Per un superamento del superamento del Fiscal Compact
di SENSO COMUNE (Marcello Spanò)
E’ circolato, a fine anno 2017, un appello sottoscritto da diversi economisti, italiani e non solo, favorevole a un superamento del Fiscal Compact, contrario a un suo “rafforzamento istituzionale”, preoccupato per il rischio di implosione dell’Unione Europea che una riconferma del patto fiscale, ormai scaduto, comporterebbe. Tra gli economisti firmatari figurano anche nomi importanti per il loro contributo alla critica della teoria economia mainstream. Per quanto sia apprezzabile una posizione critica, ed altrettanto apprezzabile il tentativo di mettere in agenda una discussione sul Fiscal Compact che, colpevolmente, non sembra appassionare i nostri media, devo tuttavia confessare che il contenuto dell’appello mi lascia molto perplesso. Noto una sproporzione ingiustificabile tra i principi generali di allarme e denuncia che si leggono in apertura e in chiusura dell’appello, e le concrete proposte di riforma, che mi suonano invece timide, non risolutive e anche incoerenti con lo stesso desiderio di un superamento del patto fiscale che ha inutilmente soffocato le economie e peggiorato le condizioni materiali dell’esistenza di gran parte della popolazione dei paesi che l’hanno sottoscritto. La biografia scientifica di alcuni firmatari, su cui nutro anche profondo rispetto personale e professionale, mi lasciano ancora più sorpreso. Come cantava De André, “voi avevate voci potenti….”; ebbene, perchè usare quelle voci per bisbigliare, e per promuovere proposte che qualunque economista consensuale e dottrinario potrebbe sottoscrivere, e niente di più?
In questo mio intervento vorrei appunto mettere in luce alcune contraddizioni che mi sembrano emergere fra le due proposte concrete di revisione del Fiscal Compact e i principi più generali e astratti delineati nell’appello. Se non altro, questo mio contributo avrà il merito di discutere, che è sempre meglio che sonnecchiare.
1. Lo scorporo degli investimenti
Una prima proposta di riforma consiste nello “scorporare gli investimenti pubblici dal computo del disavanzo”. In sintesi, pareggiamo entrate e uscite dello Stato, ma teniamo fuori dal conteggio le uscite per investimenti. La ragione dello scorporo è che “gli Stati nazionali hanno il dovere di sostenere, con il conforto dell’Unione Europea, l’attività dell’economia e l’occupazione con robuste misure di struttura e non solo anticicliche”.
1.1. Qui direi che è opportuna una prima precisazione. Qualcuno ha visto perseguire misure anticicliche da queste parti negli ultimi venticinque/quarant’anni? Io personalmente non le ricordo. Senza andare troppo indietro a parlare di forze politiche ormai vetuste, dal trattato di Maastricht del 1992 in poi, ricordo soltanto due tipi di politiche fiscali: quelle finalizzate alla riduzione del deficit pubblico prevalentemente attraverso un convinto aumento delle tasse e una malcelata riduzione della spesa pubblica, tipiche del centrosinistra, e quelle finalizzate alla riduzione del deficit pubblico attraverso una convinta riduzione della spesa pubblica e un malcelato aumento delle tasse, tipiche del centrodestra. Le politiche del centrosinistra hanno notoriamente funzionato meglio nel ridurre il deficit, quelle del centrodestra meno. Ma non c’era alcuna volontà anticiclica nel metterle in atto, semplicemente una furia ideologica: contro il governo che scialacqua ai danni delle future generazioni, per il centrosinistra, contro il governo che tassa ai danni dell’iniziativa privata, per il centrodestra. In ogni caso, contro il governo. Sono state politiche di un solo segno: recessive, che sono anticicliche non per volontà ma per caso, cioè nel caso, sempre più raro, in cui la domanda del settore privato abbia una dinamica vagamente ‘trotterellante’. Le politiche anticicliche, di per sé, se esistessero davvero, sarebbero anche una bella novità, magari non sufficiente a rimettere in piedi il paese, ma pur sempre un lusso al giorno d’oggi annoverabile nella categoria della fantapolitica. Alla luce della storia recente, proporre misure di struttura come se avessimo mangiato pane e misure anticicliche tutti i giorni mi sembra una rivendicazione piuttosto scollegata con la realtà in cui siamo immersi.
1.2. Veniamo al merito dell’idea dello scorporo. Di solito gli economisti amano molto parlare di investimenti in ricerca e sviluppo come chiave strategica per innescare la crescita economica. Sono ben visti perchè si tratta di una formula magica che mette d’accordo tutti. Infatti, non oserei mai negare la loro importanza, e condivido la critica che in Italia manca quasi del tutto una sensibilità a questi favorevole. Il ruolo dello Stato nel finanziare la ricerca, tanto per cambiare, viene vituperato. Di conseguenza, l’università è vista come una voce di costo, la scuola elementare e media, non ne parliamo. Ma…. un momento… nell’appello leggo che nello scorporo va incluso, “se non l’insieme della spesa pubblica in istruzione e ricerca, troppo vasta e articolata, almeno quella per l’industrializzazione della ricerca di base e l’occupazione di ricercatori e tecnologi.” Quindi c’è qualcosa va scorporata dallo scorporo. Forse la scuola non va considerata come investimento? Forse i salari degli insegnanti devono rientrare nel vincolo di bilancio? La carta igienica nelle scuole devono ancora portarsela i bambini? E se va scorporata dal vincolo di bilancio soltanto la ricerca utile alla crescita economica, come si distingue quella utile da quella inutile? L’appello parla di “industrializzazione della ricerca di base” e anche di “occupazione di ricercatori e tecnologi”. E la ricerca di base che non è industrializzabile che fine fa? E gli umanisti, i non tecnologi, non hanno nessun contributo da apportare all’economia? Bisognerà premiare solo i ricercatori più produttivi? E come misuriamo la produttività della ricerca? Con criteri bibliometrici, come stiamo facendo negli ultimi anni? (by the way, grazie, ANVUR, per l’immenso lavoro!) Ci affidiamo all’impact factor che premia gli articoli più convenzionali che pubblicano sulle riviste più di moda: tanti lavori piccoli noiosi e irrilevanti? Chissà come galopperanno le innovazioni con questo metodo di selezione! Capisco che qui stiamo un po’ uscendo fuori tema, perché la scelta di quali sono i settori strategici non è forse specificabile in un semplice appello. Lasciamo allora in sospeso queste domande e veniamo al nocciolo del mio argomento: il deterioramento prolungato del sistema della spesa pubblica è tale da rendere del tutto artificiosa e indeterminata la proposta di selezionare alcuni tipi di spesa come più importanti di altri. In Italia è urgente una visione sistemica della spesa pubblica, e occorre che questa visione sia liberata da ogni complesso sulla sua sostenibilità finanziaria. L’idea di assegnare a una non troppo ben definita spesa in ricerca e sviluppo un canale prioritario si inserisce, invece, in una logica di sostanziale accettazione di un criterio di contenimento, sorvegliato da controllori esterni, della spesa pubblica italiana, e l’appello si limita quindi a una richiesta di eccezioni, senza tenere conto che la spesa in ricerca e sviluppo non risolve, se non forse dopo lungo tempo, il problema di una generazione senza lavoro, né quello di un aumento della povertà relativa e assoluta, né quello della sacca di lavoratori soli e senza protezione sociale travestiti di self-made men con partita iva, né quello del calo delle nascite.
1.3. Gli economisti mainstream sostengono che il vero problema dell’Italia è la produttività stagnante. La triste letteratura della scienza triste è piena zeppa di modelli che descrivono come il bello e il cattivo tempo in economia viene determinato dagli andamenti della produttività. La produttività, in linguaggio “economese”, è quasi sempre considerata come una variabile esogena, magari stocastica, ma pur sempre esogena, cioè non spiegabile all’interno della teoria economica. E’ per questo che i difensori dell’ordine economico esistente sostengono che è inutile trovare capri espiatori per spiegare i problemi italiani, come il patto di Maastricht, l’euro, il Fiscal Compact, il precariato sul mercato del lavoro, perché per loro il problema è la scarsa crescita della produttività. Al più, il pensiero economico mainstream è disposto a concedere che la produttività possa crescere come effetto di investimenti specifici in ricerca e sviluppo per l’innovazione, e/o nel cosiddetto “capitale umano” (termine discutibile finalizzato a ridefinire i lavoratori più istruiti e specializzati come qualcosa di ontologicamente diverso dai lavoratori con più basse qualifiche – un’élite di lavoratori quasi non più umani e quasi già ‘capitale’, qualunque cosa voglia dire). Ecco la ragione per cui, dal mio punto di vista, questo appello promuove lo scorporo degli investimenti in ricerca e sviluppo: perché è sostanzialmente una proposta che potrebbe risultare comprensibile alle teste meno irrigidite che popolano l’universo degli economisti ortodossi. Se è così, tuttavia, vale la pena sottolineare come l’appello sia largamente inadeguato, in quanto prende forma in un contesto di subordinazione in cui i limiti del dicibile vengono stabiliti dal pensiero economico egemone. E mi spiace lanciare questa accusa, perché so per certo che molti dei firmatari non sono ingenui economisti mainstream. Anzi, alcuni di loro sono agguerriti combattenti. Ciò nonostante, l’appello si limita a chiedere soltanto ciò che l’economista mainstream, che presiede al rigore dei conti pubblici, è in grado di capire, e quindi – sarebbe questa la speranza – a concedere.
1.4. La tradizione eterodossa in economia, con importanti contributi italiani, ha sollevato sufficienti critiche che, se fossero conosciute e ascoltate, indurrebbero qualunque economista serio a esercitare estrema prudenza nell’uso di concetti come ‘capitale’ o ‘produttività’, e tanto più nel tentativo di misurarli empiricamente. Tralasciamo di imbarcarci in questo dibattito, facciamo finta di ignorarlo e accettiamo di misurare la produttività del lavoro in valore (valore aggiunto per unità di lavoro) anziché in unità fisiche. Andrebbe almeno sottolineato, però, che la battuta d’arresto alla produttività italiana, che gli economisti mainstream esibiscono come una prova del nove, può benissimo essere spiegata come una conseguenza della stagnazione della domanda, a partire dal 1996, con la rivalutazione della lira nei confronti del marco in preparazione dell’unione monetaria, poi come una conseguenza del ricorso, da parte delle imprese, al lavoro a basso costo e bassa qualità in seguito al pacchetto Treu del 1997, poi ancora con l’istituzionalizzazione definitiva della cintura troppo stretta: l’unione monetaria che segna il congelamento definitivo del cambio nominale (1999), e obbliga, come regola del gioco, i paesi membri a una gara a chi è più abile a ridurre il corso del lavoro (riforme Hartz in Germania, 2003-05). Una gara in cui alcuni paesi vincono a danno di altri, mentre i governi restano a guardare, legati e imbavagliati dal patto di stabilità e crescita, dopo la crisi cristallizzatosi nel Fiscal Compact (2013), che rende impossibile allestire un serio programma di spesa pubblica adeguato alla piena occupazione di tutte le risorse. Tutto questo ha decisamente poco a che fare con la mancanza di investimenti in ricerca e sviluppo. Scorporare questi ultimi dal pareggio di bilancio non toccherebbe in alcun modo le altre cause della stagnazione della produttività appena evidenziate.
2. Il pareggio strutturale: ricalcolo
Il secondo punto cardine della proposta è l’obbligo di “pareggio strutturale dei conti pubblici”. Per ‘strutturale’ si intende: corretto per gli effetti del ciclo economico e per le misure transitorie. In parole povere, il Fiscal Compact concede un po’ più di deficit nei periodi di recessione, da recuperare con surplus nei periodi, idealmente simmetrici, di crescita economica, così da pareggiare, su un arco di tempo ampio, entrate e uscite del governo.
2.1. Come quasi tutti in Italia devono ormai aver capito, i margini per questo ‘sforamento’ in tempi di recessione sono talmente esigui che, con le regole esistenti, solo un meteorite di discrete dimensioni può aiutarci a ridurre numericamente i disoccupati nel nostro paese. E se non si può uscire dalla recessione, non arriveranno mai le fasi ‘positive’ che dovrebbero compensare le fasi ‘negative’ del ciclo economico. Già, perché ciò che l’appello manca di chiarire è che le fluttuazioni economiche non sono come le onde del mare, che vanno, vengono e ritornano, indipendentemente dal nostro sguazzare in acqua, ma sono la conseguenza delle nostre azioni, e segnatamente delle politiche fiscali del governo. L’appello sottolinea, giustamente, che “la non prevalenza delle fasi recessive…. allo stato attuale dell’economia globale è tutt’altro che scontata”; ciò che non chiarisce è che una delle più importanti cause di questa prevalenza delle fasi recessive, ma io direi anche la causa di gran lunga più importante, è proprio il patto di austerità fiscale a cui i governi dei paesi intrappolati nella stagnazione sono sottoposti.
2.2. Come nel caso della proposta dello scorporo, anche la proposta della riforma del pareggio strutturale si limita a delineare una strada che i firmatari giudicano potenzialmente ricevibile da parte dei custodi dell’ortodossia (cioè del governo tedesco, allo stato attuale degli equilibri politici in Europa). L’appello, ancora una volta, non mette in discussione il principio del pareggio di bilancio, ma si concentra sulla proposta di riforma di un meccanismo di calcolo, quello del cosiddetto output gap, cioè la differenza fra il PIL realizzato nell’anno in corso e il PIL che potenzialmente saremmo in grado di realizzare date le risorse disponibili. Secondo gli economisti firmatari, occorre cambiare il criterio con cui si calcola il cosiddetto “output potenziale”, che a loro giudizio, e anche a giudizio dell’OCSE, sarebbe più alto di quello calcolato dalla Commissione Europea. Se riconosciamo che l’output potenziale è più alto, allora vuol dire che siamo più distanti da questo obiettivo, di conseguenza siamo autorizzati a concederci più deficit (più flessibilità, beninteso: da parte dei controllori esterni, arbitri e sanzionatori delle scelte italiane) per incentivare la “ripresa”. La discussione viene dunque presentata come una questione meramente tecnica. L’OCSE sostiene che l’output potenziale è definito dal NAIRU (non-accelerating inflation rate of unemployment), cioè un tasso di disoccupazione compatibile con aspettative di inflazione stabili. La Commissione lo definisce invece in base al NAWRU (non-accelerating wage of unemployment), cioè un tasso di disoccupazione compatibile con una dinamica salariale stabile. In breve, per convincere i guardiani europei a concedere un maggior margine di manovra fiscale per il governo italiano, l’appello si limita a suggerire che hanno sbagliato i conti. Molti dei firmatari, tuttavia, sanno meglio di me che ciò che è sbagliato non sono tanto i conti, quanto l’intero paradigma economico utilizzato per definire gli spazi di manovra a disposizione del governo. Allora – “voi che avevate voci potenti” – perché non scriverlo?
2.3. Perchè non rivendicare la piena occupazione, e non il pareggio di bilancio, come obiettivo della politica economica? E perché, anziché discutere se è meglio il NAIRU o i NAWRU, non mettiamo in discussione il presupposto che il livello dell’occupazione debba essere uno strumento funzionale a controllare i prezzi e stabilizzarli? Perchè non rivendicare la piena occupazione come obiettivo prioritario della politica economica? Perchè non ragionare su altri metodi per ancorare i prezzi? Le idee non mancano. Il piano di lavoro garantito, per esempio, è una proposta compatibile sia con la piena occupazione che con la stabilità dei prezzi, per il fatto che prevede un serbatoio di lavoratori remunerati a un salario deciso istituzionalmente. Questo serbatoio, in quanto si svuota in tempi di espansione (meno spesa pubblica) e si riempie in tempi di recessione (più spesa pubblica), svolge un ruolo di stabilizzatore del ciclo economico, e al contempo garantisce – whatever it takes – la piena occupazione, in tal modo eliminando il meccanismo che Marx aveva denominato dell’esercito industriale di riserva, e che oggi si incarna nel NAIRU o nel NAIWU. La disoccupazione, con il piano di lavoro garantito, non è più uno strumento di ricatto contro le rivendicazioni salariali. L’intero sistema dei prezzi, a sua volta, ruota intorno a un perno: l’unità di salario, decisa istituzionalmente, storicamente ed esogenamente dalla politica. Infine, il deficit di bilancio non è più definito come un obiettivo, ma torna ad essere uno strumento, come è giusto che sia concepito. Il pareggio di bilancio strutturale non va ridefinito e ricalcolato: va proprio abbandonato.
2.4. Veniamo ora al principale spauracchio mediatico: il livello del debito pubblico. L’appello fa presente che ridurre il debito pubblico al 60% del Pil è irrealistico. Quale argomento viene avanzato per esprimere questo giudizio? Ancora una volta, un calcolo. Si sostiene che, mentre all’epoca della firma del Trattato di Maastricht il livello medio era il 60%, “oggi, a fronte dei risultati di crescita non certo brillanti di un quarto di secolo di politiche economiche europee, il valore medio è aumentato fino al 90%”. Qui proprio non riesco a seguire il ragionamento. Verrebbe da chiedersi: e allora? Siamo in grado di dire se c’è un livello del debito corretto oltre il quale il debito risulta eccessivo? Ricordo a tutti che Reinhart e Rogoff avrebbero anche provato a “dimostrare” empiricamente che un debito pubblico sopra il 90% inibisce la crescita economica, ma i conti dei due economisti, utilizzati dai governi come giustificazione ‘scientifica’ per giustificare tagli allo stato sociale, sono stati smontati da un diligente studente di PhD, che ha chiarito che i due luminari hanno fatto un’operazione sporca di ‘ritocco’ dei dati. Per questo ‘errore’ (ma l’errore presuppone colpa, invece il forte sospetto è che ci sia stato dolo) i due economisti sono stati ampiamente sbertucciati su tutta la blogosfera, nonché nel mondo accademico. Ora, anziché aspettare che qualcuno produca una prova empirica un po’ più difendibile, io proporrei di occuparci di cose più serie. Il livello del debito pubblico, purché denominato nella valuta emessa dallo Stato, non comporta alcun problema. Non sussiste alcuna ragione intrinseca da indurre gli investitori finanziari a non acquistare titoli del debito pubblico; innanzitutto perché tali titoli non sono rischiosi, e in secondo luogo, perché se anche, in momenti di confusione, fossero percepiti come rischiosi dai mercati, ad acquistarli basterebbe la banca centrale con la contestuale creazione di nuova moneta. Gli investitori finanziari, nonostante spingano perché sui giornali e sugli articoli scientifici si diffondano timori sul debito pubblico a rischio, tendenzialmente conoscono abbastanza bene i principi base della finanza e sanno che i titoli del debito pubblico sono sicuri. Non a caso, nel periodo di maggior turbolenza finanziaria durante la crisi del 2007-08, facevano ressa per acquistarli. Nell’eurozona, purtroppo, non è così che funziona, perché la valuta in cui il debito pubblico di ogni stato membro è denominato non è emessa e controllata da un’autorità nazionale, ma è una pseudo valuta estera, e perchè la BCE ha il divieto formale di acquisire su base regolare titoli di stato dei paesi membri. Per costruzione, quindi, il debito pubblico degli stati membri dell’eurozona è effettivamente soggetto a rischio di fallimento, da cui deriva lo spread in periodi di nervosismo. Ma questo è un risultato creato artificialmente da regole disfunzionali. Allora, di che cosa è più sensato preoccuparsi? del livello corretto o realistico del debito pubblico, o dell’architettura istituzionale dell’intera eurozona?
3. Linee guida
Nell’ultima parte dell’appello si torna finalmente a respirare un po’ meglio. Ma qui non si leggono proposte concrete, bensì alcune dichiarazioni di linee guida molto generali che dovrebbero ispirare un processo riformatore su scala europea. Trattandosi di principi generali, finalmente emerge meglio il punto di vista degli economisti critici, che invece si fa fatica a rintracciare nelle righe precedenti dedicate alle proposte più puntuali.
3.1. Una prima linea guida suggerisce “una riconsiderazione della missione istituzionale della BCE, tale da prevedere oltre a quello della stabilità della moneta anche l’obiettivo della minimizzazione della disoccupazione. Si pensi a quanto più rapida e forte sarebbe stata la ripresa dell’occupazione …. se uno strumento di sostegno agli investimenti come l’esile Piano Juncker fosse stato finanziato per cifre mensili pari anche a soltanto un decimo della spesa sostenuta per il QE.” A parte l’uso del termine “minimizzazione dell’occupazione”, che non significa necessariamente piena occupazione, direi che qui abbiamo un elemento di novità che pare emergere dal discorso quasi involontariamente, come un lapsus. Infatti, si capisce dal contesto che la BCE avrebbe la possibilità tecnica di sostenere qualsiasi piano di espansione dell’economia. Certo, si parla sempre del tranquillizzante piano di sostegno agli investimenti, ma il dato di verità emerge: la banca centrale può creare dal nulla risorse monetarie a disposizione del governo per la spesa pubblica. Mentre l’economia mainstream vede l’acquisizione diretta dei titoli del debito pubblico, o la sua monetizzazione, da parte della banca centrale come una vera e propria eresia, i firmatari qui affermano, un po’ tra le righe, che invece la possibilità è del tutto ammissibile. Non possono negarlo, innanzitutto perché è innegabile, e poi perché proprio alcuni di loro sono stati, negli anni più oscuri dell’egemonia della teoria economica ortodossa, fra i più importanti economisti ad avercelo ricordato, e per questo andranno sempre ringraziati. L’eresia consiste nel suggerire che la BCE, (non i contribuenti! non i detentori privati di ricchezza finanziaria! La BCE!) possa fornire le risorse monetarie necessarie a rendere possibile la spesa del governo senza conseguenze devastanti su prezzi e stabilità, anzi, con potenziali effetti benefici sulla crescita.
3.2. La seconda linea guida auspica un “netto orientamento delle politiche economiche europee e nazionali verso un modello di sviluppo trainato dai salari, dai consumi interni e da nuovi investimenti, anziché verso un modello mercantilista”. Anche questo è un rovesciamento di prospettiva rilevante, dato che lo sviluppo degli ultimi quarant’anni si è basato sulle disuguaglianze di redditi e ricchezze che hanno generato due tipi di squilibri tra loro simmetrici: i paesi che comprimono i redditi da lavoro ma non i consumi, col risultato di diventare debitori cronici del settore estero (Italia, Francia, Grecia, Spagna, Portogallo), e i paesi che comprimono sia i redditi da lavoro che i consumi, col risultato di diventare creditori cronici verso l’estero (Germania).
3.3. I due principi per orientare le riforme, tuttavia, per quanto come enunciati siano condivisibili, nel contesto di questo appello mi sembrano in palese contraddizione con le proposte concrete delineate appena prima. Il riconoscimento della possibilità tecnica, per lo Stato, di fare tutta la spesa pubblica in deficit che serve per raggiungere la piena occupazione, senza necessariamente chiedere un soldo di finanziamento al settore privato, rende del tutto superflua la proposta di mantenere un pareggio di bilancio strutturale, seppure con scorporo. L’invocazione di uno sviluppo trainato dai redditi da lavoro promuove una distribuzione del reddito più egualitaria, ma questa non si concilia in modo ovvio con la richiesta di adottare il NAIRU (cioè perseguire la stabilità dei salari e dei prezzi sotto il ricatto della disoccupazione) come parametro su cui orientare la politica fiscale. I principi guida per un’ampia riforma della zona euro, che sono teoricamente del tutto condivisibili, vengono svuotati di credibilità dalle proposte concrete di riforma del Fiscal Compact, che sembrano piuttosto scaturire da principi ispirati alla visione dottrinaria, ristretta e ignorante i contributi critici, tipica da manuale di macroeconomia.
Conclusione
Perché tante voci potenti si limitano a bisbigliare, e a suggerire nel concreto riforme timide che non cambiano la sostanza del problema? Si tratta, io credo, di una scelta che molti firmatari hanno concepito come diplomatica, finalizzata a convincere gli interlocutori (i fanatici del rigore) a concedere alcuni miglioramenti di buon senso, toccando le corde del loro stesso linguaggio, l’unico che capiscono. La loro speranza è che a partire da quelle timide riforme sia possibile introdurne altre di più ampia portata. La loro tattica consiste nell’indossare una veste di autorevolezza e di serietà professionale. Non a caso, denunciano che il dibattito sul Fiscal Compact, oltre che sporadico, è “al tempo stesso acceso e radicale”: evidentemente, la loro preoccupazione è non apparire radicali, ma la conseguenza è che la loro richiesta si limita pressappoco a mendicare un Fiscal Compact un po’ più umano di fronte a un’ortodossia del rigore, questa sì, radicale.
Data la situazione di emergenza in cui viviamo, con dieci anni di recessione e stagnazione alle spalle, una disoccupazione giovanile inaudita, la fuga all’estero di diversi neolaureati in cerca di una vita normale, l’aumento delle persone in stato di povertà, e via dicendo, mi chiedo quanto possa pagare questa tattica che mira a inserire la pulce nell’orecchio di chi comanda in Europa. Se avessimo tempo (e se non avessimo visto pochi anni fa cosa è successo in Grecia), sarei forse più propenso a crederci. Pensando anche alla caratura scientifica di molti firmatari, vorrei invitare tutti a riflettere: cari illuministi, siamo davvero convinti che chiedere ai monarchi un po’ di pane sia la via maestra per superare la monarchia?
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