Oh, right, right with the bones!
di IL PEDANTE
Nell’episodio 7 della prima serie di Futurama, Fry deglutisce inavvertitamente l’imperatore Bont del pianeta Trisol, popolato da corpi acquatici alieni, succedendogli al trono. Ma Bont, contrariamente alle apparenze, non è morto. Continua a vivere nel corpo di Fry e da lì invita i suoi sudditi a squarciare l’involucro umano che lo tiene prigioniero. Assediato dai trisoliani armati, Fry chiede aiuto al dott. Zoidberg, lo stravagante medico-mollusco di bordo, il quale lo rassicura:
– Rilassati, Fry. Basterà frullarti in una centrifuga ad alta velocità per separare il fluido più denso di Sua Maestà.
– Ma così non mi romperò le ossa?
– Ah giusto, le ossa! Mi dimentico sempre delle ossa.
La scena mi è ritornata in mente leggendo un articolo recente del Sole 24 Ore che, dice nel titolo, «Se tutti pagassero le tasse il debito pubblico si estinguerebbe in 18 anni».
Ora, so che è difficile. Ma invito i lettori a non soffermarsi sul fatto che i titoli di debito pubblico hanno una scadenza e che non rinnovarli per «estinguerne» il montante equivarrebbe a sottrarre allo Stato italiano 2.250 miliardi, catapultandolo nel Quarto Mondo. Non sono queste ovvietà – forse non tali per il nostro principale quotidiano economico – che qui ci interessano. È invece l’ipotesi magica sottostante: che il debito pubblico italiano, e quindi anche la necessità di ricorrervi obbligatoriamente per finanziare i servizi dello Stato, e di rinunciare a quei servizi e di liquidare tranci di patrimonio collettivo per ammansire i tassi di interesse, non è il problema. Che nel sistema non c’è nulla di sbagliato, va anzi bene così. Il problema («Oh, right, right with the bones!») sono invece gli italiani: sono gli esseri umani.
I quali, spiega l’autore citando una ricerca universitaria, «nelle statistiche… in media si abbassa[no] il reddito del 15%». E poiché «la propensione a mentire è coerente con l’inclinazione a occultare i redditi anche nelle dichiarazioni fiscali», sottraggono ogni anno al fisco «tra 124,5 e i 132,1 miliardi». Se invece facessero ciò che non esiste nella realtà umana e che non è mai accaduto in nessun luogo e in nessuna epoca al mondo, se cioè pagassero tutti le tasse (a parità di gettito, ma rinunciando a duemila e passa miliardi di stimolo pubblico: altro che Futurama!), allora sì, il sistema girerebbe senza intoppi, più liscio dell’olio.
Peccato allora per quello sgradevole dettaglio: le persone. Con le loro debolezze, i loro bisogni, le loro paure. Le loro bugie. Negli stessi giorni, un giornalista della stessa testata riformulava lo stesso concetto, dell’inaffidabilità umana, scrivendo di tecnologia blockchain: «Perché alla fine la #blockchaintechnology prenderà piede nella società? Perché l’essere umano sa che in fondo non ci si può fidare di lui. Meglio quindi delegare la trasparenza e tracciabilità dei contratti a una tecnologia». Riformulando: la valutazione dell’affidabilità di una fonte è un bisogno umano, ciò che lo rende libero e discriminante. Quindi? Archiviamo quel bisogno delegando le fonti a ciò che è (nominalmente) non umano.
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Questi esempi non hanno nulla di speciale, se non nel fatto di esprimere forse più nitidamente di altri un’idea dominante, di un agire politico dove gli esseri umani non sono più i beneficiari e la misura delle decisioni, ma il fattore che le scombina, il corpo estraneo che inceppa il meccanismo di progetti altrimenti infallibili. Non i destinatari naturali di un bene, ma i nemici naturali del bene. E in quanto tali, da disinnescare, sconfiggere e costringere nei ranghi di una norma tecnica che risponde a sé stessa e aspira a realizzare sé stessa.
Su questo blog ci siamo imbattuti spesso in questa inversione, il cui raggio d’azione non si limita alla teorie economiche ma tocca tutti gli ambiti delle scienze sociali: dal lavoro alla gestione dei flussi migratori, dalla geopolitica alla medicina. Per i più psicologici, è il consolarsi dell’impotenza di realizzare i propri sogni nel mondo con l’illusione onnipotente di piegare il mondo a quei sogni. In punto di logica è lo shift causale con cui il soggetto agente proietta i suoi fallimenti nell’oggetto. È il siparietto dell’astronomo pasticcione che inveisce contro il cielo stellato perché il sole, contrariamente ai suoi calcoli… non splende a mezzanotte.
Quando fu chiamato a salvare le finanze pubbliche dalla speculazione, il prof. Monti chiarì fin da subito che non avrebbe mosso un dito per fermare le pretese e gli attacchi degli speculatori. Perché il problema era anzi la scarsa compliance delle vittime, sicché si augurò in un’intervista che il suo governo potesse «aiutare gli italiani a modificare la loro mentalità». Ma il vizio non è un’esclusiva di chi serve il capitale. Con simmetrica forza ne seduce anche gli antagonisti più fieri. Secondo i quali, ad esempio, l’ingresso di milioni di persone dall’Africa rappresenterebbe un’occasione di arricchimento politico e culturale, se non l’avanguardia di un’emancipazione globale degli ultimi. Che sarebbe un obiettivo servito sul piatto d’argento della storia se solo («right, with the bones!») le persone non lo schifassero perché egoiste, ignoranti, diffidenti, naturalmente razziste. In entrambi gli esempi, si esalta il proprio ideale postulando l’indegnità dell’altrui reale.
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Per essere davvero pedanti, distinguiamo tre fasi nell’arco di vita delle teorie politiche fallimentari. Al loro esordio (fase scientifico-predittiva) si propongono al pubblico sotto le spoglie di una legge meccanica e lo seducono con la scarna eleganza delle loro formule. Poi, se ammesse alla prova, ai primi inevitabili inciampi si arricchiscono di una sovrastruttura dialettica vieppiù ponderosa per giustificare l’obiettivo mancato (fase apologetico-moralista). Da qui si avviano alla terza e ultima fase. Schiacciate dalle contraddizioni e dai fiaschi, e abbandonate le pretese scientifiche degli inizi, tentano la via disperata: di avverare sé stesse con la violenza sostituendosi alla realtà che ne ha impedita la dimostrazione (fase autopoietico-normativa). In questo stadio terminale si consuma il trapasso epistemologico dalle ipotesi descrittive del metodo scientifico alla pretesa normativa di quello pseudoscientifico. Le leggi tradite dall’esperimento diventano leggi dello Stato, superiores non recognoscentes et sibi principes. Il sole splende di notte per decreto. Due più due fa cinque: così urlava, sotto le torture di un funzionario ministeriale, il protagonista di 1984.
Oggi le finzioni della prima fase sembrano ormai archiviate. Nessuno, ad esempio, si sogna più di dimostrare numericamente i pregi della «austerità espansiva», laddove però tutti continuano a difenderne i fondamenti normativi ricorrendo all’artificio su descritto, di addebitarne i fallimenti a chi la subisce (fase 2). Delle tecniche di questa apologia ci siamo largamente occupati in passato: qui una tassonomia, qui un’analisi del moralismo che le fonda, qui un libro sulle favole di cui si ammanta. Alla luce di quanto scritto, possiamo solo integrare quelle riflessioni osservando come il furor apologetico-moralista interessi in un primo momento categorie precise di soggetti (i giovani, i vecchi, i disoccupati, gli statali, i piccoli imprenditori ecc.) per poi tendere alla cittadinanza tutta in quanto umanamente debole e, quindi, all’umanità in sè.
Mentre i commentatori si attardano sulla fase centrale, i decisori si inoltrano con passo deciso nell’ultima, quella terminale e violenta. Ne Il socialismo dei ricchi le formule della privatizzazione e del mercato «libero» non le realizza la mano invisibile e discreta di Adamo Smith, ma il braccio armato di un legislatore sempre più asfittico e autoritario, grottescamente acconciato da «Stato minimo». Nella recente vicenda delle vaccinazioni obbligatorie, i dubbi sulla loro opportunità sono stati risolti… obbligando medici e pazienti a non porseli, stabilendo d’autorità «l’assenza di effetti negativi sul sistema immunitario e l’assoluta mancanza di legame tra vaccinazioni e altre malattie» (Federazione dell’Ordine dei Medici, 2016) e sequestrando il metodo scientifico nelle segreterie dei partiti. Siamo ormai avanti, molto avanti. Nella campagna elettorale in corso, i messaggi delle autorità sono veri d’ufficio e chi li nega può essere segnalato alla Polizia.
Sicché le due fasi non sono solo conseguenti, ma anche complementari. Osserviamo, ad esempio, come al citato articolo sull’infedeltà fiscale de «gli italiani» facesse eco due giorni dopo su Repubblica un rabbioso dodecalogo anti-evasione dove, tra obbligo di fatturazione elettronica, divieto di transazioni in contanti, presunzioni di reddito, inasprimento del prelievo, degli adempimenti e dei poteri d’indagine, mancava solo la fucilazione dei reprobi. Riuscirebbe questa ulteriore violenza a risollevare le sorti economiche della Nazione? Evidentemente no, dati i precedenti. Ma un’idea frustrata è come un amante respinto in preda alla follia: non si rassegna, aggredisce chi lo ostacola, perseguita chi gli si nega. Fino a odiarlo, fino a distruggerlo.
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Il disagio di un’umanità che non tollera più l’umano è evidente, è in definizione. Dalle stanze dei pensatoi new age il transumanesimo si trasmette alle masse e diventa norma di pensiero. Ma per una nemesi che sarebbe anche comica, il sogno prometeico (luciferino) di esautorare le debolezze degli uomini produce l’incubo inverso di liberarne le forze più infantili e bestiali. Per imporre la perfezione della macchina chiama a sè dapprima gli spettri del castigo, della colpa e della vergogna ripescandoli dai terrori dell’infanzia, poi, tolto ogni freno, la violenza tout-court dove la ragione è del forte, la verità delle armi. E ancora, affidando il veicolo di quel perfezionamento degli uomini… ai prodotti degli uomini – le tecnologie, le teorie politiche ed economiche, il mercato, «la scienza» – li riporta alla superstizione del feticismo e, quindi, alla persecuzione della minoranza eretica che con la sua diffidenza allontana i favori dell’idolo.
Sicché, parafrasando Nietzsche, il transumano è troppo umano. Nel fare strame dei compromessi psicologici e culturali per accogliere un immacolato virtuale, rimuove anche il freno di una faticosa saggezza – perché anch’essa perfettibile, incerta, irriducibile al numero – che nei millenni si è fatta carico di arginare gli istinti più bassi, le paure ancestrali e la legge della foresta.
Meglio allora rassegnarsi al limite? E che ne sarà, che ne è stato, dirà il progressista, del progresso? La domanda si risponde da sé invertendone i termini: se il «progresso» si colloca fuori dall’umano, tutto ciò che è umano diventa «limite» e impedimento. Con il doppio esito di distruggere l’esistente per dare spazio ai fumi delle proprie visioni (rottamazione, mito della radicalità, nichilismo) e quindi anche di sterilizzarne le risorse possibili. La «mentalità» italiana che quel signore di Varese voleva «modificare» in pochi mesi era invece il patrimonio di una civiltà, quella che aveva giurato di servire, da coltivare umilmente per valorizzarne le parti migliori. E la renitenza delle forze produttive a un sistema di finanza pubblica distruttivo e asservito all’usura è forse, più che un bacillo, un segnale di allarme o un anticorpo. E non è transumanizzando i contratti che li si rende più giusti. Nè si rendono più aperte le comunità sbeffeggiandone radici e identità comuni, su cui insistono invece le premesse dell’apertura reciproca. Né si risolve la dialettica tra i sessi annacquandoli nella moltiplicazione, né quella tra le nazioni cancellandone i territori e le leggi, ecc.
Siamo fatti di ossa. Le ossa si spezzano e si ammalano, ci sostengono nel mondo fisico. Le si può usare per correre e nuotare, ma agli abitatori del terzo millennio non basta. Ne temono la fragilità e le anchilosi sicché, come Zoidberg, ci hanno l’idea di frantumarle, di frantumarci, per estrarre l’alieno invincibile e liquido che ci deve salvare.
Resterà loro (e di loro) poltiglia.
Fonte: http://ilpedante.org/post/oh-right-right-with-the-bones
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