di LUCIANO BARRA CARACCIOLO
“The majority of voters in Western countries are here!”
1. Non mi stancherò mai di ripetere che tutto il
battage, sulla crisi della costruzione europea e sul risultato “sconcertante”, costruito dai media intorno alle elezioni tedesche,
dipende dalconcetto cosmetico di “destra” che si è costruito per simmetria al (neo)concetto di sinistra ridotta alla promozione dei diritti cosmetici (
qui, p.2, infine): l’idea-guida è assuefare l’opinione di massa alla prevalenza di minoranze sezionali “deboli” per rendere accettabile la prevalenza della minoranza di classe timocratica, come fatto compatibile con “l’essere di sinistra”.
In ciò sta il capolavoro del controllo mediatico del neo-liberismo e della idraulicizzazione della democrazia liberale, fatta passare come evoluzione naturale delle democrazie sociali in virtù della “globalizzazione” (che è invece un fenomeno di pervicace istituzionalizzazione intenzionale condotta dalle stesse elites e nient’affatto naturalistico).
Ma proprio per questo, cioè per essere stata efficace ed efficiente nel rendere irrilevanti “i parlamenti” nazionali, e quindi il suffragio universale, ed
assorbire la sovranità degli Stati in un “buco nero” da cui non dovesse più riemergere (
v. qui, le ormai celebri parole di Amato), – proprio per costituire ciò la forma più efficace di restaurazione dell’ordine internazionale dei mercati, (cioè istituzioni sovranazionali fondate riduzionisticamente su: a) gold standard (ovvero valuta de-nazionalizzata con banca centrale indipendente “pura”; b) free-trade; c) flessibilità del mercato del lavoro)-,
questo successo lascia inevitabilmente sul campo di battaglia una quantità di vittime che, nell’ideologia neo-liberista dei vincitori, sono assunte come “
costi“.
2.1. E non a caso, la
massa degli immigrati chiamati a sostituire i mai nati, i suicidati e i pensionati (di cui accorciare opportunamente le aspettative di vita) sono denominati “risorse”: in effetti servono a ricostituire e possibilmente ad ampliare le fila dell’esercito industriale di riserva dei disoccupati e dei precarizzati, spingendo, attaverso una costante destabilizzazione sociale (che è il “costo” del successo, già messo in conto) verso la piena realizzazione del lavoro-merce (cioè della condizione di equilibrio teorizzata dai neo-ordo-liberisti come
“flessibilità” che consente di negare persino il verificarsi periodico delle crisi, viste come mere fasi di aggiustamento verso gradi più intensi di flessibilità, come postulato della mai abbandonata visione teocratica della Legge di Say).
3. Ora
i discorsi di Macron sulle riforme dei trattati, come pure
le svolte a destra della Merkel, sono perfettamente comprensibili nella loro
natura dialettica apparente (che Wolf spiega in modo lineare),
e di
mere sfumature tattiche ed auto-conservative, che sono adottate di fronte al “costo” della crescente impopolarità elettorale prima o poi conquistata da qualsiasi leader L€uropeista.
Queste posizioni pseudo-dialettiche, infatti,
rimangono saldamente ancorate dentro il pensiero unico delle elites che hanno re-istituzionalizzato l’ordine internazionale del mercato: di cui L€uropa costituisce il più imponente successo, in quanto realizzante tale obiettivo in una comunità di Stati in precedenza caratterizzata da elevati livelli di industrializzazione “matura”, di benessere relativamente diffuso e di connessa democrazia sociale
(qui, p.4).
4. Ribadiamo un passaggio di Wolf ,
dal post sopra linkato (p.9), che proprio perché scritto
a maggio, cioè ben prima delle elezioni tedesche, mostra come il “
cul de sac integrazionista” che si sarebbe creato ora
è pura fantasia (dei media italiani in particolare):
“La soluzione alle divergenze di competitività che propone la Germania (ndr; e che piace agli spaghetti-liberisti sopra ogni altra cosa e, aggiungiamo, valeva ieri come vale oggi essendo del tutto indifferente il risultato elettorale), è che ognuno segua il suo modello.
Nel 2016 tutti i membri dell’eurozona hanno così conseguito, eccetto la Francia, un surplus delle partite correnti (ndr; problemino non da poco…per Macron e la popolarità che ne ricaverebbe ove volesse accodarsi agli altri nel realizzare rapidamente, alla Monti, l’aggiustamento delle partite correnti).
Il saldo corrente complessivo dell’eurozona è passato da un deficit dell’1,2% nel 2008 ad un surplus del 3,4% nel 2016 (ndr; complice un dollaro forte che, però, dopo un transitorio effetto elettorale “Trump”, sta tornando sui suoi passi).“
…E dunque? Ecco:
“Se la Francia fosse indotta in una prolungata deflazione competitiva, Marine Le Pen diverrebbe presidente alla prossima tornata.
Macron deve chiedere ad Angela Merkel se la Germania sia disposta a rischiare questo risultato. Le “riforme” (ndr; del mercato del lavoro, beninteso) in Francia sono essenziali. E così lo sviluppo di istituzioni di condivisione del rischio (ndr; nella migliore delle ipotesi e al netto delle condizionalità giugulatorie volute dai tedeschi, da realizzarsi al più nel 2024, a “Macron” ormai giubilato).
Ma l’eurozona ha bisogno di un grande salto in avanti nelle retribuzioni dei tedeschi. Potrà accadere? Ho paura di NO (ndr; questa risposta logico-macroeconomica, cooperativa e anche democratico-sostanziale, non è più “praticabile” sol perché il malcontento sociale ha portato voti a AfD e…ai liberali).“
5. Sarà allora meglio rammentare in cosa consista, e sia sempre constistito, il capitalismotedesco e quale sia stato sempre, ed invariabilmente, il suo ruolo, promosso dai veri fondatori USA del federalismo L€uropeo, all’interno della costruzione.
Ma tre passaggi meritano di essere riportati perchè mostrano sia la omogeneità del capitalismo tedesco rispetto a quello USA, riguardo alla struttura dominante degli oligopoli internazionalizzati, sia la peculiare rigidità ed invarianza dell’ideologia politica (ordoliberista-corporativista) che lo sorregge e che è parsa alle elites USA il motivo per avallare il modello tedesco come elemento di stress trasformativo dell’intera Europa:
A) Complessivamente dal 1982 al 1989 (ndr; piena “era SME”) le eccedenze con l’estero non fecero che crescere fino a toccare quasi il 5% del prodotto interno lordo della RFT.
Questo costituiva il valore più alto nell’arco dell’intero decennio per l’insieme dei paesi dell’Ocse ad eccezione di alcune punte toccate dalla Svizzera. La composizione delle eccedenze mutò inoltre in favore dei redditi da investimenti esteri. Nel 1982 tale voce era nulla per cui il surplus con l’estero era dovuto interamente all’attivo commerciale.
Nel 1989 il valore degli introiti netti da investimenti esteri era intorno al 20% del valore dell’attivo commerciale.
Il fatto che l’aumento delle esportazioni nette in prodotti industriali venisse affiancato da un rapido incremento dei proventi netti dall’estero mostrava che la strategia tedesca di internazionalizzazione del capitale attraverso le esportazioni aveva successo. Le politiche messe in cantiere negli anni settanta poterono germogliare negli anni ottanta, nonostante l’ulteriore calo della crescita reale europea e mondiale.
Lo SME fu alla radice di questo successo.
Avendo ricompattato l’Europa sulla Germania nella fase alta del dollaro (1980-85), lo SME costituì un formidabile strumento per barricare il potere economico del capitale tedesco in Europa nella fase post-Plaza della svalutazione del dollaro. Dopo il 1985 le eccedenze europee con gli USA, compreso il surplus tedesco, si affievolirono assai rapidamente Complessivamente invece la crescita dell’attivo tedesco nei conti con l’estero continuò a crescere in assoluto ed in proporzione del reddito nazionale. Oltre il 60% del surplus della bilancia dei pagmenti corrente di Bonn proveniva dall’Europa, mentre nei confronti del Giappone la Germania soffriva di un deficit crescente. I profitti effettuati dal territorio tedesco nelle transazioni estere si realizzavano quindi principalmente in Europa.
Il contesto economico generale era però altamente stagnazionistico.
Dopo la grande espansione economica del 1968-73, dovuta soprattutto agli aumenti salariali,il tasso di crescita medio annuo europeo scese, nel periodo 1973-79, dal 4,9 al 2,5%. Quello della RFT passò dal 4,9 al 2,3%, cioè sotto la media europea.
Dal 1979 al 1990 il tasso europeo calò ulteriormente al 2,3% mentre il saggio di crescita tedesco toccava appena il 2%, aumentando lo scarto negativo rispetto alla media del Continente. Il basso tasso di crescita della RFT assieme alla posizione oligopolistica, protetta dallo SME, dell’apparato finanziario-industriale della Germania in Europa spiegano il ‘successo’ della strategia di accumulazione attraverso l’estero del capitale tedesco. La posizione globalmente oligopolistica della Germania è parzialmente deducibile, per il periodo 1979-90, dall’andamento medio positivo della ragioni di scambio. In altre parole, crescendo di meno ed esportando senza cedere sui prezzi la Germania strinse l’Europa in una morsa oligopolistico-stagnazionistica [3]. L’accumulazione stagnazionistica tedesca ottenne grande plauso in Europa.
La tecnocrazia francese esaltava il ‘modello renano’ contrapponendolo sia al capitalismo cartaceo anglo-americano sia all’inesitente radicalismo dei sindacati ufficiali tipo CGT. È comunque vero che in Germania i sindacati si adeguarono al ‘modello renano’ malgrado il paese esibisse un tasso di disoccupazione vicino al 7% benchè in moderato declino dal 1986. Il successo nel campo delle esportazioni contribuirono a convincere anche i sindacati che il ‘modello’ funzionava e bisognava quindi farlo durare.
Dei problemi che tale strategia creava se ne preoccuparono in pochi, tra i quali però va menzionato Romano Prodi che in un saggio del 1990 colse chiaramente la morsa deflattiva in cui Bonn avvinghiava l’Europa [4]. In ogni caso spinte a mutare il contesto delle cose non emergevano a meno che non si volesse prendere sul serio il piano Delors, una sorta di omogeneizzazione del capitalismo europeo in un’alleanza oligopolitica transnazionale gestita pariteticamente dalla burocrazia francese e dalle istituzioni tedesche. Il cambiamento avvenne perché crollò la parete orientale su cui poggiava il capitalismo tedesco in Europa.
Nota 4, che ci interessa da vicino: Romano Prodi, “The economic dimension of the new European balances”, Banca Nazionale del Lavoro Quarterly Review, no. 173, 1990
B) Nel capitalismo oligopolistico l’aumento dei margini di profitto non conduce necessariamente ad un maggiore investimento, può invece aggravare la stagnazione. Al tempo stesso le imprese sono sollecitate rafforzare ulteriormente i margini di profitto quando subentrano considerazioni di natura finanziaria legate al pagamento di dividendo e/o all’ottenimento di prestiti dai ‘mercati finanziari’. Ne consegue che la finanziarizzazione dei processi decisionali implica la trasformazione di attività in passività finanziarie future.
Per esempio se, come accade in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, una società si impegna comunque a pagare dei dividendi, l’emissione azionaria considerata come un attivo dal lato finanziario si trasforma in un esborso e quindi in passività. Se invece la società conserva la libertà effettiva di non distribuire dividendi, sottomettendo tale possibilità alla propria strategia di sviluppo, la traslazione di attività in passività non avviene automaticamente. Negli Stati Uniti il crescente ricorso ad istituzioni finanziarie extra bancarie obbliga vieppiù le imprese ad onorare l’impegno di erogare dividendi. Inoltre l’intercompenetrazione tra ‘mercati finanziari’ e fondi di investimento impone decisamente alle imprese di seguire una doppia linea che poco ha a che fare con l’investimento reale di lungo periodo. Da un lato esse devono garantire i pagamenti ai detentori di pacchetti di azioni, in larga parte in mano a società finanziarie.
Dall’altro lato le imprese devono assicurare che le azioni esibiscano valori tendenzialmente crescenti. La dinamica della capitalizzazione borsistica diventa così un elemento essenziale nella capacità di ottenere prestiti e di emettere strumenti di indebitamento come le obbligazioni. La consistenza del valore dei dividendi e delle azioni è valutata in termini reali, viene cioè paragonata all’andamento dell’inflazione e del saggio di interesse. In tal modo le imprese devono endogeneizzare il comportamento anti-inflazionistico.
Dati quindi i prezzi, vi è un solo modo per conseguire un saggio di rendimento monetario coerente con le valutazioni generate dai ‘mercati finanziari’: aumentare i margini di profitto.Proprio perché i prezzi sono dati, ciò implica la riduzione del costo del lavoro (salario) unitario.
In teoria la riduzione dei costi di produzione può effettuarsi tramite gli investimenti produttivi. Quest’ultimi però dipendono principalmente dalla domanda ed hanno perciò un orizzonte temporale molto diverso dall’immediatezza richiesta dai ‘mercati finanziari’. Ne consegue che la pressione principale viene esercitata sul salario stesso.
Quanto descritto corrisponde al comportamento dell’economia americana negli ultimi due decenni che ha comportato una crisi senza ritorno nel salario della grande massa dei lavoratori statunitensi [1]. Questo tipo di accumulazione finanziaria si risolve in un grande numero di persone allo sbando, anche se formalmente occupate, per le quali l’accesso ai servizi ed alle prestazioni pubbliche di natura sociale è vieppiù subordinato al principio dell’obbligo reciproco. Ancora alla fine degli anni ottanta la Germania era lontana anni-luce da questa visione della società, possibile solo in un’economia totalmente spanata, disarticolata ed autoritaria come quella americana. In Germania la stessa deflazione salariale era concepita in termini produttivistici: ristrutturare tecnologicamente – non finanziariamente – per aumentare la produttività rispetto al salario. Se i risultati erano positivi in termini di profitto i sindacati cercavano di far scattare la contrattazione aziendale che poi diventava un elemento nella contrattazione di categoria.
È su questa base che, nella sostanza, i sindacati hanno accettato la strategia neomercantilista varata dai socialdemocratici nel 1969 e continuata da Kohl nel 1983, le cui conseguenze stagnazionistiche e altamente negative in termini occupazionali per la Germania e l’insieme dell’Europa sono già state discusse. Una forza lavoro occupata allo sbando è inconcepibile in Germania, ma è proprio questo che Schroeder vuole sradicare dalla testa della popolazione.
C) …Innanzitutto la strategia lanciata da Schroeder nota come alleanza per l’occupazione si basa sull’idea che gli aumenti salariali sono un ostacolo al riassorbimento della disoccupazione. Ovviamente questa spiegazione, tra l’altro errata sul piano concettuale, non è che un pretesto.
Dal patto produttivistico orientato verso le esportazioni dei decenni settanta-ottanta, che comunque si è fondato su uno spostamento della distribuzione del reddito in favore del capitale e dei profitti senza tuttavia rilanciare il tasso di crescita reale, il governo social-verde di Schroeder è passato alla subordinazione dei sindacati ad una politica che pone le rendite azionarie – e quindi la valutazione proveniente dai mercati finanziari – al primo piano [3]. Inoltre e coerentemente con tale scelta, il Governo ha lanciato una riforma fiscale e dell’azionariato, la cui entrata in vigore è prevista quest’anno (2002), volta a facilitare le transazioni di pacchetti azionari e le stesse scalate ‘ostili’. Commentando tali misure l’International Herald Tribune ha giustamente osservato che esse aprivano la strada a radicali ristrutturazioni occupazionali destinate ad alterare profondamente il panorama sociale del paese e quindi dell’Europa. Infine la coalizione social-verde si sta battendo per spostare il sistema pensionistico verso i fondi di pensione proponendo finanziamenti pubblici agli schemi privatistici.
Data la natura altamente organizzata del capitalismo tedesco, i mutamenti vengono concepiti gradualmente.
Nel frattempo i socialdemocratici cercano di organizzare il consenso intorno alla chimera finanziaria. “Il principio è nuovo” ha dichiarato con approvazione Erich Standfest, specialista di politica sociale del sindacato confederale DGB, aggiungendo: ”il fondo permetterà di allargare le possibilità dei piazzamenti facendo in particolare maggiormente appello ai mercati borsistici” [4]. La chimera risiede nel fatto che si spera di accrescere il patrimonio pensionistico riducendo, al contempo, i contributi sociali erogati dalle aziende. Lo sgonfiamento della bolla di Wall Street e l’ulteriore aggravamento della stagnazione stanno riaprendo la contraddizioni inerenti a tali strategie. I socialdemocratici non cambieranno però strada per cui la soluzione vettoriale delle contraddizioni avverrà sul terreno sociale, o in termini di scontro oppure in termini di accettazione passiva. Per salvare la loro strategia privatistico finanziaria – che è poi quella del capitale nella sua totalità – i governanti di Bonn, ora trasferitisi a Berlino, cercheranno di rafforzare l’Euro come moneta della deflazione salariale e del potere della ricchezza astratta, ossia di quella finanziaria. Su questo terreno troveranno l’appoggio delle classi capitalistiche europee ma non necessariamente del capitale americano.(Ndr “non necessariamente”, sarebbe da precisare, con riguardo agli effetti, per gli stessi USA, del mercantilismo tedesco, ma, come comprovano i fatti, non certo rispetto alla potenza riplasmatrice della spinta tedesca rispetto ai paesi con le
“Costituzioni antifasciste”…)
Dal punto di vista del lavoro dipendente, cioè di classe, è assolutamente importante convincersi che con questi obiettivi non vi è nulla da spartire.
Bisogna quindi guardare alla creazione dell’Euro come un elemento delle strategie del capitale monopolistico europeo il quale lungi dall’essere omogeneo si esprime in maniera coerente solo nella lotta che conduce indefessamente contro il salario e la spesa pubblica produttiva e sociale.
Invece, purtroppo, la sinistra partitica italiana è corresponsabile dell’accettazione dell’ideologia metapolitica insista nei discorsi sull’ “Europa” e sull’ Euro. Questa ideologia disarticola ed indebolisce la resistenza e la capacità di autonomia politica delle classi e degli strati la cui vita dipende unicamente dai redditi da lavoro e dal funzionamento ed ampliamento dei servizi sociali pubblici.
Iscriviti al nostro canale Telegram
Commenti recenti