Via della Seta, regionalismo differenziato e sovranità
di SIMONE GARILLI (FSI Mantova)
Riporto e commento l’estratto di un articolo pubblicato oggi anche su Repubblica, del direttore di Limes Lucio Caracciolo:
“Nella partita delle vie della seta, ingaggiata dai governi Renzi e Gentiloni e accelerata da Conte, l’Italia era e resta a caccia di soldi. Confitti nel nostro economicismo, che immagina le relazioni di potenza come un mercato (meglio, un suk), non ci siamo resi conto della posta in gioco. Questa investe le decisive dimensioni delle reti, delle nuove tecnologie, dell’intelligenza artificiale, oltre alla sfera militare. Ad esempio, se i cinesi provassero a installare dei centri di raccolta dati a Genova o a Trieste – ascelle italiane delle rotte mediterranee – gli americani lo impedirebbero. E ci darebbero una lezione a futura memoria. Anche attraverso le agenzie di rating (roba loro), che smetterebbero di edulcorare il giudizio sullo stato delle nostre finanze pubbliche. Da tutto questo, tre indicazioni. Primo. L’Italia ha urgente necessità di un centro strategico nazionale. Non possiamo più permettere che autorità locali, settoriali o addirittura singoli individui prendano impegni che riguardano la sicurezza dello Stato, spesso non rendendosene conto. Mentre il gioco fra potenze si fa duro, noi discutiamo di devolvere altre funzioni alle Regioni, immaginiamo città Stato (ne discettano persino i sindaci di Milano e Napoli), sogniamo regressioni preunitarie (riedizioni del Lombardo-Veneto e nostalgie borboniche). E chiacchieriamo di Europa come se esistesse. Siamo fuori rotta”.
Che dire? In poche righe Caracciolo condensa i nodi fondamentali della fase politica italiana. Le spinte disgregatrici che già dagli anni Ottanta interessano il Nord Italia, ed in particolare il versante orientale, sono affiorate negli ultimi mesi con i referendum consultivi in Veneto e Lombardia e con le pretese avanzate dalla stessa Emilia Romagna. Tre bozze di intesa molto pericolose per la continuità giuridica, economica e in prospettiva anche territoriale dello Stato. Di questo stiamo parlando. Una retorica decennale di stampo moralistico sull’inadeguatezza del Meridione sta arrivando al dunque, ed è necessaria una Resistenza in piena regola, parlamentare o, se insufficiente, direttamente popolare.
Il tutto si inserisce nel contesto unionista, cioè di una presunta comunità europea che come dice Caracciolo, semplicemente, “non esiste”. L’Unione Europea, progetto franco-americano per contenere la rediviva Germania, ha fallito clamorosamente consegnando a quest’ultima non solo predominio economico-commerciale, ma anche politico. L’Unione Europea è nient’altro che il terreno geopolitico sul quale Francia, Stati Uniti e Germania hanno deciso di confrontarsi a partire dagli anni Novanta. Lo Stato nazionale rimane, come noto ai sovranisti autentici, l’attore di gran lunga principale delle relazioni internazionali.
Ecco allora che il regionalismo differenziato in salsa leghista è la longa manus del nazionalismo regionale tedesco, il cui fine è assimilare definitivamente il Nord Italia nelle catene del valore della grande impresa esportatrice centrata sulla Baviera, disfandosi del Sud Italia. Dalla nostra prospettiva, accettare il regionalismo differenziato significa rinunciare allo Stato, niente di meno, cioè riconsegnare il popolo italiano al dominio straniero, vanificando oltre due secoli di costruzione dello Stato e della nazione italiana. In gioco non c’è solo l’economia, ma la democrazia per come si è configurata nella Prima Repubblica: statalismo, parlamentarismo, piena occupazione, mediazione del conflitto sociale. In breve, uno degli esperimenti più avanzati, nel mondo moderno, di social-democrazia.
Il sovranismo è una necessità storica ineludibile e non può che essere, in questa fase, frontista, perché esattamente come negli anni del fascismo in gioco c’è la sopravvivenza dello Stato e della nazione italiana.
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