Effetti del Quantitative easing
di I DIAVOLI
L’inverno è arrivato. Una spessa coltre di ghiaccio, sotto forma di enorme iniezione di liquidità, ha cristallizzato il panorama economico, finanziario e sociale. Quasi dieci anni fa, i primi focolai della Grande Recessione cominciavano a divampare. Ben presto l’incendio divampò in Occidente. Soltanto la torrenziale pioggia di cartamoneta lanciata dagli elicotteri delle banche centrali, con l’avvio del Quantitative easing, impedì che l’economia globale finisse in cenere. Ma gli effetti del Quantitative easing sono paragonabili a una coltre che ha cristallizzato la volatilità delle piazze borsistiche: oggi, il mondo finanziario vive immobilizzato allo zero termico, in quel glaciale torpore imposto dal pilota automatico delle banche centrali.
Riprendiamo qui sui Diavoli la versione estesa di un articolo sulle conseguenze politiche del Quantitative easing europeo, pubblicato da Guido Brera sul «Corriere della Sera» del 19 dicembre 2017.
L’inverno è arrivato. Una spessa coltre di ghiaccio, sotto forma di enorme iniezione di liquidità, ha cristallizzato il panorama economico, finanziario e sociale.
Quasi dieci anni fa, i primi focolai della Grande Recessione cominciavano a divampare. Ben presto l’incendio divampò in Occidente. Soltanto la torrenziale pioggia di cartamoneta lanciata dagli elicotteri delle banche centrali, con l’avvio del Quantitative easing, impedì che l’economia globale finisse in cenere.
Come a Pompei, duemila anni prima. La missione dei banchieri centrali, lanciata nel 2009 da Bank of England e Federal Reserve, proseguita poi da Bank of Japan e BCE, doveva essere rapida e temporanea: in realtà, quella pioggia torrenziale si è trasformata in un diluvio e, infine, in una silenziosa, lenta, costante, interminabile caduta di neve.
Una coltre che ha cristallizzato la volatilità delle piazze borsistiche e come conseguenza i rischi a esse associati: oggi, il mondo finanziario vive immobilizzato allo zero termico, in quel glaciale torpore imposto dal pilota automatico delle banche centrali.
Si è consumato un secolo, breve, da quando John M. Keynes scrisse Le conseguenze economiche della pace, dove illustrava le durissime condizioni imposte alla Germania dopo la Grande Guerra del ‘15-‘18, anticipando profeticamente quello che sarebbe divenuto il baratro di Weimar e la tragedia che ne derivò.
Anche in questi ultimi due lustri abbiamo avuto una guerra. Un nuovo conflitto planetario provocato da quattro cause.
La globalizzazione ha innestato un mostruoso negoziato sul costo del lavoro, con conseguente delocalizzazione delle unità produttive in Paesi dove i lavoratori sono pagati pochissimo. L’arbitraggio fiscale con molte società, specie quelle tecnologiche, che hanno spostato sede e copyright nei paradisi fiscali. L’euro, in virtù della sua parziale realizzazione, ha creato l’egemonia della nazione mercantilista par excellence, la Germania, e la sofferenza della periferia europea avviluppata nella gabbia della moneta unica. In ultimo, la ritirata delle socialdemocrazie a favore delle banche, pronte a sostituirsi al welfare state nel soddisfacimento dei bisogni degli individui.
La miscela di questi elementi si è rivelata esplosiva, e al pari di un vero e proprio conflitto ha creato vincitori e vinti: non tra gli Stati ma tra soggetti produttivi e tra classi sociali. A porre rimedio sono intervenuti i banchieri centrali: ultimo baluardo contro il caos.
Questo era l’obiettivo della prima fase del Qe: stabilizzare. Il programma di acquisto delle banche centrali doveva agire attraverso tre canali. Ridurre i tassi di interessi governativi (consentendo agli stati sovrani un risparmio massiccio di spesa per gli interessi sul debito pubblico, e permettendo così di finanziare agevolmente piani di stimolo all’economia); stimolare i prestiti all’economia reale attraverso il canale creditizio (anche se solo poche gocce di quella liquidità sono poi finite davvero alle imprese o alle famiglie); e influenzare il tasso di cambio (l’espansione della massa monetaria indebolisce il tasso di cambio e favorisce le esportazioni, rendendo più costoso importare).
Così arrivò l’autunno. La torrenziale pioggia di liquidità del Qe ingrossò a dismisura il mare dei mercati finanziari, riversando in quelle acque tempestose, dall’inizio del 2009 a oggi, ben 10.6 miliardi di dollari. La Federal Reserve americana ha immesso 3.6 miliardi, la Bank of Japan 3.5, la Banca Centrale Europea 3.1 miliardi di euro. Infine la Bank of England, “solo” 458 milioni di sterline.
Ma quale era il vero scopo? Forse, l’unica ad averlo svelato apertamente è stata la Bank of Japan, quando – nel settembre 2016 – annunciò che l’obiettivo primario era il controllo del tasso di interesse del Governativo a dieci anni, ovvero la necessità di ancorarlo al livello dello zero assoluto. Ed ecco il nevoso inverno dopo la pioggia d’autunno.
Al di là del metaforico passaggio stagionale, lo scarto concettuale, e sostanziale, è dirompente: nella prima forma del Qe il fine ultimo è il controllo dell’espansione della massa monetaria; ora, invece, la massa monetaria è il mezzo per controllare e stabilire ex ante il livello di un asset finanziario. Nessuna delle altre tre banche centrali è arrivata a un annuncio formale così esplicito, ma sostanzialmente hanno raggiunto, senza proclami pubblici, lo stesso obiettivo.
Hanno portato i tassi di interesse in prossimità dello zero assoluto, fissando – o, meglio, congelando – i prezzi, degli asset finanziari e non solo. Come nell’ultimo romanzo di Don De Lillo, Zero K, per fermare la morte hanno sospeso la vita.
Il Generale Inverno ha vinto, ha spento i focolai della Grande Recessione, ha estinto i fuochi della prima vera Guerra Globale. Il celebre, coraggioso, e dovuto “whatever it takes” di Mario Draghi ha stroncato la crisi sistemica dell’Europa, ristabilendo le simmetrie tra paesi creditori e debitori, facendo precipitare lo spread.
La grande paura di inizio 2016 è stata tamponata dall’annuncio della BCE del Qe sui corporate bonds. Bank of England ha reagito prontamente alla volatilità provocata dal referendum sulla Brexit lanciando l’ennesimo round di QE. Sono solo tre dei tanti, recenti esempi d’intervento duro e deciso delle banche centrali nella partita dei mercati. Pur lasciando all’apparenza liberi gli operatori di fissare il livello dei prezzi, hanno monitorato con attenzione che tutto si svolgesse ordinatamente all’interno del perimetro del campo (dei prezzi) da loro tracciato.
L’avviso ai mercati è stato chiaro: la volatilità non può essere tollerata oltre una certa soglia, quindi siamo pronti a reagire a eventuali eccessi. Ma congelare la volatilità ha significato implicitamente fissare il livello degli asset finanziari.
La marea di liquidità ha spinto gli investitori alla ricerca del rendimento più elevato, obliando il primo assioma della finanza: la relazione rischio-rendimento degli investimenti. La magica bacchetta del Qe ha fatto salire tutto. Tutto era in ascesa, ma cosa più importante, ciò avveniva all’apparenza senza rischio alcuno. Il patto del diavolo tra investitori e banche centrali a prima vista sembrava funzionare. Tanto che l’«Economist» a ottobre 2017 ha titolato “Bull market in everything”.
L’inverno del QE è seguito alla rovente estate della Guerra Globale a al malinconico autunno della Grande Recessione. La pioggia di cartamoneta ha spento le fiamme della crisi. La coltre di neve sembra aver immobilizzato la scena della finanza internazionale.
Tuttavia, sotto l’uniforme manto di bianco, sotto lo strato di ghiaccio, qualcosa continuava a muoversi: negli ultimi anni il debito globale è salito in maniera vertiginosa. Oggi è pari a 325 miliardi di dollari, il 325% del Prodotto interno lordo mondiale. La questione cruciale che domina le dinamiche dei mercati, le scelte fatte ai piani che contano, era e rimane il debito.
Azzerando la percezione del rischio e abbassando drammaticamente i costi di finanziamento, è esplosa la leva finanziaria, e l’utilizzo del debito stesso per comprare beni d’ogni genere. Ma a “utilizzare” il debito ovviamente non sono state le classi più deboli, che non dispongono di patrimoni da fornire a garanzia dei prestiti, bensì quelle più forti.
Celate sotto il candore del nevischio, hanno potuto usato il leverage per acquistare, generando così un rialzo prima di tutto degli asset finanziari, poi di quelli reali e globali che un tempo si chiamavano beni rifugio. E oggi sono divenuti veri e propri asset-trofeo per i vincitori di questo tempo.
È a quest’altezza che si consuma un cambio di paradigma: l’effetto, nemmeno troppo imprevedibile del QE. Quando la pioggia di denaro ha inondato i mercati, il ghiaccio ne ha cristallizzato le diseguaglianze. Azzerando la volatilità, con tassi artificiosamente bassi e una crescita globale tonica e costante, il risultato ha coinciso con l’aumento dei prezzi dei beni finanziari.
Come un fiume che esonda, l’acqua è andata a irrigare i terreni circostanti rendendoli fertili e rigogliosi. Come accadeva nell’antico Egitto grazie al lavoro costante del Nilo, così tuti i patrimoni reali in qualche modo finanziarizzabili hanno conosciuto un rally senza precedenti.
Dagli orologi alle opere d’arte, dai vini pregiati alle auto d’epoca, fino al prezzo di alcuni calciatori e delle più usate criptovalute: tutti beni spesso appannaggio esclusivo di una fascia assai ristretta di persone che, oltre a registrare performance stellari sui soldi investiti nei mercati, si sono ritrovati quasi incidentalmente a guadagnare cifre stellari dai loro hobby.
La pioggia, anziché ridurre il gap finanziario tra l’1% della popolazione e gli altri, lo ha esasperato ancora di più. Non tramite l’investimento di capitali nell’economia produttiva, ma perché la collezione privata di vini pregiati in cantina e quella di orologi nei caveau di qualche banca hanno triplicato il loro valore.
L’inverno è arrivato, annunciava la prima puntata di Games of Thrones. Ma come nella serie televisiva, anche nell’economia reale l’inverno non ha portato la pace. Dopo la prima Guerra Globale sembrava che i banchieri centrali fossero l’ultimo baluardo contro il caos, e in una certa misura lo sono stati.
Eppure il Qe, dovuto e necessario, ha ristabilito alcune simmetrie ma ne ha create altre ancora più mostruose. Del Qe hanno beneficiato soprattutto i vincitori dell’ultima guerra di classe: i forti, che per difendere il loro patrimonio dall’erosione del potere d’acquisto della moneta, hanno comprato beni di lusso dal fascino globale, hanno comprato azioni, hanno comprato aziende e spesso sono ricorsi pesantemente all’uso del debito visti i costi bassissimi a cui il denaro veniva loro offerto.
A terra non è arrivato nulla, o quasi. I soldi generati e moltiplicati dal QE sono rimasti – quasi scientificamente – in un cloud dove solo i billionaire giocano a comprare tutto e a inflazionare i prezzi. E se quest’inflazione a chi sta in basso sembra innocua, perché al 99% che detiene meno ricchezza del 1% della popolazione non importa se uno sceicco decide di pagare Neymar 2 milioni o 222 milioni, è solo per un inganno prospettico, per un gioco di prestigio di abili illusionisti.
Mentre il valore di Neymar e degli altri asset-trofeo aumentava a dismisura, il Generale Inverno del Qe imponeva l’austerità e si cibava del welfare, divorando sanità, istruzione e servizi pubblici. E l’inflazione alzava i prezzi dei beni primari: ad esempio delle case, dando origine a quel fenomeno di gentrificazione urbana che ha spinto la classe media impoverita sempre più alla periferia della città globale, dell’impero, della vita.
Se le politiche monetarie sono intervenute, giustamente, a colmare il vuoto lasciato dalla politica, è giunto il tempo che la politica prenda atto di questa situazione e riprenda in mano le redini della governance globale, attraverso la messa in atto di un piano Marshall capace di far ripartire in modo costante e ampio l’economia reale.
Perché solo una crescita duratura e allargata a tutti i settori produttivi e a tute le classi sociali è antidoto all’esplosione del debito e del malcontento.
Cento anni fa, Keynes scrisse che dopo la Grande Guerra non ci si stava avviando verso la pace, bensì si stava precipitando verso un nuovo baratro.
Dopo il lungo inverno del Qe, la primavera tarda ad arrivare. E chissà se arriverà di nuovo.
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