«Siamo determinati, non faremo un passo indietro. Ne abbiamo parlato con gli amici di Russia. Abbiamo un accordo». Sono le parole pronunciate dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan all’indomani dell’avanzata turca nel nord della Siria, che dallo scorso martedì ha intensificato i bombardamenti in quello che prima della guerra era conosciuto come il governatorato di Aleppo.
Dopo che la scorsa settimana Ankara ha ordinato all’esercito di ammassare truppe e carri armati sul confine, i risultati non si sono fatti attendere. I militari hanno attraversato la vecchia frontiera e occupato alcuni villaggi (Shankal, Qorne, Bali e Adah Manli incluse le aree rurali di Kita, Kordo e Bibno) in attesa di espugnare la città strategica di Afrin. Dopo che l’avranno presa, come annunciato procederanno verso il crocevia strategico di Manbij, oltre il quale si trova il confine naturale dell’Eufrate.
Sono già oltre 25mila le unità di ribelli siriani e di turcomanni che si sono unite all’esercito turco. L’obiettivo dichiarato è liberare quest’area dai «nidi di terroristi» curdi, per rispedirli oltre la sponda occidentale dell’Eufrate e porre così fine al progetto della Rojava, ossia lo stato indipendente del Kurdistan siriano che, secondo Ankara, rappresenta una minaccia diretta contro la Turchia.
Il presidente Erdogan vorrebbe instaurare una sorta di stato cuscinetto che tuteli la forte presenza dei turcomanni nella regione e al contempo si frapponga ai progetti espansionistici dei curdi ma anche di Damasco, il cui obiettivo resta quello di riconquistare l’intero territorio della Siria, con l’aiuto di Russia e Iran. Il presidente Assad, infatti, non ha perso tempo nel definire l’avanzata turca «un’aggressione brutale», sebbene la Russia abbia invece preferito far ripiegare le proprie truppe, in apparente complicità con la Turchia.
Perché Ankara attacca i curdi
La decisione del governo turco di invadere proprio adesso il nord della Siria è stata accelerata dalle dichiarazioni di Washington di metà gennaio, secondo cui sarebbe necessario creare nel nord della Siria una forza di sicurezza arabo-curda a presidio permanente dell’area, al fine di evitare il ritorno dello Stato Islamico. Un fatto che Ankara intende scongiurare a ogni costo.
Gli Stati Uniti, come noto, hanno investito molto nelle forze arabo-curde dello SDF (Forze di Sicurezza Democratiche), protagoniste tra l’altro della liberazione di Raqqa dallo Stato Islamico. Ma la Turchia teme le SDF tanto quanto lo YPG, cioè le Unità di protezione del popolo curdo, e li considera entrambi gruppi terroristici alla stregua di quel Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), che da decenni lotta per vedere riconosciuta l’autonomia curda in territorio turco.
Ankara ha pertanto tuonato contro il progetto degli Stati Uniti: «Ci hanno pugnalato alle spalle» è stato il commento invelenito che il presidente Erdogan ha rivolto alla Casa Bianca. Lo stesso capo di stato ha quindi esortato la NATO (di cui la Turchia fa parte) a fermare chiunque aiuti l’SDF a creare una «un esercito di terroristi» alle sue frontiere, asserendo che è dovere del suo governo impedirlo se non lo faranno altri.
La strategia turca
L’intensificarsi della presenza turca nella provincia settentrionale di Idlib e nel governatorato di Aleppo fa parte di un accordo siglato con Russia e Iran, che hanno in comune l’obiettivo di ridurre i combattimenti tra le fazioni ribelli e le forze filo-governative siriane. Ma la de-escalation ipotizzata da Mosca e Teheran si sta rivelando un boomerang per gli alleati, a causa della totale inaffidabilità della Turchia. Che, sin dallo scoppio della guerra civile, persegue obiettivi difficilmente conciliabili con quelli degli altri protagonisti.
Questa nuova operazione militare ha il sapore della rivincita per il governo turco, che sinora aveva sbagliato ogni mossa possibile nella guerra di Siria, rischiando di trovarsi isolata politicamente e militarmente. La seconda fase della guerra siriana, pertanto, somiglia a un riposizionamento di forze in attesa di spartirsi quel che resta del paese. E per Ankara significa avere una seconda chance.
In ogni caso nessuno, tranne gli Stati Uniti, sembra più considerare le forze curde un interlocutore né ha intenzione di fare loro concessioni. Dopo averle sfruttate contro il Califfato, così come in Iraq, le potenze regionali preferiscono adesso strozzare in culla ogni loro speranza di veder crescere uno stato curdo in Medio Oriente. Ma le lancette dell’orologio non possono essere riportate indietro. Il che autorizza a ritenere che la Siria resterà ancora a lungo un’area d’instabilità e di scontri tra potenze straniere, che a tutto mirano tranne che alla pace.
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