Nuove malattie: la “Borbonite”
di LUCA RUSSI (FSI Arezzo)
Come sanno tutti, i virus sono estremamente abili nell’adattarsi ai cambiamenti ambientali grazie alle mutazioni genetiche, che hanno garantito il successo evolutivo di questi microrganismi. Poiché il virus tramite le mutazioni riesce ad adattarsi a sempre nuovi ospiti, noi siamo assediati continuamente da nuove malattie virali.
Oggi voglio parlarvi del Borbonismo (o Neo-Borbonismo, o Borbonite, appunto), patologia sempre più invasiva che si innesta sul ceppo di un altro vittimismo auto-assolutorio, il leghismo più pericoloso, di matrice padano-centrica.
I sintomi sono vertigine, senso di onnipotenza, perdita del senso dell’orientamento e del senso del ridicolo, delle cognizioni storiche, fino ad arrivare al deliquio vero e proprio (nel senso dell’ oscuramento profondo della coscienza).
In Sicilia sono stati riscontrati casi di pazienti ai quali è spuntata una terza gamba sul cranio, e alcune persone, perfino molte tra quelle che si riteneva che fossero in possesso dei necessari anticorpi, assumono un colorito giallo-rosso tipico – detto “catalano” – che ha fatto ipotizzare una qualche connessione con le epidemie di “spagnola” verificatesi in tutta Europa durante la Prima Guerra Mondiale, le quali fecero più vittime nel Sud Italia rispetto al Nord (ma il cui primo caso si registrò a Vicenza).
Scherzi a parte, forse banalizzerò, ma perfino Dante che non aveva certo l’idea di nazione per come la intendiamo noi oggi stigmatizzava le lotte intestine che minavano la pace e il buongoverno nella penisola, per cui, fatte salve le debite considerazioni che sono sempre doverose quando si pretende di mettere in collegamento fatti e pensieri relativi ad epoche completamente diverse, anche a lui e a molti suoi contemporanei era già abbastanza chiara una cosa: che erano sempre gli interessi asserviti a quelli stranieri a rendere l’Italia “serva” e “di dolore ostello”, e a farla a pezzi (in senso metaforico e politico).
E poi, più seriamente: quando si parla di Unità d’Italia, almeno da un certo momento in poi (da qualche anno dopo la presa di Porta Pia, per intenderci) non ha più senso parlare di Stato “piemontese”, perché le classi dirigenti meridionali cominceranno ad un certo punto ad essere pienamente integrate nel nuovo Stato nazionale con responsabilità di rilievo (così come riconoscono perfino gli interpreti di un certo revisionismo storico, almeno quelli più avveduti, per non dire intellettualmente onesti). Con il passare dei decenni, poi, una parte sempre più cospicua della classe media meridionale verrà integrata nella Pubblica Amministrazione.
Piuttosto sarebbe forse il caso di riflettere sul fatto che questo neo-borbonismo, assumendo i caratteri di una vera e propria mistificazione di natura ideologica (più che storica), si presta ad una operazione politica estremamente insidiosa che punta a sfruttare il disagio di strati sempre più crescenti di popolazione, al Sud come al Nord del nostro Paese.
Forse il segno più evidente della veridicità di questa affermazione, la cartina al tornasole, è la rimozione a livello collettivo di una domanda che invece dal punto di vista dello storico dovrebbe essere fondamentale:
ma davvero sarebbe stato diverso (cioè migliore) il destino del Mezzogiorno, se non ci fosse stato il Risorgimento, ovvero l’ unificazione con il resto del Paese?
Nulla ci autorizza a fare questo tipo di supposizione, ovviamente; almeno alla luce delle politiche degli Anni Cinquanta e Sessanta, che se non altro ebbero il merito di mettere il Sud nelle condizioni di riprendere parte del terreno perduto, come attestano i dati sull’ incremento di Pil del Meridione in quel ventennio.
Nel 1946 Pasquale Saraceno, economista, meridionalista e grande assertore dell’utilità di fondare la Cassa per il Mezzogiorno, fondò l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez), convinto del fatto che l’economia “di mercato” non avrebbe potuto da sola innescare la riduzione dei divari tra le regioni del Paese, come dimostrano gli sviluppi successivi, quando sempre più dal finire di quella stagione, per ragioni dovute anche alla natura di una certa idea di sviluppo economico di matrice euro-atlantica, si preferì puntare tutto sulle nuove priorità dell’ export, piuttosto che sulla riduzione degli squilibri.
Scriveva Saraceno, con lucidità quasi profetica, visto quel che succede proprio in questi giorni: «L’intervento straordinario è necessario fin quando l’economia italiana risulterà composta di due sistemi, caratterizzati da modelli di sviluppo diversi; ignorare e negare questo persistente dualismo significa conformare l’azione pubblica esclusivamente al modello del sub-sistema più forte, consumando così una sostanziale sopraffazione degli interessi del sub-sistema più debole».
Qualche mese prima della pubblicazione del Rapporto 1984 sull’ economia del Mezzogiorno, precisamente il 19 maggio dello stesso anno, durante una conferenza sul tema “Il nuovo meridionalismo”, tenuta a Napoli presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Saraceno aveva pronunciato parole analoghe, in cui si avvertiva la preoccupazione per i primi forsennati attacchi all’unità nazionale (il 1984 è anche l’ anno in cui nasce ufficialmente il movimento fondato da Bossi due anni prima, la “Lega Autonomista Lombarda”):
«In sostanza l’intervento straordinario costituisce una forma di separazione in due parti della nostra economia, separazione temporanea che, circoscritta alla sola politica di sviluppo economico, può coesistere con il permanere dell’unità politica; anzi esso ha come obiettivo quello di rafforzare l’unità».
La convinzione di Saraceno e di altri come lui era che anche per il Mezzogiorno l’idea di un’economia tutta fondata sul libero mercato non fosse sufficiente: era necessaria l’azione dello Stato, che non è solo disponibilità di fondi aggiuntivi quali furono quelli della Cassa del Mezzogiorno, ma soprattutto una diversa idea di politica industriale, “l’idea di governare secondo un programma”.
Perciò, con Saraceno “resta più che mai viva la lezione di quei grandi servitori dello Stato che nel dopoguerra formularono l’idea stessa di uno speciale apparato pubblico non burocratico, al quale facessero capo unitariamente le responsabilità di programmazione, progettazione e finanziamento pluriennale degli interventi aggiuntivi e intersettoriali volti allo sviluppo della società meridionale […], una struttura funzionale sottoposta al controllo del governo per quanto riguarda l’indicazione degli obiettivi e la vigilanza sul loro perseguimento”, fosse pure dotata di una sua autonomia dal punto di vista operativo.
Questo sia detto per fare giustizia circa il fatto incontrovertibile che il Mezzogiorno è stato vittima più che della “politica assistenzialista”, del pregiudizio anti-statalista, pregiudizio comune da un certo momento in poi sia alle classi dirigenti “meridionali” che a quelle “settentrionali” (cioè all’intera classe politica nazionale), e proprio dell’ortodossia neo-liberale.
Semmai quindi, gli affetti dai “neo-borborigmi” propri di questa vera e propria neo-patologia politica, spendano un po’ della loro residua capacità di discernimento per porgere idealmente le loro scuse alla figura storica di tal Giuseppe Garibaldi, spesso e volentieri scioccamente crocifissa da chi fa finta di non sapere che “i piemontesi”, piuttosto, si preoccuparono innanzitutto di neutralizzare proprio le energie rappresentate da lui e dai suoi ideali democratici repubblicani, con il preciso intento di accordarsi con quella stessa classe dirigente meridionale, devota fino al giorno prima alla monarchia borbonica.
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