La degenerazione del progressismo: intervista a Francesco Postorino
di OLTRE LA LINEA (Federico Bezzi intervista Francesco Posterino)
Nessuno è rimasto indifferente davanti allo sfregio dei simboli del passato unionista negli Stati Uniti, né davanti alle millantate ipotesi di sfregio dei monumenti risalenti al Ventennio italiano, ma questa tuttavia è la punta dell’iceberg. Un’ideologia, quella progressista, degenerata nel corso del secolo scorso -con un acme negli ultimi due decenni- da una parte in una politica di establishment dedita alla continuazione delle politiche imperialiste e alla cieca obbedienza ai dogmi del sovranazionalismo e del globalismo, dall’altra nella pratica postmodernista degli estremismi razziali, identitari, sessuali.
In questa intervista Francesco Postorino, giovane dottore in filosofia politica e morale con all’attivo già quattro pubblicazioni (“Carlo Antoni. Un filosofo liberista”, Rubbettino; “Democrazia in Lessico Crociano”, La scuola di Pitagora; “Bobbio et le marxisme”, Droit&Philosophie) ci offre una spiegazione del fenomeno dal punto di vista storico e filosofico, approfittandone per presentare la sua ultima opera, “Croce e l’ansia di un’altra città”, Mimesis Edizioni, un volume che verte sul legame fra liberalismo crociano e democrazia, tra filosofia e scienze empiriche, e più in generale fra il crocianesimo e la cultura politica azionista.
Int: Presentiamo innanzitutto la tua ultima opera, “Croce e l’ansia di un’altra città”, edito da Mimesis, con prefazione di Raimondo Cubeddu. Che cosa ritieni debba essere recuperato nella prassi politica del pensiero crociano?
FP: Croce ha insegnato al mondo che le fiabe in politica non vanno bene. Il sogno non ripulito da quel sano realismo che accomuna gli spiriti saggi e responsabili rischia di annullare la speranza di chi nuota nelle acque della sofferenza. Ciò significa che è importante adottare strumenti concreti, studiare nuove possibilità e impiegare mezzi innovativi per fronteggiare, in particolar modo, la bugia del potente. Il liberalismo crociano ha questo di positivo.
Int: E quali sono invece le parti «negative» del suo pensiero?
FP: Il realismo in politica è ineludibile, ma non può esaurire tutti gli spazi dell’agire pubblico. Il crocianesimo liberale, sulla scia hegeliana, ha contribuito a mortificare l’ideale elogiando ad oltranza la voce dell’immanenza. Temo che il suo storicismo assoluto abbia vinto e che sia stato ereditato da caporali del «machiavellismo» al servizio della storia vincente. Serve un’altra sensibilità.
Qui entra in gioco l’«ansia di un’altra città», che io interpreto come quel vivo desiderio di riagganciare l’a priori, quella regia che permetta di giustificare un intervento giusto o opportuno. È ansia di un altrove, di una terra lontana, della «permanenza» nel senso indicato da Carlo Michelstaedter. L’epoca della morte di dio, quella che stiamo vivendo, ospita l’agonia delle soggettività e ci lancia nel buio del fondamentalismo funzionale, ovvero in un’«unica città» nella quale affogano progetti di lungo periodo, biografie, destini, piccole comunità e narrazioni inedite.
Int: Quale influenza ebbe il Partito d’Azione sulla cultura politica italiana, e cosa è rimasto della sua eredità oggi?
FP: L’azionismo ha lasciato il segno nella cultura italiana del dopoguerra. Altrimenti non si spiegherebbe quell’accanimento revisionista che ha smontato la pretesa filosofica del socialismo liberale esploso negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso.
Si è parlato ad esempio di «gramsciazionismo» per etichettare quella fetta giacobina di intellettuali (da Gobetti a Gramsci) che intendeva correggere gli impulsi della plebe, porre l’accento sugli imperativi, celebrare l’antifascismo e depenalizzare l’indirizzo comunista con una lente altrettanto totalitaria. Vi sono motivi storici e politici che giustificano la scelta azionista. In questa sede, però, non voglio entrare nel merito. Mi preme ribadire che il nuovo azionismo non ha il coraggio, la rettitudine intellettuale e il rigore etico del precedente.
Int: In una recente intervista dichiari che «il nuovo liberal non ha nulla a che vedere con il suo capostipite. Il primo segue la moda del “si dice” e del “si fa”, ha subìto una mutazione antropologica e il suo cuore viaggia a destra». Cosa è cambiato nella sinistra nel corso del dopoguerra e in particolare dopo la caduta dell’Unione Sovietica?
FP: Non è una questione di strategia di partito, di evoluzioni o involuzioni di vario colore. È una questione di fede. Gli autorevoli interpreti della tradizione azionista (Calogero, Capitini, Rosselli, de Ruggiero ecc.) non hanno mai smesso di credere nel senso inesauribile della giustizia. La loro «ansia di un’altra città» si traduceva in una proficua tensione fra il cielo e la terra, la trascendenza e il tempo, i fatti e gli ideali, la cui scelta culturale si situava consapevolmente al confine tra un pigro livellamento e il liberismo fazioso.
Non si trattava di un vacuo compromesso. Il liberalsocialismo dal respiro azionista avvertiva il brivido laico della giustizia sociale e del liberalismo spirituale, incorniciando il valore del pluralismo democratico. Ripeto: gli azionisti di un tempo auspicavano, fra mille errori, l’ansia di un’altra città. I nipoti, invece, hanno ucciso dio perché hanno tradito il fondamento da cui muovevano i primi.
I nuovi azionisti, infatti, si sono ben accomodati nei salotti chic della buona cultura e firmano autografi, inventano manifesti in favore della «pace del mondo», amano il popolo soltanto nei manuali creati ad hoc dalle case editrici, danno del «poverino» all’uomo nero mentre fanno shopping raffinato. Del resto, con una mano sventolano la bandiera della fratellanza e con l’altra controllano il libretto degli assegni.
Il problema non è soltanto la Third Way di Tony Blair e le derive dalemiane di casa nostra, ma appunto l’atteggiamento postmoderno del liberal contemporaneo: un nichilista ligio al pensiero debole. Il vecchio azionista lottava, con mente sobria, in favore dell’umanità; il nuovo azionista ha compiuto un atto di «parricidio» svincolandosi crudelmente dal socialismo critico.
Int: Stati Uniti, Inghilterra, Spagna e Italia sono unite da un insolito destino: la preminenza culturale dei moderni “social justice warriors” intende fare piazza pulita dei -veri o presunti- simboli del razzismo e del colonialismo, con un ritardo di decenni se non di secoli: statue dei Confederati, monumenti ai colonizzatori, simboli del Ventennio. Da dove nasce l’idea che il passato debba essere interpretato con la morale del presente, invece di essere contestualizzato al proprio periodo storico?
FP: Il colonialismo bianco e le impronte razziste che si accavallano di continuo nel fiume impetuoso dell’Occidente sono fatti esistenti e deprecabili. Nondimeno, come ho scritto di recente sull’Espresso, mi annoiano le dispute anti-storiche su comunismo e fascismo. Ancora una volta, mi spiace una certa vena revisionista che uomini colti impiegano a volte per ricavi personali, ma insistere sul passato in modo così perverso cela un disagio intellettuale e morale.
Che un certo passato sia da biasimare è incontrovertibile, ed è sacrosanto fare tesoro dei buoni insegnamenti e soprattutto degli ottimi esempi, però il male è adesso! I partigiani, per ovvie ragioni, lottavano contro il fenomeno nazista, non contro gli invasori del settecento. Chi ha buona volontà dovrebbe contrastare le nuove ingiustizie.
Int: Anche il linguaggio ha subìto nei decenni passati diverse rivoluzioni, passando per il politicamente corretto e eliminando ogni forma di discorso che possa “offendere” la sensibilità di un gruppo o un’etnia; vediamo l’esempio delle università statunitensi, con forti contestazioni verso presunti interlocutori “razzisti” o “suprematisti”. Imporre limiti al linguaggio significa imporre limiti al pensiero o è legittimo in nome di una maggiore sensibilità verso le minoranze?
FP: Il problema del nuovo liberal è, come ho cercato di dire sin qui, la mala fede. A me non interessa del contenuto del linguaggio, quel che conta è il «prima». Mi spiego: prima del linguaggio, ogni uomo sceglie di provare empatia o fastidio progressivo per un altro essere umano. L’empatia non si risolve nel dire «uomo di colore», nel dare di sfuggita l’elemosina o nel raccogliere soldi per i terremotati magari in un concerto vip.
Chi prova empatia non ha tempo per il linguaggio soft, non si concentra sul bon ton o sulla dizione con tanto di «r» moscia, ma fa parlare direttamente il cuore o un’asciutta razionalità. Il nero, l’handicappato, il matto, il drogato, il gay sono miei fratelli, e se li reputo tali ho il diritto di scherzare con loro, di arrabbiarmi con loro, di amarli e odiarli esattamente come loro hanno il diritto di insultarmi, offendermi e amarmi, entro la dimensione dialogica che non ammette asimmetrie.
Altrimenti irrompe una freddezza non degna della promessa illuminista. La sinistra buonista esprime il dovere di pietà con animo ipocrita, naviga nel superfluo e non scende con afflato morale nel volto del «lui»; le destre scivolano in un realismo miope e sostituiscono il «politicamente corretto» con un «politicamente scorretto» non meno inquietante. Non voglio essere frainteso. Io sono di sinistra e mi definisco un liberal, però non condivido un pensiero liquido che strizza l’occhio alla sentenza di Nietzsche del Gott ist tot.
Int: Mai come oggi le minoranze etniche, religiose e sociali hanno il potere di influenzare la politica. I movimenti LGBT più estremisti propongono una narrazione che vede il genere come un costrutto sociale, la teoria per la quale noi nasciamo come “fogli bianchi” e veniamo plasmati fin dal primo respiro nei ruoli di genere. Fino a che punto si scontrano natura e cultura nelle differenze biologiche tra i sessi?
FP: Mi viene in mente una splendida frase dello scienziato Ilya Prigogine, secondo cui «la natura ha mille voci e solo ora abbiamo iniziato ad ascoltarla». La natura è un prodotto storico e «complesso», aggiunge il filosofo francese Edgar Morin. Natura e cultura camminano per mano. Comodo per l’impostazione reazionaria addormentarsi nel concetto ‘chiarissimo’ della natura e così sorvolare sulle «mille voci» che essa esprime. Il problema non sono le idee libertarie, ma chi c’è dietro.
L’odierno progressista, infatti, difende battaglie non realmente sentite, esaurisce il suo registro culturale nella sommatoria dei like che riempiono le bacheche del nulla. Le rivendicazioni di generevengono manovrate il più delle volte dal «si dice» di heideggeriana memoria o dal «così fan tutte». Molti, inoltre, credono di essere eredi del ’68. È una bestemmia.
Nell’epoca della contestazione, nonostante gli indiscutibili errori, l’ideale era al centro di ogni esperienza, l’a priori rinsaldava gli ingenui propositi, gli atei di allora credevano in un dio. I post-sessantottini protestano senza pathos, stringono il pugno nel ricordo di un mito e il loro ateismo nichilista uccide in radice il sentiero del possibile. La voglia di liberazione è nobile, peccato che nelle notti del duemila manchi la libertà dello spirito.
Int: Il processo trentennale di globalizzazione non pare avere annullato le identità nazionali, né imposto l’accettazione dell’ “homo migrantis” privo di radici etniche e sociali. A quale ideologia ritieni funzionale la creazione di un mondo privo di reali barriere fisiche e culturali?
FP: Non mi piace questa globalizzazione. Girano le merci, si espandono i mercati, signoreggiano le cifre e le quantificazioni, mentre i ragazzi, armati di lingua inglese e qualche goccia di ambizione, si muovono da nord a sud, da est a ovest con la valigia dell’angoscia. Per le merci è facile: non hanno un’anima; per gli uomini è diverso.
Il sogno kantiano del cosmopolitismo è pura barzelletta per i cuori rigidi dell’establishment, perché il diritto universale rientra nelle maglie del disinteressato, nello spazio sublime di una democrazia che sfiora i canoni dell’essenza e coinvolge il chiunque. Nella condizione contemporanea, dunque, non vi è spazio per il gratuito. L’universalizzazione di cui parlo non è compatibile con il progetto liberista guidato da esponenti in giacca e cravatta.
La globalizzazione vivente è un errore in quanto ti costringe ad amarla, non ti offre la possibilità di scegliere, non rievoca il diritto-dovere di un ritorno al silenzio, quel respiro che tutti noi abbiamo conosciuto, e che si scorge nei palazzi e nelle vetrine del tuo inverno. Lucia, nel suo Addio ai Monti, piangeva un divorzio doloroso e con occhi piegati salutava la calma di un paesaggio che non sarebbe stato più lo stesso; il Rocco di Luchino Visconti sperava di «tornare al Paese», solo che non accadrà.
Int: I movimenti di destra identitaria hanno occupato il vuoto lasciato dalla sinistra nelle classi popolari, spesso riprendendo vecchie tematiche dei partiti comunisti e avvicinando elettori che prima mai avrebbero pensato di avvicinarsi a tali partiti. Cosa ha spinto la sinistra a abbracciare le istanze della borghesia “illuminata”?
FP: Senza che mi ripeta, aggiungo che la nuova sinistra riformista volta le spalle al sudore proletario, quasi è infastidita dalla divisa sporca del lavoratore. Con lieve paradosso, riabilita l’ancien régime. Non è dentro il travaglio e le problematiche di un soggetto che sopravvive a stento. La sinistra borghese si sposa con se stessa e disprezza in fondo il métissage. Non sono sorpreso che il popolo guardi altrove.
Int: L’Occidente ha la legittimità di imporre e fare rispettare il concetto di «diritti umani», o sono «una falsa universalità ideologica, che nasconde e legittima la reale politica dell’imperialismo occidentale, gli interventi militari e il neocolonialismo», come sostiene Slavoj Žižek?
FP: L’imperialismo occidentale miete vittime. Non ci sono santi che guidano le truppe in nome dell’umanità. La storia insegna. Mi importa capire cos’è il «diritto umano», se sia giusto difenderlo a tutti i costi ed eventualmente «farlo conoscere» a chi lo ignora.
Vorrei, a tal proposito, riprendere l’immagine confusa dell’a priori, quel fondamento che sfida le regole del divenire, la tripartizione temporale (passato, presente, futuro) e persino la natura/cultura in perenne movimento. Il «diritto umano», a mio avviso, esiste ma non saprei definirlo. Anche perché solo il «diritto positivo» può essere investito da molteplici enunciati; il diritto umano, al contrario, anticipa la storia e si rivela la condizione trascendentale di ogni esperienza degna di essere vissuta.
Non si impone. Bisogna galleggiare in esso, ambientarsi nella verità del dialogo, dato che il diritto universale si accende quando l’«io» è stufo di giocare con lo specchietto dell’egoismo e decide di tuffarsi nei territori variopinti del «tu» fissando un rendez-vous speciale.
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