Celebrare oggi il primo maggio è quanto mai attuale. Pretendere il diritto al tempo di vita oltre il lavoro è attuale. Pretendere il diritto a migliori condizioni lavorative è attuale. E soprattutto indignarci per le morti di lavoro e sui luoghi di lavoro è quanto mai opportuno. I cittadini francesi ce lo stanno insegnando ancora una volta, anche se sulla loro nuova rivoluzione per affermare diritti sociali sacrosanti è calato un silenzio mediatico imbarazzante, onde evitare un effetto domino in un’Europa devastata dalla pandemia prima e dalla guerra dopo. Perché, al di là della narrazione istituzionale, noi siamo in guerra.
Guardando alla categoria che rappresento, di morti di lavoro ce ne sono stati. Più di 400 medici morti durante la pandemia, di cui la metà medici di medicina generale, molti anche amici. E’ vero che ci siamo trovati di fronte ad una situazione imprevedibile, ma è anche vero che eravamo totalmente impreparati per un piano pandemico non aggiornato, come è emerso dal rapporto di Francesco Zambon sulla gestione della prima ondata della pandemia da parte del governo italiano. In tale rapporto era sottolineato chiaramente, come evidenziato dal programma televisivo Report, che i primi a “cadere” sul campo sarebbero stati i medici di medicina generale perché sprovvisti di dispositivi di protezione individuali e di linee guida, nonostante essi rappresentino il front office dell’offerta sanitaria. Possiamo dire che si è trattato della “Cronaca di una morte annunciata”.
Dopo ci saremmo aspettati da parte del legislatore una sorta di protezione sociale per le famiglie dei colleghi deceduti. E’ stato riconosciuto un indennizzo una tantum per i familiari, appena 25.000 euro lordi elargiti e solo dopo molte sollecitazioni da parte delle associazioni di categoria. Sarebbe stato logico ed auspicabile estendere la protezione dell’infortunio sul lavoro da parte dell’Inail anche alla categoria dei medici di medicina generale convenzionati con il Ssn che attualmente ne sono sprovvisti.
Molti dei colleghi e colleghe deceduti per Covid erano l’unica fonte di sostegno per la famiglia, molti avevano figli in età scolare. Persone normali quindi, non certo eroi o, forse, eroi loro malgrado. I medici come i liquidatori di Chernobyl. Liquidatori che, al contrario di quello che molti credono, non erano inconsapevoli del rischio di morte, ma hanno semplicemente eseguito degli ordini che non potevano non eseguire. Di inconsapevole c’era solo il modo in cui avrebbero dovuto svolgere il loro lavoro. E sapevano che le loro famiglie sarebbero state ricompensate.
I medici hanno risposto al diktat delle loro coscienze e obbedito al proprio codice deontologico. Di ricompense non ne hanno pretese, ma se lo Stato si fosse fatto carico delle difficoltà delle loro famiglie sarebbe sicuramente stato un segno di civiltà.
E ora veniamo ai morti sui luoghi di lavoro. In Italia muoiono almeno tre persone al giorno. E’ dal 2008 che nel nostro paese non si investe più in prevenzione e in sicurezza sui luoghi di lavoro e i protocolli e i dispositivi utilizzati sono ormai obsoleti. La nostra Costituzione sta sempre più diventando carta straccia. L’Italia non è più una Repubblica fondata sul lavoro, come recita l’articolo 1 della nostra Carta, bensì una Repubblica fondata sul rischio, sullo sfruttamento, sui diritti sociali negati, come il bilancio delle morti sul lavoro testimonia.
E si muore non solo cadendo dalle impalcature o in fabbrica, si muore anche mentre si cerca, adempiendo al proprio dovere, di aiutare e curare le persone. È quello che è successo alle colleghe Roberta Zedda e Maria Monteduro un po’ di anni fa, uccise durante un turno di servizio di guardia medica. E’ quanto successo alla collega psichiatra Paola Labriola trafitta da un paziente con 70 coltellate. E oggi, mentre scrivo, un’altra collega, Barbara Capovani, a Pisa è deceduta dopo essere stata presa a sprangate in testa da un suo paziente con precedenti penali.
E Barbara, stimata professionista, madre di tre figli, è stata medico fino alla fine, disponendo la donazione dei propri organi. Perché essere medico significa credere nella vita fino all’ultimo respiro e, in questo caso, anche oltre.
Ed ecco che il tema della sicurezza sui luoghi di lavoro si intreccia con il tema della violenza nei confronti degli operatori sanitari; a farne le spese sono soprattutto le donne (i medici donna ormai rappresentano il 60% della professione) che subiscono, tra tanti tipi di violenza, anche violenza di genere: molte colleghe sono state abusate durante l’orario di lavoro. Si può immaginare di subire sul luogo di lavoro anche uno stupro? Impensabile.
La sicurezza di chi esercita la professione medica e sanitaria è diventata una questione nazionale, drammaticamente attuale, rappresentativa di una regressione sociale e culturale del nostro paese, figlia di un deterioramento delle reti di protezione sociale che lo Stato italiano non garantisce più ai propri cittadini. Prima tra tutte la possibilità di continuare a utilizzare un Servizio nazionale equo, accessibile e pubblico. Le cure non sono più garantite a tutti nel nostro paese e chi ne fa le spese sono i cittadini, ma anche gli operatori sanitari.
Il primo maggio dovrebbe essere una giornata di riflessione su questi temi posti, che chiaramente non riguardano solo la categoria medica ma tutti i lavoratori. Negli anni, invece, se n’è perso il significato. Ci si è spesi molto per difendere i diritti civili, importanti sicuramente, ma si sono svenduti i diritti sociali la cui conquista è costata milioni di morti. Annebbiati da concerti, inni e bandiere, non ricordiamo neanche più cosa festeggiamo e perché.
Il lavoro non può essere espropriazione della vita, il lavoro non può essere sinonimo di morte. E i diritti non si conquistano con i concerti in piazza, ma con le armi democratiche che la nostra Costituzione ci mette a disposizione: prima tra tutte lo sciopero. E i francesi insegnano.
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