Tra Hobsbawm, astronauti e saggezza indigena: per una reintroduzione dell’antropologico nell’ecologico
di La Fionda (Elisa Moro)
Da poco l’IPCC (The Intergovernmental Panel on Climate Change) ha pubblicato il suo Report per il 2021 (1) (2), che senza sorpresa alcuna, continua a dipingere la condizione rispetto al cambiamento climatico come spaventosamente urgente e prospettando un futuro di difficile gestione per il mantenimento della vita. Siamo in una condizione talmente critica che che non si parla neanche più di reversione ma di “mitigazione” e “adattamento” alle temperature estreme che ci aspettano da qui ai prossimi anni, alla siccità, alla perdita di biodiversità, all’acidificazione degli oceani, alle inondazioni delle città costiere, alle piogge estreme e agli eventi estremi come uragani e incendi, alla difficoltà del mantenimento dei cicli agricoli, all’aumento delle disuguaglianze e dei migranti/rifugiati climatici.
Seppure ormai da decadi scienziati e ambientalisti -pensiamo al Club di Roma-, abbiano cercato di avvertire degli effetti e delle conseguenze dell’impatto del genere umano sul pianeta, di cui abbiamo visto chiaramente prova in questo ultimo anno, l’urgenza di un’azione concreta e condivisa sembra ancora un’utopia che continua ad essere resa dai governi una questione contrattabile e posticipabile. Come manifestano le preoccupazioni e le azioni di Extinction Rebellion rispetto all’inconcludenza dei G20: non c’è ancora un esplicito percorso deciso di misure condivise globalmente. Com’è possibile essere arrivati fin qui? Ma soprattutto stiamo andando nella giusta direzione anche a livello di discorso sociale e politico?
E’ incredibile da pensare ma se un capo indigeno -diciamo Toro Seduto-, Eric Hobsbawm (lo storico de “Il Secolo Breve”) e un astronauta siedessero allo stesso tavolo avrebbero molto di cui discutere e molto su cui essere d’accordo. Sembra l’inizio di una barzelletta vecchio stile, eppure non è così. In un modo o nell’altro tutti – per una saggezza antica e tramandata, per un’acuità di pensiero e analisi o per conseguente effetto di una missione spaziale – ci suggeriscono delle prospettive che possiamo far convergere artificialmente verso un punto: l’unica direzione sensata è quella di riconciliare l’antropologico con l’ecologico nel senso letterale di far riassorbire dall’ecologia il “discorso sull’uomo” (dal greco ἄνθρωπος ànthropos «uomo» e λόγος, lògos «discorso»). L’unica strada sensata da percorrere è quella di ristrutturazione ontologica che Bateson con la sua opera “Mente e Natura” del 1979 (3) aveva già tentato di tracciare. Solo così potremo smetterla con la retorica che ci vede alternativamente paladini o distruttori del pianeta e accorgerci che siamo tutt’uno con esso.
Ricordo di un giorno in cui ascoltai l’intervista di uno degli astronauti italiani in missione alla Stazione Spaziale Internazionale. Parlava del momento in cui, finalmente arrivato a destinazione, dopo aver concluso tutti gli iter tecnici di accertamento e controllo dei sistemi potè prendere tempo per osservare per la prima volta la Terra da quella immensa distanza. Rimasi estremamente colpita dalle sue parole che descrivevano di come emerse in lui, improvvisa, la sensazione di scomparsa dei confini geografici prima, della dissoluzione di quelli geopolitici poi e di come tutto si fece estremamente chiaro: eravamo figli e figlie della stessa Terra. Stare a guardare il mondo da così lontano faceva perdere di concezione e senso ogni confine, ogni guerra, ogni divisione. Non solo eravamo tutti abitanti dello stesso luogo ma eravamo un tutt’uno con il pianeta. Così come Rovelli nel suo saggio “L’Ordine del tempo” paragona con l’assurda sensazione di guardare un bicchiere d’acqua e ricordarsi di avere una visione miope che non può discriminare le particelle pulsanti che in realtà la compongono, saggiando come sola realtà percepibile un unico sistema: l’acqua.
“Vediamo l’acqua di un bicchiere come gli astronauti la Terra dalla luna: quieta lucentezza azzurra. Dell’esuberante agitarsi della vita sulla Terra, piante e animali, amori e disperazioni, non si vede nulla dalla luna. Solo la screziata biglia azzurra”
Da lontano, la visione delle interconnessioni e della fragilità di quella biglia azzurra, di cui siamo molecole tra tante, si fa più nitida e l’urgenza si palesa: la cosa più importante è cambiare il modo di concepirla e abitarla. Facendo una ricerca, questa sensazione di serendipity è particolarmente comune e diffusa tra gli astronauti, i quali riportano lo stesso tipo di esperienza. Uno studio recente (4) ha indagato proprio il cosiddetto “overview effect”, (letteralmente tradotto l’effetto di panoramica) esperito dagli astronauti e le conseguenze sull’atteggiamento ambientalista: vedere la Terra da lontano aumenta i sentimenti e comportamenti in tutela dell’ambiente.
Lo studio analizza i possibili meccanismi sottesi, ponendo grande enfasi sull’aumento della percezione della fragilità del pianeta, ma ciò che non è esplicitamente indagato è quello che riguarda il possibile cambio di prospettiva dell’essere umano rispetto a se stesso e alla sua posizione, ad un livello di ridefinizione sistemica e dunque ontologica.
Il problema della percezione rispetto all’ambientalismo è stato infatti probabilmente un problema di coordinate ontologiche. La dispercezione è derivata dal fatto di considerarlo consciamente o inconsciamente -in substrati della mente che si depositano attraverso i misteriosi meccanismi del linguaggio- un movimento con lo scopo di tutela, sì della Terra, ma di essa in quanto tutto ciò che non siamo noi. La Terra in quanto ecosistema, in quanto casa di piante e creature animali, Terra in quanto palcoscenico sul quale gli eventi si svolgono. Terra come contenitore che ci contiene, come struttura scissa da noi ma della quale dobbiamo preservare bellezza e risorse per noi. La visione ecologista contemporaneamente deturpata e privata del suo sguardo unificante è così ridotta ad essere riassorbita dal paradigma occidentale antropocentrico e conseguentemente dal suo utilitarismo gerarchico: Terra, serva che ci serve.
Senza dover compiere viaggi spaziali per poter avere questa visione -diretta- di interconnessione e unità, uno dei passi fondamentali riguarda la ristrutturazione di queste coordinate, apportando una riforma della narrazione di noi stessi e del mondo. Il punto di partenza che suggerisce Latouche (5)(6), economista noto per la sua teoria della decrescita o, preferita da lui “acrescita”, sta nella decolonizzazione del nostro immaginario, che è stato occupato capillarmente, in modo parassitario, dal linguaggio e dalla rappresentazione del mondo in funzione dell’economico. Ciò da cui dobbiamo depurare la nostra cultura però non è solamente -come suggerisce Latouche- il delirio di onnipotenza della crescita infinita e illimitata, ma anche dalla posizione allucinata da cui questo delirio è nato. Per farlo dobbiamo riscrivere una storia laica che ci riveda parte di un tutto e non (illusoriamente) al vertice di tutto.
In uno dei suoi interventi (7) fa ad esempio riferimento a come una differente narrazione sia esistita ed esiste ma sia completamente nascosta. Seppure apparentemente impercettibile nelle differenze, nasconde un potenziale rivoluzionario che cambia ad effetto domino tutto il resto
“Alcune società hanno vissuto senza economia. Non pensando che sono loro che producono il cibo, ma pensando che il cibo è prodotto da Madre Terra. Un rapporto con la Terra che è sacro. La Terra produce i suoi frutti: si parla dei frutti della Terra e non di frutti del lavoro.”
Lo step da compiere, necessario, sembra quindi riportarci alla saggezza indigena, al fatto di percepirsi come parte -e non proprietari- di un ecosistema che è divisibile e compartimentabile solo artificialmente. La sapienza della visione indigena si riassume nel non cadere nella trappola percettiva della separazione artefatta -noi da ciò che ci circonda- e si concretizza nella narrazione di una genealogia -noi generati dalla Madre Terra- che non rimane confinata a reminiscenze mitologiche o religiose ma si rigenera in un ciclo perpetuo esperibile nel presente delle pratiche. La connessione tra noi e la Terra infatti non viene relegata, seguendo una linearità temporale (tipica del pensiero occidentale), al solo punto di origine del genere umano ma viene concepita come una relazione che segue una circolarità di interconnessa e sensibile reciprocità.
Questa intelligenza non va approcciata superficialmente solo nella sua versione distillata, con il potenziale rischio di esserne attratti per “curiosità turistica” e annacquarla in qualche categoria New Age da cui la visione positivista e scientista occidentale sembra aver maturato una rafforzatissima allergia intellettuale e quanto più debita distanza. Come racconta Berkes nel suo libro “Sacred Ecology” (8) la visione di interconnessione e reciprocità delle popolazioni indigene si traduce in pratiche concrete che partono da un monitoraggio sensibile dell’intero ecosistema in cui si trovano e si evolvono in processi di azioni di continuo retrofeedback. Nel concreto, accumulano -con l’acuità che hanno sviluppato- informazioni sulle condizioni -metereologiche, di benessere e salute di piante e animali- dell’ecosistema che li circonda per poi muovercisi attraverso, nel reperimento di materie e risorse, in azioni che non ne turbano l’equilibrio ma lo mantengono o cercano di ristorarlo.
Per poterci riuscire, alla visione riduzionista e semplicista occidentale, che rintraccia in un numero limitato di variabili il modo di misurare il mondo, contrappongono una visione olistica e articolata, che tiene invece conto del sistema nella sua complessità.
“Gregory Bateson (Mente e Natura, 1979) ha osservato che “il continuum della natura è costantemente scomposto in un discontinuo di variabili nell’atto della descrizione”. La soluzione scientifica convenzionale è stata quella di quantificare alcune delle variabili, mentre la soluzione nella conoscenza indigena è stata quella di trovare modi per percepire il continuum della natura e lavorare con esso“.
Rispetto alla mentalizzazione di questo continuum, se ritorniamo alla questione della colonizzazione dell’immaginario e delle sue rappresentazioni linguistiche, una riflessione profonda potrebbe aggirare tutta attorno ad un unico termine: “iwfgara” -utilizzato dalla popolazione indigena dei Raramuri del Messico- per riferirsi alla “totale interconnessione e integrazione della vita, spirituale e fisica”, dimostrando la necessità di esprimere una rappresentazione mentale che considera un sistema complesso e inscindibile. (9)
Sembra farsi sempre più chiaro il fatto che il problema del controllo malsano delle risorse stia proprio nella nostra reificazione -l’assunzione di verità oggettiva- dei confini: quelli tra noi e il sistema a cui siamo interconnessi da un lato, e quelli dei perimetri istituzionalizzati di proprietà privata/nazionale dall’altra. Lo sguardo indigeno sul mondo quindi non è relegabile e distorcibile ad un approccio teneramente naïf e “sottocivilizzato”, come il colonialismo e le più violente pratiche di imposizione del sistema capitalista ha tentato -e continua a tentare- di dipingere con il fine di cancellare. Lo sguardo indigeno ha forse invece da sempre suggerito il più lungimirante degli sguardi politici.
Nella trascrizione della lezione di Hobsbawm “Identity Politics and the Left” (10) si ritrova qualcosa che è più che mai attuale e che affronta forse il tema del più grande problema delle sinistre occidentali: la perdita del progetto universalista e -secondo il suo punto di vista- della loro forza.
Quello che Hobsbawm rintraccia come problema essenziale è quello del contrasto, paradossale e apparentemente inconciliabile, che ha investito dagli anni ‘80 in poi i progetti politici delle sinistre: mentre si facevano portavoce delle cosiddette “identità politiche” delle minoranze, si dimenticavano di trovare terreno comune che le unisse. Detto più specificatamente quello che evidenzia è il problema della concezione dell’identità che, se reificato in una rappresentanza politica circoscritta a quella stessa identità, attua un pericoloso processo di rafforzamento dell’idea che l’identità sia statica e limitata ad un perimetro di caratteristiche determinanti.
“Gli uomini e le donne cercano gruppi a cui appartenere, certamente e per sempre, in
un mondo in cui tutto il resto si muove e si sposta, in cui nient’altro è certo. E lo trovano in un gruppo di identità”.
I rischi che rintraccia sono diversi, citandone due: il primo è che le identità collettive sono definite in realtà per contrasto e non per quanto c’è in comunione, unendo gruppi di persone per quell’unica faccia del prisma identitario che è diverso dal gruppo degli “altri”. In secondo luogo nonostante nella vita reale l’identità sia qualcosa di stratificato e intercambiabile, in una combinazione unica, l’”identity politics” assume che tra i vari livelli identitari di una persona, ce ne sia uno che è più politico degli altri.
Il problema che può sembrare solo retorico è in realtà concreto. Perchè se il progetto della sinistra è universalista dovrebbe riguardare gli esseri umani in quanto tali. Il problema di unire le minoranze senza riscrivere un terreno comune è di promuovere l’idea di essere uno spazio di rappresentanza dove esiste solo una somma di parti che però non riemerge in qualcosa di più di quella stessa somma. Questa criticità è quella che ad esempio hanno tentato di superare i movimenti ecofemministi, che evidenziano l’intersezione imprescindibile tra le varie identità. Nella sua lezione infatti Hobsbawn propone, anche se racchiusa in una sola linea (citata in apertura) che l’unico movimento politico che potrebbe essere il vero rappresentante del progetto universalista delle sinistre, sia quello degli ecologisti, in quanto trascende e trapassa ogni tipo di confine.
Siamo stati infatti protagonisti della schizofrenia del processo di globalizzazione che ha visto la globalizzazione delle merci e del commercio da un lato e la mancata globalizzazione di un’identità sovranazionale dall’altro. Il potenziale della globalizzazione – universalista- si è solo tradotto nella replica su larga scala di ciò che il capitalismo occidentale attuava in piccola scala.
Ma si può forse avere uno sguardo ottimista a riguardo, perchè la percezione sembra, analizzando attraverso una lente macrosistemica, che siamo nella fase dialettica della storia della reintegrazione delle parti in un sistema sovraordinato. Dopo l’emergere delle esigenze circoscritte a minoranze identificate in maniera “limitata” in ogni movimento, è sempre più chiara la difficoltà di esaurire le categorie umane, proprio forse nella direzione della consapevolezza dell’impossibilità di tale azione.
La direzione sensata sembra quella accennata in apertura, di riassorbimento delle categorie umane all’interno dell’ecologia, non per annullarle ma per rendere il corrispettivo politico speculare della realtà: siamo un ecosistema. Lo sguardo politico lungimirante del pensiero indigeno di cui parlavo sopra, mi sembra proprio nell’annullamento della percezione artefatta delle separazioni, tra noi e noi, e tra noi e il resto.
Come scriveva Guttari nelle Le Tre Ecologie:
“Le formazioni politiche e gli organi esecutivi sembrano totalmente incapaci di cogliere questa problematica nell’insieme delle sue implicazioni. Benché recentemente abbiano iniziato a prendere parzialmente coscienza dei pericoli più visibili che minacciano l’ambiente naturale delle nostre società, in genere si accontentano di affrontare il terreno delle nocività industriali, e ciò unicamente in una prospettiva tecnocratica, mentre soltanto un’articolazione etico-politica – che io chiamo ecosofia – fra i tre registri ecologici (quello dell’ambiente, quello dei rapporti sociali e quello della soggettività) sarebbe capace di far adeguata luce su questi problemi”
Ho cercato di tracciare in tre movimenti diversi e complementari il riassorbimento dell’antropologico da parte dell’ecologico. Il primo, quello di un processo puramente percettivo, dell’astronauta, di visione e coscienza dell’unità in cui siamo immersi. Il secondo, quello della saggezza indigena, che vede l’uomo come parte di un ciclo perpetuo di rigenerazione della materia, della quale non é padrone ma parte cooperante; ed infine quello politico di Hobsbawm, di riassorbimento di ogni identità politica a quella ecologica, come unica grande sovracategoria che contiene alla fine la nostra identità globale, che è quella ecologica.
- https://www.ipcc.ch/ar6-syr/
- https://ipccitalia.cmcc.it/messaggi-chiave-ar6-wg1/
- https://www.adelphi.it/libro/9788845905605
- https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0272494420300517
- https://www.youtube.com/watch?v=ocjWOB-FE6c
- https://www.bollatiboringhieri.it/libri/serge-latouche-linvenzione-delleconomia-9788833920450/
- https://www.youtube.com/watch?v=aJoDuyA_eyo
- https://www.taylorfrancis.com/books/mono/10.4324/9780203123843/sacred-ecology-fikret-berkes
- https://www.fws.gov/nativeamerican/pdf/tek-salmon-2000.pdf
- https://dgunay.yasar.edu.tr/wp-content/uploads/2015/02/hobsbawm_identitypolitics-and-left.pdf
(Un sentito ringraziamento va a Fabio Del Missier, docente appassionato ma soprattutto essere umano con il quale ho avuto brevi ma illuminanti confronti che hanno ispirato la stesura di questo articolo.)
Non vedere la geoingegneria. È da pazzi.un articolo che mn lo capisce. Viene imfiocchettato con tante parole