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Meglio essere chiari, spegnendo sul nascere ogni possibile teoria dietrologica: in termini assoluti, il dollaro rimane saldamente la valuta benchmark e di riserva mondiale.

Ma a livello di prospettiva, i dati confermati dal report dell’Fmi relativo al quarto trimestre 2018 – Currency Composition of Official Foreign Exchange Reserves (Cofer) – parlano chiaro: negli ultimi tre mesi dello scorso anno, i manager di riserve monetarie a livello mondiale hanno “scaricato” il controvalore di oltre 50 miliardi in biglietti verdi.

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Di più, come mostra questo grafico, il calo ai minimi del 2013 della quota percentuale di moneta statunitense all’interno delle riserve centrali è corrisposto con l’aumento massimo di quella relativa allo yuan cinese.

La quale, come anticipato, resta a un minimo dell’1,9% del totale contro il 61,7% di quella statunitense ma è raddoppiata negli ultimi due anni. Di più, la valuta cinese ha visto aumenti della sua quota parte negli ultimi cinque su sei trimestri, mentre quella statunitense ha registrato dieci cali trimestrali negli ultimi dodici.

Segnali chiari, soprattutto in tempi di guerra commerciale fra i due giganti.

Ma a fare maggiormente sensazione, all’interno del report dell’Fmi, è quanto espresso da questo altro grafico, il quale ci mostra come all’interno del sistema internazionale di pagamento Swift (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication), la quota percentuale relativa al dollaro sia scesa al 39%, mentre quella dell’euro è salita al 35%.

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E l’andamento delle due linee parla chiaro: a partire dal 2015, il trend è stato sempre più quello di un re-couple, ovvero un convergenza verso una parità di quota di mercato negli scambi internazionali fra le due valute di riferimento globale. E non pare affatto una casualità la data di quell’inizio di nuovo percorso: nel marzo di quattro anni fa, infatti, la Bce dava vita al suo programma espansivo, il Qe.

Da allora, la moneta unica è divenuta sempre più protagonista del commercio internazionale. A tutto discapito del dollaro. E, soprattutto, in un regime che vede cambiamenti sempre più rapidi e radicali nei rapporti di forza e nelle alleanze. E proprio il sistema di pagamento Swift offre un proxy decisamente interessante di quello che in ambito geopolitico viene definito “processo di de-dollarizzazione“, di fatto un affrancarsi del sistema finanziario e commerciale globale dall’egemonia del bgliettto verde cominciato in grande stile con la perdita di fiducia post-crisi del 2008.

E, soprattutto, aumentato di volume e strutturalità con il calo delle quotazioni del greggio. Il quale ha portato con sé la conseguenza di medio termine della fine del concetto di petro-dollari, intesi come rimesse dirette dei Paesi produttori che non solo divenivano “carburante” per i mercati finanziari attraverso il loro reinvestimento in securities di vario genere denomimate in dollari ma, soprattutto, vedevano gli introiti della produzione di petrolio “forzatamente” convertiti da valute locali in biglietti verdi.

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Come mostra questo grafico, per la prima volta da diciotto anni, nel 2014 l’esportazione di quel capitale è divenuta negativa. Di fatto, altro elemento di sostegno alla tesi dell’ineluttabilità quasi ontologica del Qe strutturale e globale come sostegno ai mercati.

Inoltre, proprio la caduta del totem di riferimento del dollaro sul mercato petrolifero mondiale, così come l’abuso dell’utilizzo di sanzioni in quel settore da parte di Washington come strumento non convenzionale di politica estera nei vari teatri di crisi, ha portato alla nascita del cosiddetto petro-yuan e dei futures sul greggio denonimati in valuta cinese e trattati dallo scorso anno alla Borsa di Shanghai.

Sul finire dello scorso anno, infatti, proprio in risposta alle sanzioni statuntensi contro l’Iran che andava a compromettere miliardi di interscambio e investimento europei con Teheran, l’Ue ha dato vita al progetto di uno sistema Swift alternativo, fortemente voluto dalla Germania attraverso il ministro degli Esteri, Heiko Maas. Nacque così, su iniziativa di Berlino, Parigi e Londra e benedetto dal regime di Khamenei, l’Instex – Instrument in Support of Trade Exchanges -, circuito operativo dinon-dollar trade ufficialmente approntato per facilitare le transazioni di beni di natura umanitaria, come cibo, medicinali ed equipaggimento medico.

Ovviamente, un atto solo prodromico per garantire un tetto legale a un ampliamento del suo utilizzo a più ampio raggio e per una serie di commerci che includa anche attività meramente di carattere profit.

La reazione statunitense, chiaramente sostanziata dalla minaccia del Dipartimento di Stato – “O si fa commercio con gli Usa o con l’Iran” -, tradiva la strutturalità dell’operazione a livello di equilibri finanziari mondiali, ben al di là dei miliardi dell’interscambio europeo con Teheran o della messa in discussione pubblica dei diktat di politica estera di Washington. Ora la questione si amplia, visto che molte primarie banche russe hanno appena annunciato la loro adesione alla versione cinese di Swift, China International Payments System (Cips), altro chiaro segnale di sfida all’egemonia statunitense nel campo e di facilitazione non-dollar delle transazioni commerciali fra entità dei due Paesi.

Il tutto, soltanto due giorni dopo la scoperta del fatto che per Mosca il 2018 sia stato un anno da pietra miliare nella strategia di ridimensionamento del dollaro dalle proprie riserve, a favore dell’acquisto di oro fisico.

Soltanto lo scorso mese di febbraio, i lingotti in possesso del Cremlino sono cresciuti di un altro milione di once, portando il totale ad avere un peso percentuale ormai vicino al 20% di tutte le riserve estere russe, come mostra il grafico.

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Il tutto a discapito del dollaro, scaricato a piene mani.

E che il trend stia cominciando a preoccupare a livello di sostenibilità dello status di benchmark globale, lo hanno confermato alla fine di gennaio sia la Fed che il Treasury Borrowing Advisory Committee (Tbac) statunitensi, quest’ultimo fin troppo chiaro nella sua prospettazione della dinamica, quando commentando il calo del peso percentuale del dollaro nelle riserve globale dal 72% del 2000 all’attuale 62%, sentenziava che “il dollaro è ancora la valuta di riserve dominante“.

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Quell’ancora fece suonare più di un campanello d’allarme, soprattutto in tempi di guerra commerciale (e non solo) con Pechino. La reazione di Washington al memorandum commerciale fra Italia e Cina, primo Paese del G7 e dell’Europa che ha appena varato il sistema Instex ad abbracciare il progetto della Belt and Road Initiative (magari con la prospettiva di accordi bilaterali denominati in euro e yuan) e ora i dati dell’Fmi sembrano destinati a far salire ancora la tensione. Perché la posta in palio è quella dell’egemonia economica globale di lungo termine e come fece notare nel suo studio del settembre scorso Alan Ruskin di Deutsche Bank, “nessuno status di valuta di riserva nella storia è mai durato per sempre”. Valse per il fiorino olandese fra il 600 e il 700 del secolo scorso, per la sterlina imperiale, per il franco francese napoleonico e per il Portogallo con il suo escudo fra il 400 e il 500.

Tempo per il greenback di fare i conti con la Storia?