La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica (2a parte)
di SINISTRA IN RETE (Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi)
Relazione per il convegno LA CRISI GLOBALE. CONTRIBUTI ALLA CRITICA DELLA TEORIA E DELLA POLITICA ECONOMICA (Siena 26-27 Gennaio 2010)
Dalla crisi delle dot.com alla crisi dei subprime: la bolla immobiliare e la fase depressiva del risparmiatore
Il policy mix di inizio millennio vede il war Keynesianism tramutarsi in una forma riveduta e corretta di asset bubble driven Keynesianism(21). La bolla azionaria viene rimpiazzata da un’altra bolla, quella immobiliare, riproducendo in altra forma un meccanismo molto simile a quello della new economy. Mentre la bolla azionaria si nutriva anche di venture capital che finanziava un investimento reale in impianti, l’ascesa del prezzo delle case si scarica quasi integralmente in una impennata dell’indebitamento delle famiglie via mutui e via collaterale. Dopo la metà del 2003 la ripresa prende velocità, con il ritorno in piena forza del consumatore indebitato, che ora può trasformare la stessa ricontrattazione del mutuo in fonte di contante. L’indebitamento privato negli Stati Uniti è ora dovuto quasi integralmente alle famiglie, mentre le imprese non finanziarie sono creditrici nette. Una fase di ‘profitti senza investimenti’: l’investimento privato ha ripreso a crescere significativamente solo al tramonto della fase di crescita, trainato dai consumi.
Anche questa seconda bolla ha rischiato di venire alla conclusione molto presto. A partire dal 2004 la Federal Reserve fa salire progressivamente i tassi di interesse, e dal 2005-06 i prezzi delle case iniziano a cedere. Si misurano qui le contraddizioni della nuova politica monetaria. La fragilità delle bolle speculative che si succedono indica che la Banca Centrale va perdendo il controllo sulla propria politica monetaria. Lo stesso criterio dell’ inflation targeting diviene privo di significato. Di fatto, il controllo dell’inflazione dei salari e dei prezzi delle merci era divenuto strumentale ad una spinta all’inflazione dei prezzi delle attività finanziarie. Ma nella misura in cui la capital asset inflationstimolava una crescita trainata dai consumi, e questa a sua volta trascinava la produzione dei paesi emergenti, la pressione inflazionistica sui prezzi dei beni e servizi tendeva a riapparire: non in forza di un aumento dei salari ma per una crescita del prezzo delle materie prime, o per la possibilità per le imprese di gonfiare il grado di monopolio. Per contenere queste spinte all’inflazione dei prezzi delle merci si doveva allora premere per un ulteriore giro di vite nella deflazione salariale, a cui era funzionale il classico strumento dell’aumento del tasso di interesse. Ma questo rischiava di andare inibire il processo della capital asset inflation.
Un aumento del tasso di interesse tende infatti a rendere fragile il processo di indebitamento crescente su cui si basa l’inflazione dei prezzi delle attività-capitale, tanto più se il clima di fiducia ha indotto a finanziare a breve le posizioni a lunga(22). Ci si è cullati per qualche tempo nell’illusione che non fosse così. I prolungati boom azionario e immobiliare erano stati trainati dai guadagni in conto capitale. Di qui la speranza degli operatori che la crescita del costo del finanziamento potesse essere compensata dall’ulteriore apprezzamento speculativo dei valori delle attività. L’esplosione dei mutui subprime, e la conseguente inclusione delle famiglie povere alla finanza, è stato un tentativo per mantenere in vita la bolla immobiliare. Nel frattempo, le stesse autorità di politica economica continuavano a nutrire fiducia in un doppio miracolo. Il primo era che i nuovi strumenti finanziari sempre più complessi (‘cartolarizzazione’, ‘derivati’, ‘impacchettamenti’ etc.) riducessero il rischio, mentre si limitavano a diffonderlo e a renderlo più opaco. Il secondo era che grazie alla magia della finanza tossica fosse possibile indirizzare il risparmio dei paesi emergenti verso i paesi avanzati caratterizzati da disavanzi sistematici delle loro partite correnti.
Il doppio miracolo era in realtà un doppio imbroglio. Quando la crisi dell’estate 2007 è scoppiata essa non soltanto ha prodotto la transizione del risparmiatore dalla fase ‘maniacale’ a quella ‘depressiva’. Essa ha anche determinato il blocco delle relazioni di debito-credito tra operatori sui mercati bancari e finanziari, e ha mostrato come gli squilibri globali non solo permanevano ma trasmettevano velocemente la crisi da un angolo all’altro del pianeta.
La fantasia dello ‘sganciamento’ del resto del mondo dagli Stati Uniti si è rivelata una illusione. I grandi esportatori, tra cui la stessa Cina, non potevano non risentire del crollo del consumatore indebitato negli Usa. D’altra parte, per paesi come la Cina il drastico rallentamento della crescita è stato l’equivalente di un ‘atterraggio duro’. Altri paesi emergenti, come molti dell’America Latina, sono andati in crisi quando i capitali li hanno abbandonati, alla caccia della ‘sicurezza’. Così, di rimbalzo, l’Europa, privata dei mercati di sbocco esterni per il proprio neomercantilismo, non ha potuto che andare a picco assieme agli Stati Uniti.
Un neoliberismo molto poco liberista
Il modello di ‘nuovo’ capitalismo che si è descritto sinora è stato un modello di forte attivismo(23). Lo Stato, la politica, non si sono mai ritirati. Il neoliberismo è stato certo liberista contro il lavoro, contro il welfare, a favore della finanza. Non è stato affatto liberista su altri terreni. Ha tutelato i monopoli; ed ha praticato alla grande i disavanzi del bilancio pubblico, quando ciò è parso conveniente. Ha gestito la ridefinizione dei diritti di proprietà, e la privatizzazione dei beni comuni. Su queste questioni, nell’ultimo decennio, e a parte voci isolate, l’unica alternativa in campo è stata purtroppo costituita da quello che altrove abbiamo suggerito di chiamare il ‘social-liberismo’, che corrisponde a ciò che nei paesi anglosassoni viene definito ‘terza via’. Liberalizzazioni accoppiate a riregolamentazioni terrebbero sotto controllo le imperfezioni della concorrenza, mentre la compressione dei disavanzi pubblici libererebbe risorse per una crescita temperata dalla redistribuzione. Lo stesso social-liberismo ha finito con il pensare di poter cavalcare il capitalismo dei fondi pensione e le liberalizzazioni finanziarie.
In realtà, il social-liberismo è stato spiazzato dalla crisi ben più del neoliberismo. L’idea che la stabilità e la sostenibilità del ‘nuovo’ capitalismo potessero essere semplicisticamente delegate ad una maggiore e aggiornata ‘regolazione’ dei mercati non faceva i conti con le contraddizioni macroeconomiche e sociali che abbiamo sottolineato. Lo stesso si deve dire di quegli approcci critici che si sono in sostanza limitati ad avanzare richieste redistributive (sul piano salariale o di un reddito sganciato dal lavoro) o a favore di una politica fiscale più espansiva (p. es., la stabilizzazione del debito pubblico). Come se il meccanismo di produzione del plusvalore fosse nella sostanza stabile, o non risolvesse a suo modo il problema della realizzazione. Gli uni si illudevano sulla ‘dinamicità’ della nuova configurazione capitalistica, gli altri avevano una lettura ‘stagnazionistica’ cieca alle novità sul terreno della finanza e del lavoro.
E’ vero che il neoliberismo è stato sconfitto nell’ideologia da laisser faire che ha diffuso a piene mani nei decenni passati. E’ dunque vero che siamo in presenza di una crisi di legittimazione del ‘liberismo’. Ma, come abbiamo mostrato, il neoliberismo reale tutto è stato meno che liberista. L’ideologia proclamata non ha affatto corrisposto alle politiche economiche praticate prima della crisi. E ancor meno a quelle messe in campo durante la crisi.
Il fatto è che i neoliberisti hanno compreso – in ritardo, certo: ma prima di quasi tutti gli altri, e certo prima dei social-liberisti – che lo sviluppo ‘di bolla in bolla’ si stava tramutando in una crisi sistemica dispiegata. Hanno saputo a questo punto innovare nella loro azione anticiclica. Sono andati ben oltre la Banca Centrale come prestatore di ultima istanza sul terreno della politica monetaria: sino ad azzerare i tassi di interessi a breve, a prefigurare la regolazione degli stessi tassi di interesse a lunga, a procedere all’acquisto senza limiti di titoli di Stato. Si è passati dai salvataggi al finanziamento diretto delle banche di investimento; dall’acquisto di titoli tossici alla ricapitalizzazione garantita direttamente o indirettamente dall’operatore pubblico; dal fornire una assicurazione di ultima istanza e pressoché illimitata alla finanza al concentrare pressoché integralmente nella Banca Centrale il canale del credito. Non ci si è fermati lì. Di fronte all’urgenza della crisi, si è abbandonata ogni rigidità, sino a fare spazio al ritorno dell’intervento diretto dello Stato.
Siamo, di nuovo, tutti ‘keynesiani’, almeno in un certo senso. Non ci riferiamo solo alla rivalutazione della spesa statale in disavanzo e alla almeno temporanea indifferenza rispetto alla esplosione potenziale del debito pubblico. Ci riferiamo anche al fatto che, a fronte del rischio di un collasso generale, si è per lo meno iniziato a parlare di una sorta di vera e propria programmazione di un nuovo grande ciclo di investimenti. Più la crisi si è aggravata, più l’armamentario del vecchio New Deal è stato saccheggiato senza troppi problemi dai neoliberisti. La lezione della Grande Crisi, almeno in questo senso, è stata appresa, e forse addirittura superata. La Federal Reserve ormai agisce non solo come prestatore di ultima o di prima istanza, ma anche come market maker di emergenza e prestatore di unica istanza. Se però la possibile esplosione del debito pubblico non fa paura più di tanto, la si è già cominciata ad impiegare come argomento per comprimere la spesa pubblica sociale, per chiedere comportamenti ‘responsabili’ ai sindacati, per pretendere contropartite sulle pensioni o sulle garanzie sociali.
La terza crisi della teoria economica
In un articolo rimasto giustamente famoso, pubblicato agli inizi degli anni Settanta, Joan Robinson aveva sostenuto che la teoria economica del Novecento aveva attraversato due crisi(24). Le ragioni della prima, rimandavano alla Grande Crisi degli anni Trenta. L’argomento di Keynes contro la vecchia teoria ortodossa era fondato sulla tesi che la situazione normale di una economia capitalistica di libero mercato non fosse il pieno impiego ma un equilibrio con disoccupazione di lavoratori e macchine per insufficienza di domanda: effettiva situazione che non può che incancrenirsi se le imprese hanno successo nell’ottenere riduzioni di salario. La seconda crisi scoppiò invece, sostiene la Robinson, non esclusivamente sull’inconsistenza logica della teoria della distribuzione neoclassica. C’era dell’altro e di ben più rilevante, perché la crisi nella distribuzione degli anni Sessanta e Settanta esplodeva essenzialmente per l’inaccettabilità della composizione della produzione.
“La prima crisi – scriveva l’economista inglese – era nata dal crollo di una teoria che non era in grado di specificare il livello dell’occupazione. La seconda nasce da una teoria che non sa spiegare il contenuto dell’occupazione […] ora che siamo tutti d’accordo che la spesa pubblica può mantenere l’occupazione, dobbiamo discutere sulla destinazione della spesa”. Insomma, continuava sarcastica: “tutto il guaio nasce da una semplice distrazione: quando Keynes è entrato nell’ortodossia ci si è dimenticati di cambiare quesito, e discutere a che serve l’occupazione” (p. 111). Nel frattempo, “sono stati i cosiddetti `keynesiani’ a convincere uno dopo l’altro i presidenti degli Stati Uniti che non c’è niente di male in un disavanzo del bilancio, e a permettere che il complesso militare-industriale ne traesse vantaggio” (pp. 108-109). Era chiaro in quegli anni, e in fondo nel discorso stesso della Robinson, che la rimessa in discussione della distribuzione reddito e della composizione della produzione aveva a che vedere con la rinnovata forza del mondo del lavoro, conseguenza anche delle politiche di pieno impiego. Il capitalismo del Novecento stava in effetti vivendo una seconda crisi sistemica, la crisi del ‘fordismo'(25).
Gli inizi del nuovo secolo hanno visto riemergere, a partire dalla crisi dei subprime, lo spettro della Grande Crisi. La crisi sistemica si è per ora mutata in una Grande Recessione ma promette di essere uno spartiacque altrettanto significativo della crisi degli anni Trenta e della crisi degli anni Settanta, e di corrispondere ad una terza crisi della teoria economica. Le teorie economiche a disposizione non paiono infatti in grado di dare conto adeguato di come finanziarizzazione e precarizzazione si siano rinforzate l’un l’altra: prima destrutturando il mondo del lavoro, poi dando vita a un ‘nuovo’ capitalismo e ad una ‘nuova’ politica economica in grado di battere la tendenza stagnazionistica. In questo nuovo mondo, la nozione stessa di pieno impiego è stata ridefinita in modi tali da rendere letteralmente indicibile la messa in questione del ‘cosa’ e del ‘come’ produrre (ma sempre più anche del ‘quanto’). Dentro la nuova morfologia capitalistica è però risuscitata in altra forma l’instabilità finanziaria, degenerando al punto che i nuovi processi si sono alla fine rivelati insostenibili. La comprensione di questa realtà sfugge non soltanto agli approcci del mainstream ma anche alla variegata galassia degli approcci eterodossi(26). Né la risposta alla crisi può consistere nel far risorgere l’armamentario classico del keynesismo.
Per quel che riguarda il mainstream, un buon esempio della difficoltà di comprensione del capitalismo contemporaneo viene dai contributi recenti di Paul Krugman(27). Le sue proposte di politica economica per rispondere alla crisi possono apparire alquanto radicali, e si sono in effetti spinte sino a sostenere un massiccio intervento pubblico in disavanzo, e persino una nazionalizzazione del sistema bancario per un arco esteso di tempo. La Grande Recessione continua però ad essere per Krugman pur sempre una ‘eccezione’. La sua griglia teorica si colloca tra una ripresa qualificata della vecchia Sintesi Neoclassica e il moderno imperfezionismo. In questo modo resta del tutto fuori dal suo orizzonte l’intelligenza delle novità del capitalismo contemporaneo (come l’appiattimento della curva di Phillips, o l’orizzontalismo dell’offerta di moneta, o la capital asset inflation) come preliminari al nuovo ruolo attivo della politica monetaria dentro lo stesso neoliberismo.
Se ci volgiamo alle interpretazioni alternative, vediamo che esse resuscitano gli aspetti forse più obsoleti del keynesismo, del ricardismo e del marxismo. La lettura probabilmente più diffusa della crisi la riconduce ad una versione del sottoconsumismo(28). Si tratterebbe, in fondo, dell’inevitabile esito di un mondo di bassi salari. L’accento è qui sugli effetti sulla domanda del deterioramento della distribuzione del reddito a danno del mondo del lavoro in corso da alcuni decenni. In ambito marxista ortodosso si resuscita la caduta tendenziale del saggio del profitto. Nel primo caso, si riconduce la crisi di oggi agli anni Ottanta, nel secondo agli anni Sessanta. Tutto ciò non può spiegare in un colpo solo la bassa crescita dopo la controrivoluzione neoconservatrice di Thatcher e Reagan, il ‘nuovo’ capitalismo dei Novanta, il ritorno della instabilità finanziaria nel centro capitalistico dell’ultimo decennio, la crisi sistemica di oggi. E certo non tiene conto di quello che è stato nei fatti il neoliberismo. Occorre invece mobilitare una analisi che parta non dal sottoconsumo e dalla distribuzione ma dalla finanza e dalla produzione (non solo nella loro contraddittorietà, ma nella reciproca funzionalità). Una interpretazione unitaria che sia in grado di dar conto tanto della ascesa quanto del crollo del ‘nuovo’ capitalismo.
Magdoff e Sweezy: capitale monopolistico e indebitamento
Alcuni spunti possono venire da due eretici del marxismo e del keynesismo come Sweezy e come Minsky. Per Sweezy, in particolare nei suoi scritti con Magdoff degli anni Settanta e Ottanta sullaMonthly Review, il capitalismo americano era caratterizzato dalla stagnazione e dall’indebitamento, quest’ultimo era soprattutto indebitamento privato, e ciò tendeva a rendere le banche sempre più fragili(29). La catena causale va dal capitalismo monopolistico all’indebitamento. Il capitalismo degli oligopoli genera internamente una tendenza alla capacità inutilizzata, ed è proprio lo scarto tra domanda effettiva e potenziale produttivo a spingere il settore privato a sostenersi grazie a un debito crescente. L’espansione dei prestiti non era dovuta ad una espansione dell’economia ma alla riduzione dei tassi di crescita. Già nella seconda metà degli anni Settanta i due autori osservano come quei prestiti stessero divenendo uno strumento per fare denaro a mezzo di denaro. Si scommetteva sulla capacità futura di recuperare il capitale anticipato, anche se il finanziamento era più a breve termine rispetto all’investimento. Un altro fenomeno che Magdoff e Sweezy individuavano tempestivamente già all’inizio degli anni Ottanta era la crescita del rapporto tra indebitamento dei consumatori e reddito disponibile.
Per i due marxisti americani la tendenza sistematica alla stagnazione caratterizza l’economia statunitense dalla Grande Crisi in poi, ma è sempre stata controbattuta da delle controtendenze. La principale, dopo il New Deal, era stata costituita dal keynesismo militare e di guerra, che aveva esteso i suoi effetti non soltanto al Giappone e all’Est asiatico ma anche all’Europa attraverso la mediazione del piano Marshall e della NATO. E’ convinzione dei due autori che dagli anni Sessanta e Settanta in poi la controtendenza principale (e meno compresa dall’analisi economica) stesse divenendo un’altra, cioè proprio l’estensione della struttura debitoria e finanziaria, con una dinamica esplosiva di crescita di gran lunga superiore a quella dell’economia reale. Forse anche per questo, Magdoff e Sweezy, pur critici dell’orientamento keynesiano, hanno mostrato da subito interesse alla riflessione di Hyman Minsky.
Hyman Minsky: l’ipotesi della instabilità finanziaria
Per Minsky il capitalismo tende a far degenerare la stabilità in instabilità(30). Quando la prosperità va avanti da un po’ di tempo, le posizioni degli operatori da coperte si fanno più coraggiose, e divengono speculative. Al rischio economico si affianca così il rischio finanziario, che può concretizzarsi nell’aumento dei tassi di interesse o nella riduzione dei prezzi delle attività. Quando il boom degenera in bolla e l’euforia diviene irrazionale, si intrattengono posizioni ultraspeculative e ci si indebita nella speranza di guadagni eccezionali (aumento del corso delle azioni, rivalutazioni degli immobili, ecc.) che soli possono giustificare l’investimento. Quando la crisi scoppia l’alternativa è secca: o deflazione da debiti, che dà vita ad una Grande Crisi come nel 1929-1933, o intervento della Banca Centrale come prestatore di ultima istanza, affiancato da un intervento di spesa pubblica in disavanzo che sostiene i profitti monetari.
Nell’impostazione originale di Minsky le variabili chiave sono la domanda di investimenti privati in capitale fisso e il suo finanziamento da parte di banche e intermediari finanziari. Qui iniziano i problemi(31). Se dal punto di vista della singola impresa l’investimento può richiedere un indebitamento crescente, l’investimento aggregato darà luogo a profitti corrispondenti. Non è affatto detto, dunque, che il leverage del settore delle imprese non finanziarie aumenti. È questo un punto che discende dall’insegnamento di Kalecki, autore che lo stesso Minsky include nelle sue riflessioni nel corso degli anni Settanta, quando il suo schema di ragionamento è ormai definito. Si potrebbe essere tentati di replicare rilevando come l’indebitamento sia effettivamente esploso con la finanziarizzazione degli ultimi decenni. Abbiamo però osservato che questo indebitamento è stato soprattutto delle famiglie e delle imprese finanziarie, non delle imprese ‘produttive’. E’ questo un punto su cui Sweezy e Magdoff sono stati probabilmente più preveggenti di Minsky, anche se le riflessioni di quest’ultimo sul money manager capitalism e sulla securitisation sono tasselli importanti della comprensione della nuova realtà(32). A ciò si deve aggiungere che la stessa capital asset inflation tipica del capitalismo dei fondi è stata per lungo tempo un elemento stabilizzante della posizione debitoria delle imprese non finanziarie. Lo stesso ‘nuovo’ capitalismo ha visto mutare radicalmente la natura della banca, svanire la tendenza alla stagflazione per la pressione dei salari, emergere un ruolo attivo della politica monetaria nella gestione della domanda.
Siamo in un mondo che non comprenderemmo senza Minsky, ma che è ormai oltre Minsky(33). Così come l’intreccio tra indebitamento e politica economica, tra finanza e valorizzazione del capitale, va oltre l’approccio originario di Magdoff e Sweezy.
La necessità di una diversa politica economica
La riflessione di Minsky si rivela ancora attuale in un aspetto che non è molto ripreso nella recente ripresa di interesse suoi suoi scritti. Ci riferiamo alla necessità di un intervento pubblico che vada ben oltre il keynesismo della spesa pubblica in disavanzo o la Banca Centrale come prestatore di ultima istanza(34). Se queste misure sono opportune come risposta immediata alla crisi, esse sono del tutto inadeguate a definire un modello di economia più equa e meno instabile. Era questa l’opinione di Minsky già al tempo della seconda crisi della teoria economica, quando la stagflazione era per lui il costo delle misure prese per evitare la deflazione da debiti. E’ questa una conclusione da confermare al tempo della terza crisi della teoria economica.
La politica monetaria di fornitura illimitata di liquidità a bassi tassi di interesse non è oggi sufficiente per almeno due ragioni. Perché nelle fasi di grave crisi può determinarsi una trappola della liquidità. E perché la scommessa moneta oggi – moneta domani non è sostenibile fuori dal riprodursi artificioso di una persistente spinta ultraspeculativa. Lo si vede nella doppia velocità che caratterizza l’economia attuale: mentre il settore finanziario è in vigorosa ripresa grazie ai salvataggi orchestrati da Summers, Geithner e Bernanke, l’economia reale è sostanzialmente piatta. Il meccanismo trainato dalle bolle pare insomma al capolinea. In questa situazione l’inevitabile ristrutturazione nei processi capitalistici di lavoro determina aumenti di produttività (maggiore intensità e maggiore forza produttiva del lavoro) che si scaricano in una riduzione dell’occupazione. E’ proprio l’accoppiata di deflazione salariale e espulsione di lavoratori dalla produzione a poter essere all’origine di un ritorno della depressione. D’altra parte la politica fiscale che si dovrebbe mettere in campo non può limitarsi a una politica di disavanzi di bilancio sic et simpliciter, come il caso giapponese conferma. Si richiederebbe non una politica di generico sostegno della domanda, ma un intervento massiccio nella quantità e mirato nella qualità. Che è quanto in effetti sosteneva Minsky.
Minsky è in questo erede della parte migliore del New Deal. La sfida è quella di integrare ripresa della domanda e riforma strutturale: nazionalizzazione della banca e della finanza, da un lato, spesa diretta dello Stato in grado di attivare nuovi processi di lavoro, dall’altro, come elementi permanenti e non temporanei. La socializzazione degli investimenti si prolunga in una socializzazione dell’occupazione. L’una e l’altra presuppongono oggi una socializzazione della moneta e della finanza(35). Investimenti pubblici che migliorino la produttività del sistema, nel lungo orizzonte temporale che solo lo Stato può intrattenere. Un piano del lavoro con lo Stato che direttamente si fa garante di una piena occupazione, stabile e di qualità. Banche e finanza ricondotte a public utilities. L’indirizzo concreto della spesa pubblica e dell’occupazione contano, così come conta il comando sul denaro. Non mancano certo gli obiettivi che potrebbero dare corpo ad un intervento statale di questo tipo: dalle infrastrutture alla riqualificazione ambientale, dalla mobilità e i trasporti all’energia, dalla salute alla educazione, dai servizi pubblici alla assistenza agli anziani; e si potrebbe continuare. Un keynesismo ‘strutturale’, se si vuole, che non separa intervento sulla domanda e intervento sull’offerta, e che riporterebbe la discussione alle questioni sollevate dalla Robinson.
Dopo il ciclo neoliberista si può dubitare però che ci si possa ancora cullare nella illusione – che è stata tipica della sinistra keynesiana ieri, e del postkeynesismo oggi – che si tratti di una questione di politica economica, e non invece di una questione politica tout court. Una questione, per di più, che non può essere pensata come separata dalle condizioni in cui versa il lavoro, non solo nella distribuzione ma nella stessa produzione diretta. Non si capisce la crisi, e non se ne esce, se l’oggetto d’analisi non è il capitale come rapporto sociale di produzione, nelle sue trasformazioni. Se, dunque, la scienza economica non torna ad essere, in senso pieno, una teoria critica. E se l’immaginazione programmatica non nasce e cresce in rapporto organico con i movimenti sociali di contestazione dell’ordine presente delle cose.
Note
1 Il ragionamento svolto nelle pagine che seguono riprende l’analisi del ‘nuovo’ capitalismo e l’interpretazione della crisi finanziaria che abbiamo svolto nel 2005 e nel 2007 in due convegni di “Rive Gauche”, alquanto ‘disallineati’ – come ci fu debitamente rimproverato – da quella che era la posizione dei promotori di quelle iniziative: cfr., negli Atti delle due iniziative pubblicati dalla manifestolibri, rispettivamente Bellofiore-Halevi 2006 e Bellofiore-Halevi 2008 (in inglese, cfr. Bellofiore-Halevi 2010a, 2010b). Si tratta peraltro di una lettura che, per la forza delle cose, è diventata pressoché senso comune a partire dalla fine del 2008, come testimoniano numerosi interventi sulla stampa quotidiana e sui periodici della sinistra radicale. Nel nostro caso, essa affonda le sue radici nella lettura critica della new economy che in modo parallelo abbiamo condotto sulla “rivista del manifesto” tra il 1999 e il 2004, e in una fondazione teorica che ci vede da sempre distanti non soltanto dal neoliberismo e dal social-liberismo, ma anche dal neoricardismo e dal keynesismo per come è stato recepito in Italia. In questa e nelle note che seguono faremo prevalentemente riferimento a nostri contributi in cui il lettore interessato può trovare un approfondimento delle questioni qui trattate, e dove si può reperire la relativa bibliografia.
2 Nell’esposizione sintetica che segue riprendiamo ed espandiamo formulazioni che si trovano anche in Bellofiore 2009a e 2009b. Vedi anche Bellofiore 2008a.
3 Cfr., rispettivamente, Minsky 1993, Aglietta 1998, 2001, Bellofiore 2000b. Per una introduzione al pensiero di Minsky e per una sua attualizzazione, cfr. Bellofiore 2009c, e per una critica ad Aglietta cfr. Bellofiore 2002. Aglietta 2001 è la traduzione della postfazione alla terza edizione francese (1997) di Régulation et crises du capitalisme. Opera, si deve dire, ben più interessante nella sua prima edizione del 1976, che aveva un taglio marxista già attenuato dalla introduzione alla seconda edizione del 1982, inizio della attuale transizione ad una posizione social-liberista. Solo recentemente Aglietta pare aver parzialmente riconosciuto la instabilità radicale e irrimediabile che affligge il ‘nuovo’ capitalismo. E’ questo un limite ricorrente della riflessione dell’economista francese. Basti ricordare le sistematiche e non casuali smentite che hanno avuto le sue posizioni del 1990 sulla globalizzazione del mercato dei capitali, o del 1996 sulla cartolarizzazione; o si ricordi ancora il suo giudizio su Alan Greenspan al termine del suo mandato. Uno sguardo ben più lucido è stato quello del suo coautore André Orlèan, già prima della crisi delle dot.com: cfr. Orléan 1998. In Italia un economista che tempestivamente ha visto la connessione tra ‘economia della borsa’ e nuova politica monetaria è stato Nardozzi 2002. Questo autore ha però sottostimato la instabilità del modello, e l’insostenibilità alla lunga del money manager capitalism (cfr. Bellofiore 2003). Un’altra analisi interessante, anch’essa di taglio social-liberista (e teoricamente debitrice del versante ‘imperfezionista’ del mainstream), è stata quella di Marcello Messori. Essa è rimasta però intrappolata in una visione irenica del capitalismo dei fondi pensione, ed è stata parimenti cieca sulle contraddizioni di fondo del nuovo capitalismo. Si veda come il tempo ha fatto giustizia delle analisi economiche e delle proposte di politica economica della Fondazione Di Vittorio, per la quale Messori ha diretto la sezione Scienze Sociali. Si vedano i volumi pubblicati dal Mulino. Per una sintesi cfr. Costa-Messori 2005.
4 Per un approfondimento, vedi Bellofiore 2008b.
5 Cfr. p. es. Garibaldo 2008.
6 Non possiamo sviluppare qui questo argomento, peraltro centrale. Vedi i saggi raccolti in Vertova 2006, 2009.
7 Anche quest’altro tema meriterebbe di essere approfondito. Vedi recentemente il bel saggio di Gambino-Sacchetto 2009.
8 E’ un punto su cui insiste da vari anni, in modo originale, e con ragione, Massimiliano Tomba. Si veda p. es. il saggio incluso in Sacchetto-Tomba 2009.
9 Si veda l’introduzione della curatrice a Vertova 2009.
10 Cfr. in particolare Toporowski 2000, 2009. Per un altro nostro lavoro dove incrociamo la nostra lettura con quella di Toporowski si veda Bellofiore-Halevi 2010c.
11 Il punto era già stato di fatto chiarito, sia pure telegraficamente, da Graziani 2004, p. @@@. Una esposizione dettagliata del circuito monetario nel ‘nuovo’ capitalismo della sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito si trova in Seccareccia 2009.
12 Su questo punto insiste da qualche tempo, con ragione, Marc Lavoie. Vedi p. es. Lavoie 2009.
13 Si veda per una analisi spesso illuminante De Cecco 2007.
14 Cfr. Bellofiore-Halevi 2006b, 2007.
15 Cfr. Halevi 2005.
16 Cfr. Warren 2007.
17 Vedi Sacchetto-Tomba 2009.
18 Il riferimento è alla riflessione di David Harvey. Cfr. p. es. Harvey 2003.
19 Una analisi preveggente di quel che stava per avvenire in Godley 1999. Cfr. anche Bellofiore 2000a. I successivi rapporti di Godley per il Levy Institute hanno proseguito l’analisi sino alla crisi dei subprime e oltre.
20 Cfr. Bernanke 2005.
21 Robert Brenner è un altro autore che parla di uno stock market keynesianism. Vedi Brenner 2009.
22 Si tratta di un punto che può essere ricondotto ad una ricostruzione analiticamente aggiornata della originaria posizione di Hyman Minsky: cfr. Passarella 2010.
23 Che l’epoca del neoliberismo sia stata per molti versi una fase di riregolazione della finanza, e non di pura e semplice deregolamentazione, è affermato con forza, e del tutto a ragione, da Leo Panitch e dai ricercatori a lui associati. Vedi da ultimo Panitch-Konings 2009. La stessa lezione si ricava dalle analisi di Marcello De Cecco.
24 Cfr. Robinson 1975 (comparso in originale nel 1972).
25 Si tratta di una crisi che, tra le sue molte ragioni, vede in posizione preminente il conflitto sull’estrazione di lavoro vivo (cfr. Bellofiore 2001). Abbiamo qui un richiamo forte al nucleo della teoria marxiana del valore, in quanto inseparabile da una visione pienamente sociale e non meccanicistica della crisi economica. Non possiamo dilungarci in questa sede sulla questione, e ci limitiamo alle poche considerazioni che seguono. La differenza specifica della merce forza-lavoro è di essere ‘appiccicata’ al corpo del lavoratore (e della lavoratrice). Mentre gli altri venditori di merci possono disinteressarsi del destino del valore d’uso che hanno venduto, così non è evidentemente per i lavoratori. I capitalisti hanno la necessità di garantirsi la quantità e qualità di lavoro in un momento successivo alla compravendita sul mercato del lavoro: un conflitto (e talora un antagonismo) che può potenzialmente sempre rinnovarsi. Abbiamo qui a che fare con una ‘contraddizione’ dovuta alla circostanza particolare per cui la prestazione di lavoro – anche dopo che la capacità di lavoro è stata alienata al capitale, che ha di conseguenza pieno diritto di usarla – rimane pur sempre una attività del lavoratore, che può cooperare o resistere. Il lettore dovrebbe intuire come questa riconduzione della crisi capitalistica alla ‘lotta di classe nella produzione’ (una riconduzione che nelle diverse circostanze storiche va sempre svolta tenendo conto delle molte mediazioni) si combina strettamente alle ragioni della ‘crisi’ di cui parla la Robinson nel 1972. In entrambi i casi si tratta in effetti di articolare un primato del valore d’uso versus il primato del valore di scambio: le questioni sollevate dall’economista inglese non sono affatto separate dal conflitto sociale che iniziò ad imporle. Come si cerca di mostrare nel testo, la risposta di parte capitalistica alla crisi sistemica degli anni Settanta incise su entrambi i fronti. La ‘centralizzazione senza concentrazione’ e la ‘sussunzione reale del lavoro alla finanza’ tipiche del money manager capitalism hanno eroso le posizioni di forza del ‘lavoro’ sul terreno della produzione immediata, e quindi anche della distribuzione del neovalore. Esse hanno però anche contribuito, per il tramite della nuova politica monetaria, a stabilire un governo del livello e della composizione della produzione quale discendeva coerentemente dalla forma nuova della integrazione tra finanza e produzione. Un mondo che ha potuto apparire come consensuale (tutti proprietari, tutti percettori di rendita finanziaria) e, rispetto a cui si proclamava baldanzosamente l’insensatezza di proporsi una alternativa (la famigerata TINA della Signora Thatcher). Tra le distrazioni di Keynes, ma più ancora dei keynesiani, bisognerebbe probabilmente includere la loro cecità rispetto a quei processi che invece di portare alla ‘eutanasia del rentier’ avrebbero spinto all’ ‘entusiasmo del rentier’. Nel ‘nuovo’ capitalismo, peraltro, distinguere profitto da rendita è esercizio eroico, e noi non ci arrischieremo a farlo in queste pagine.
26 Una rassegna del pensiero economico dopo gli anni Sessanta la si trova in Bellofiore 2005, mentre un bilancio personale del pensiero eterodosso può essere letto in Bellofiore 2004b, 2004c e Di Ruzza-Halevi 2004. Per una valutazione dello stato del dibattito marxista, cfr. i saggi raccolti in Bellofiore 2007.
27 Cfr. i suoi editoriali sul New York Times sulla congiuntura, e il deludente Krugman 2009 sullo stato della teoria macroeconomica.
28 L’assoluta dominanza di questa lettura impedisce di selezionare una citazione rappresentativa del filone, per l’imbarazzo della scelta. Una buona versione della lettura della crisi in termini di caduta del saggio del profitto la si può trovare nella introduzione di Vladimiro Giacché a Marx 2009. Per una lettura diacronica e unitaria della teoria marxiana della crisi -che cerca di sfuggire alla Scilla della caduta tendenziale del saggio di profitto nella sua versione tradizionale e alla Cariddi del sottoconsumismo, e che si prolunga in una teoria sociale della crisi in grado di dare conto anche della crisi sistemica degli anni Settanta e della ascesa e del declino del neoliberismo reale in tutte le sue fasi – cfr. Bellofiore 2010d. Un precedente importante di questa lettura sono le lezioni di Politica economica e finanziaria tenute da Claudio Napoleoni nel 1972-73 e nel 1973-74, su cui vedi Bellofiore 2009d.
29 Per quel che segue si vedano in particolare Magdoff-Sweezy 1977, 1981, 1987.
30 Si vedano almeno i suoi tre libri: Minsky 1982, 1989, 2009.
31 Per approfondimenti, vedi i nostri altri scritti sul Minsky moment e il Minsky meltdown, già citati, ma anche Bellofiore-Halevi-Passarella 2010: lavori a cui si rimanda anche per la letteratura secondaria.
32 Si vedano, p. es., Minsky 1993, 2008.
33 Ci pare si muova in una prospettiva metodologica non troppo lontana dal nostro approccio Vercelli 2009.
34 Si tratta di un punto già presente nella riflessione del Minsky degli anni Sessanta, che verrà poi ripreso negli scritti successivi. Centrale è la critica al ‘keynesismo’ della War on Poverty di cui danno conto Bell-Wray 2004. E’ una critica radicale, per molti versi convergente e anticipatrice di aspetti delle osservazioni della Robinson sulla seconda crisi della teoria economica. Minsky non si accontenterebbe certo di vedere nella crisi attuale l’occasione di un ritorno al ‘keynesismo’. Sulla questione sollevata in questo paragrafo considerazioni più dettagliate in Bellofiore 2008c.
35 Sottolineano a ragione la necessità di una socializzazione della finanza Panitch (2009) e Parguez (2009). Quest’ultimo autore, al di là forse delle sue intenzioni, non è sempre immune dalla deriva tecnocratica della ‘sinistra keynesiana’ e dal sogno di definire un programma dall’alto che possa rimuovere una volta per sempre le contraddizioni del capitalismo dei rentier e della finanza. Una deriva contro cui già ammoniva Lebowitz (1973-74) al tempo della seconda crisi della teoria economica, che però vedeva come una crisi che non avrebbe toccato il marxismo.
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