclopedia Treccani, (http://www.treccani.it/enciclopedia/cnen/)
[19] Felice Ippolito, L. Lerro (a cura di)
[20] Mettere ordine nella politica nucleare, G. Saragat, 1963, Edizioni opere nuove, Roma
[21] Sentenza della Corte d’appello di Roma, 4 febbraio 1966
[22] LIGB, modello dimenticato, G. Corbellini, 2012, in IlSole24Ore
[23] Mattei, un complotto italiano, F. La Licata e G. Ruotolo, 2003, in La Stampa, Pavia
[24] Quando Mattei fondò Metanopoli, 2009, in Archivio Repubblica
[25] R. Meo, Macchine che calcolano, uomini che ricercano, 2009, in Disegnare progettare costruire – 150 anni di arte e scienza al Politecnico di Torino, Torino
[26] Volantino ciclostilato, segreterie provinciali milanesi di Fiom, Fim e Uilm (a cura di), 1964
[27] Ciò che è in gioco all’Olivetti, R. Lombardi, 1964 in Avanti!
[28] Scienza e Mezzogiorno dal secondo dopoguerra, L. Bianco, in Scienza & società – Novant’anni di CNR 1923-2013, (http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/lucio-bianco/scienza-e-mezzogiorno-dal-secondo-dopoguerra-oggi/maggio-2014)
[29] I principi dell’istruzione secondo i nostri Padri, D. Visigalli, 2016 (https://appelloalpopolo.it/?p=15481)’/§
[30] D. Visigalli, “I principi dell’istruzione secondo i nostri Padri (II)”, https://appelloalpopolo.it/?p=15481
[31] http://www.nascitacostituzione.it/02p1/02t2/033/index.htm
[32] http://www.anvur.org/attachments/article/1045/ANVUR_Rapporto_INTEGRALE_~.pdf
[33] https://www.istat.it/it/files/2015/12/11-Ricerca-innovazione-Bes2015.pdf
[34] Mariana Mazzucato, Lo Stato Innovatore, Laterza 2013 (qui per una breve sinossi https://appelloalpopolo.it/?p=14088)
[35] Freeman, Chris, 1995, The National System of Innovation in Historical Perspective, Cambridge journal of Economics, XIX 6.
[36] http://www.finnov-fp7.eu/sites/default/files/FINNOV_POSITION_PAPER_MAY_2010_3Percent_RD_0.pdf
[37] https://www.roars.it/online/perche-i-dottorati-di-ricerca-italiani-hanno-i-cicli/
[38] Francesco Sylos Labini, Rischio e Previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi. Editori Laterza 2016
[39] http://www.istruzione.it/allegati/2016/PNR_2015-2020.pdf
[40] http://www.lastampa.it/2013/11/10/economia/febbre-da-startup-si-rischia-la-bolla-otto-su-dieci-falliscono-in-tre-anni-1PAzov4i1MHwAOqauVm1oK/pagina.html
[41] https://it.wikipedia.org/wiki/Comunit%C3%A0_europea_dell%27energia_atomica
[42]http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX%3A31983Y0804%2801%29%3AFR%3AHTML
[44] http://ec.europa.eu/research/era/index_en.htm
[45] http://ec.europa.eu/research/era/eraprogress_en.htm
[46] http://www.esfri.eu/
[47] http://ec.europa.eu/euraxess/index.cfm/rights/europeanCharter
[48] http://ec.europa.eu/euraxess/index.cfm/rights/codeOfConduct
[49] http://ec.europa.eu/research/era/eraprogress_en.htm
[50] G. Sirilli, “Innovazione tecnologica”, http://www.treccani.it/enciclopedia/innovazione-tecnologica_(Enciclopedia-della-Scienza-e-della-Tecnica)/
[51] J. Khan, “The Role of Research and Development in Economic Growth: A Review”, Journal of Economics Bibliography, vol.2, issue 3, 2015.
[52] L. Blanco, “The Impact of Research and Development on Economic Growth and Productivity in the US States”, http://digitalcommons.pepperdine.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1047&context=sppworkingpapers
[53] D. Lemire, “Does academic research cause economic growth?”, https://lemire.me/blog/2013/02/26/does-academic-research-cause-economic-growth/
[54] F. Sylos-Labini, “Ricerca scientifica e rischio dell’investimento: perché lo Stato serve”, http://www.aspeninstitute.it/aspenia-online/article/ricerca-scientifica-e-rischio-dellinvestimento-perch%C3%A9-lo-stato-serve
[55] M. Mazzuccato, “Lo Stato Innovatore”, Laterza, 2014
[56] D. Visigalli, “Lo Stato sviluppista: l’innovazione e la crescita tra pubblico e privato”, https://appelloalpopolo.it/?p=14088
[57] http://www.roars.it/online/noi-disobbediamo/
[58] https://en.wikipedia.org/wiki/Publish_or_perish
[59] D. Fanelli, “Do Pressures to Publish Increase Scientists’ Bias? An Empirical Support from US States Data”, PLoS One. 2010; 5(4): e10271, https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2858206/
[60] V. Pinto, “Valutare e punire. Per una critica della cultura della valutazione”, Napoli, Cronopio, 2012
[61] L. Cicala, “Lo sviluppo delle professioni di ricerca negli “organismi di ricerca” ad ordinamento privato”, http://www.analysis-online.net/wp-content/uploads/2013/07/Organismi-di-Ricerca-Privati-DOC-ok-plus-plus.pdf
[62] https://it.wikipedia.org/wiki/Crowdfunding
[63] “Da Lorenzo il Magnifico a Kickstarter”, http://www.unipd.it/ilbo/lorenzo-magnifico-kickstarter
[65] La Mediocrazia, A. Denault, 2015, Neri Pozza I Colibrì
[66] Success rates in Horizon 2020 – funding for all or only a selected few?, Arno Meerman, 2016, (https://www.linkedin.com/pulse/success-rates-horizon-2020-funding-all-only-selected-few-arno-meerman)
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